San Francesco e la liturgia: perché per il santo di Assisi non si può essere salvi senza riconoscere Cristo presente nell’eucarestia?, di Andrea Lonardo
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Francesco d’Assisi. Vedi, in particolare, Francesco predicava ore e ore nelle diverse piazze e città d'Italia. I testi delle fonti che raccontano delle sue prediche pubbliche, anche dinanzi a uccelli e lupi, di Andrea Lonardo e Questioni storiche sulla norma di Francesco d'Assisi relativa alla predicazione e alla testimonianza di coloro che vanno in missione presso i musulmani. Breve nota di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (14/7/2019)
Bonaventura Berlinghieri (1235),
San Francesco d'Assisi e storie della sua vita.
In diverse scene si vede San Francesco
rappresentato vicino all'altare, in particolare
in quella in alto a destra è evidente il rapporto
fra il suo servizio e la mensa dell'altare
Tommaso da Celano scrive che Francesco «voleva che si dimostrasse grande riverenza alle mani del sacerdote, perché a esse è stato conferito il potere di consacrare questo sacramento. Diceva spesso: “Se mi capitasse di incontrare insieme un santo che viene dal cielo e un sacerdote poverello, saluterei prima il sacerdote e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: Oh! Aspetta, san Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo della vita (cfr. 1 Gv 1, 1) e possiedono un potere sovrumano!”»[1].
Prima l’eucarestia, poi la santità: impressionante! Ma perché?
Perché Francesco d’Assisi aveva fede che lo stesso Cristo fattosi carne a Betlemme, lo stesso Cristo presente nell’ospite e nel povero, lo stesso Cristo riproposto dai santi, era lo stesso Cristo totalmente presente nell’eucarestia.
Francesco giunse ad affermare che chi non avesse creduto nel Cristo presente nell’eucarestia sarebbe stato condannato. Troviamo l’affermazione netta nella prima Ammonizione - scritto autentico di mano di Francesco e non romanzato come alcuni episodi dei suoi Fioretti o delle sue Vite - che recita testualmente:
«Tutti quelli che vedono il sacramento, che viene santificato per mezzo delle parole del Signore sopra l’altare nelle mani del sacerdote, sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo spirito e la divinità, che è veramente il santissimo corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati, perché è l’Altissimo stesso che ne dà testimonianza»[2].
La nettezza di tale affermazione non nasce dalla pretesa di stabilire il destino dei singoli e del loro giudizio al cospetto di Dio, bensì intende tener fermo quel punto che giova agli uomini perché trovino la vita: Francesco dichiara con forza che chi lo trascurasse troverebbe tristezza e insensatezza del vivere.
Nel Testamento – anch’esso senza alcun dubbio di mano del santo stesso – Francesco dichiara che la sua venerazione dei sacerdoti, anche peccatori - quella venerazione che egli raccomanda a tutti, pena la perdita della via della vita - non dipende dalla santità dei medesimi, ma semplicemente e profondamente, dal fatto che essi ed essi soli danno al mondo l’eucarestia e solo in essa è possibile “vedere” corporalmente Gesù in terra:
«Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e trovassi dei sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io discerno il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri»[3].
In queste parole del testamento è evidente la fede di Francesco in quella che la teologia chiama la dottrina dell’ex opere operato, cioè la fede che la consacrazione dell’eucarestia non avviene in virtù della fede e della carità del sacerdote che celebra, bensì in virtù dell’atto stesso della messa, poiché è Cristo che si serve del sacerdote per donarsi nella comunione ai fedeli, anche se il sacerdote non fosse all’altezza del suo ministero.
L’eucarestia, insomma, è sempre vera e totale e chi riceve la comunione non la riceve di meno o di più se il sacerdote è in peccato mortale o in stato di santità perfetta – il che non implica ovviamente che sia la stessa cosa dal punto di vista del sacerdote, poiché egli deve confessarsi quando è nel peccato e convertirsi. Altrimenti, ogni volta che il credente dovesse ricevere la comunione da un sacerdote peccatore non potrebbe riceverla o, non conoscendo il peccato del ministro, la riceverebbe solo in apparenza.
Francesco insiste più volte sul fatto che bisogna ricevere la comunione dai chierici che vivono «secondo la forma della santa Chiesa romana», cioè che sono stati ordinati realmente da un vescovo, perché è l’ordinazione che permette ad essi di consacrare l’eucarestia, facendo sì che il pane diventi il copro di Cristo:
«Beato il servo di Dio che ha fede nei chierici che vivono rettamente secondo la forma della santa Chiesa romana. E guai a coloro che li disprezzano; quand'anche infatti siano peccatori, tuttavia nessuno li deve giudicare, poiché il Signore in persona riserva solo a se stesso il diritto di giudicarli. Infatti, quanto maggiore di ogni altro è il ministero che essi svolgono riguardo al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri, così quelli che peccano contro di loro hanno un peccato tanto più grande, che se peccassero contro tutti gli altri uomini di questo mondo»[4].
Quello che il santo di Assisi dice ai frati lo ripete a tutti i fedeli, a tutti i cristiani, negli scritti che rivolge loro:
«Dobbiamo anche visitare frequentemente le chiese e venerare e usare riverenza verso i chierici, non tanto per loro stessi, se sono peccatori, ma per l'ufficio e l'amministrazione del santissimo corpo e sangue di Cristo, che essi sacrificano sull'altare e ricevono e amministrano agli altri. E tutti dobbiamo sapere fermamente che nessuno può essere salvato se non per mezzo delle sante parole e del sangue del Signore nostro Gesù Cristo, che i chierici pronunciano, annunciano e amministrano. Ed essi soli debbono esserne ministri e non altri»[5].
Anche qui è evidente che Francesco invita a fissare lo sguardo sul sacramento, anche quando gli uomini che lo celebrano non dovessero essere all’altezza.
Ai frati ordinati sacerdoti, invece, chiede con forza la fede e la carità, unitamente alla purezza. Mentre invita i fedeli a venerare l’eucarestia per fede, nonostante l’inadeguatezza dei ministri, ai ministri stessi chiede di essere coerenti fino alla santità con il sacramento che celebrano:
«Prego poi nel Signore tutti i miei frati sacerdoti, che sono e saranno e desiderano essere sacerdoti dell'Altissimo, che quando vorranno celebrare la Messa, puri e con purezza compiano con riverenza il vero sacrificio del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, con intenzione santa e monda, non per motivi terreni, né per timore o amore di alcun uomo, come se dovessero piacere agli uomini (cfr. Ef 6, 6; Col 3, 22)»[6].
È evidente così la duplice attenzione di Francesco: al popolo chiede la fede nell’eucarestia, ai sacerdoti chiede la santità nell’essere tali. Egli scrive ancora, mostrando come la celebrazione dell’eucarestia sia pari al Natale:
«Ascoltate, fratelli miei. Se la beata Vergine è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo grembo; se il Battista tremò di gioia e non osò toccare il capo santo del Signore; se è venerato il sepolcro, nel quale egli giacque per qualche tempo; quanto deve essere santo, giusto e degno colui che tocca con le sue mani, riceve nel cuore e con la bocca e offre agli altri perché ne mangino, Lui non già morituro, ma in eterno vivente e glorificato, sul quale gli angeli desiderano volgere lo sguardo (1 Pt 1, 12)!»[7].
L’importanza assoluta che Francesco attribuisce all’eucarestia, poiché solo essa dà il pane della vita, senza il quale si muore e senza la quale non si ha la forza per essere uomini di fede e di carità, è evidente anche dalle sue raccomandazioni – anch’esse assolutamente autentiche - perché i calici, le patene, gli altari, le tovaglie e così via non siano di materiale vile, di legni o di terracotta, bensì di metallo prezioso, d’oro o d’argento.
Tale norma di Francesco non intende assolutamente dare valore ai tradizionalisti, quasi che la liturgia sia determinata da pizzi e merletti. Assolutamente no! Egli intende, invece, sottolineare con forza che, se il ministro deve essere personalmente povero e vivere poveramente, la cura invece degli oggetti della liturgia, la preziosità dei metalli, la pulizia delle tovaglie e dei corporali appartiene all’ordine dei segni. L’eucarestia merita l’utilizzo di bellezza, di pulizia, di oggetti preziosi e artisticamente validi, perché in questo modo essa fa percepire a chi si accosta come fedele che lì è veramente presente il Cristo tutto intero presente nel suo corpo.
Francesco così scrive:
«Vi prego, più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici che debbano venerare sopra ogni cosa il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo.
I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, debbano averli di materia preziosa.
E se in qualche luogo il santissimo corpo del Signore fosse collocato in modo troppo miserevole, secondo il comando della Chiesa venga da loro posto e custodito in un luogo prezioso, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione»[8].
Calice di Guccio della Mannaia, regalato da
Niccolò IV alla basilica di San Francesco ad Assisi
Nella Lettera ai chierici ripete le stesse raccomandazioni insistendo sui “nomi e le parole” cioè sui libri liturgici, necessari per celebrare la messa, o sui Lezionari nei quali sono contenute le letture bibliche per la celebrazione:
«Tutti coloro, poi, che amministrano così santi misteri, considerino tra sé, soprattutto chi li amministra illecitamente, quanto siano vili i calici, i corporali e le tovaglie, dove si compie il sacrificio del corpo e del sangue di lui.
E da molti viene collocato e lasciato in luoghi indecorosi, viene trasportato in forma miseranda e ricevuto indegnamente e amministrato agli altri senza discrezione.
Anche i nomi e le parole di lui scritte talvolta vengono calpestate con i piedi, perché «l’uomo animale non comprende le cose di Dio».
Non dovremmo sentirci mossi a pietà per tutto questo, dal momento che lo stesso pio Signore si mette nelle nostre mani e noi lo tocchiamo e lo assumiamo ogni giorno con la nostra bocca? Ignoriamo forse che dobbiamo venire nelle sue mani?
Orsù, di tutte queste cose e delle altre, subito e con fermezza emendiamoci; e dovunque il santissimo corpo del Signore nostro Gesù Cristo sarà stato collocato e abbandonato in modo illecito, sia rimosso da quel luogo e posto e custodito in un luogo prezioso.
Ugualmente, dovunque i nomi e le parole scritte del Signore siano trovate in luoghi immondi, siano raccolte e debbano essere collocate in luogo decoroso.
Tutte queste cose, sino alla fine, tutti i chierici sono tenuti ad osservarle più di qualsiasi altra cosa.
E quelli che non faranno questo, sappiano che dovranno renderne «ragione» davanti al Signore nostro Gesù Cristo «nel giorno del giudizio».
Questo scritto, perché meglio lo si debba osservare, sappiano di essere benedetti dal Signore Iddio, quelli che l’avranno fatto ricopiare»[9].
È Tommaso da Celano a esprimere in sintesi l’amore di Francesco per l’eucarestia:
«Ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il sacramento del corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità. Riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare ogni giorno la messa, anche se unica, se il tempo lo permetteva.
Si comunicava spesso e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri. Infatti, essendo colmo di riverenza per questo venerando sacramento, offriva il sacrificio di tutte le sue membra e, quando riceveva l’agnello immolato, immolava lo spirito in quel fuoco che ardeva sempre sull’altare del suo cuore.
Per questo amava la Francia, perché era devota del corpo del Signore, e desiderava morire in essa per la venerazione che aveva dei sacri misteri.
Un giorno volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero nel luogo più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conservato con poco decoro»[10].
Spesso dimenticato è anche il fatto che il primo presepe di Greccio venne realizzato in funzione dell’eucarestia di Natale. Francesco volle la povertà del luogo e gli animali, perché il sacerdote celebrasse proprio lì la Natività con Cristo presente nell’eucarestia. La celebrazione aveva per lui - e per la Chiesa intera - lo stesso valore dell’incarnazione:
«La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo.
Meditava continuamente le parole del Signore e non perdeva mai di vista le sue opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente gli riusciva di pensare ad altro.
A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore. C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima.
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole. Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria. Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia»[11].
Note al testo
[1] Tommaso da Celano, Vita seconda (o Memoriale nel desiderio dell'anima), 201 (scritto negli anni 1246-1247; FF 789).
[2] Francesco d’Assisi, Ammonizioni I (FF 142). Il corpo del Signore. Il testo integrale dell’Ammonizione I è il seguente: «Il Signore Gesù dice ai suoi discepoli: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per me. Se aveste conosciuto me, conoscereste anche il Padre mio; ma da ora in poi voi lo conoscete e lo avete veduto”. Gli dice Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gesù gli dice: “Da tanto tempo sono con voi e non mi avete conosciuto? Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio” (Gv 14,6-9).
Il Padre abita una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16), e Dio è spirito, e nessuno ha mai visto Dio (Gv 4,24 e Gv 1,18). Perciò non può essere visto che nello spirito, poiché è lo Spirito che dà la vita; la carne non giova a nulla (Gv 6,64). Ma anche il Figlio, in ciò per cui è uguale al Padre, non può essere visto da alcuno in maniera diversa dal Padre e in maniera diversa dallo Spirito Santo.
Perciò tutti coloro che videro il Signore Gesù secondo l’umanità, ma non videro né credettero, secondo lo spirito e la divinità, che egli è il vero Figlio di Dio, sono condannati. E così ora tutti quelli che vedono il sacramento, che viene santificato per mezzo delle parole del Signore sopra l’altare nelle mani del sacerdote, sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo spirito e la divinità, che è veramente il santissimo corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati, perché è l’Altissimo stesso che ne dà testimonianza, quando dice: “Questo è il mio corpo e il mio sangue della nuova alleanza [che sarà sparso per molti] (Mc 14,22.24), e ancora: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna” (cf. Gv 6,55).
Per cui lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e il sangue del Signore. Tutti gli altri, che non partecipano dello stesso Spirito e presumono ricevere il santissimo corpo e il sangue del Signore, mangiano e bevono la loro condanna (cf. 1Cor 11,29). Perciò: Figli degli uomini, fino a quando sarete duri di cuore? (Sal 4,3). Perché non conoscete la verità e non credete nel Figlio di Dio? (cf Gv 9,35).
Ecco, ogni giorno egli si umilia (cf. Fil 2,8), come quando dalla sede regale (cf. Sap 18,15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero.
E in tale maniera il Signore è sempre presente con i suoi fedeli, come egli stesso dice: “Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo” (Mt 28,20)».
[3] Francesco d’Assisi, Testamento, 6-10 (FF 111-113; il testamento è dell’anno 1226).
[4] Francesco d’Assisi, Ammonizioni, XXVI, 1-4 (FF 176).
[5] Francesco d’Assisi, Lettera ai fedeli, VI (FF 193).
[6] Francesco d’Assisi, Lettera a tutto l'Ordine, 14 (FF 218).
[7] Francesco d’Assisi, Lettera a tutto l'Ordine, 21-22 (FF 220).
[8] Francesco d’Assisi, Lettera ai custodi 2-4 (FF 241).
[9] Francesco d’Assisi, Lettera ai chierici I (FF 208-209). La stessa raccomandazione si trova nel testamento, dove Francesco afferma: «E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. E i santissimi nomi e le parole di lui scritte, dovunque le troverò in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in luogo decoroso» (FF 114).
[10] Tommaso da Celano, Vita seconda, 201 (FF 789).
[11] Tommaso da Celano, Vita prima, XXX, 84-86 (FF 468-470).