Non la parola prima della testimonianza e nemmeno la testimonianza prima della parola. Bensì la testimonianza e la parola nel concreto dispiegarsi della vita, perché il Vangelo non si incontra mai allo “stato puro”. Breve nota di Andrea Lonardo su di un’importante questione dell’evangelizzazione, per non rimanere impantanati in discussioni senza fine
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Riprendiamo sul nostro sito una breve nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Annuncio del vangelo.
Il Centro culturale Gli scritti (16/6/2019)
Chi proclama che l’annuncio avviene nella parola, nella parresia di una parola forte, nella proclamazione del kerygma di Cristo risorto, si accorge poi di dover abbracciare semplicemente una persona in silenzio in occasione di un lutto o di non essere autorizzato a parlare in un contesto laico come l’inaugurazione di un anno accademico o di una seduta parlamentare.
Allo stesso modo coloro che sostengono che non si debba parlare di Cristo se non a partire dalla testimonianza di vita e, quindi, che si debba prendere la parola solo dopo che l’altro ti abbia interrogato, eccoli intervenire, giustamente, con discorsi sui temi sociali dell’immigrazione o del fine vita, senza attendere che l’interlocutore lo interpelli.
Prese teoricamente e in astratto le opposte posizioni di chi ritiene che la parola del kerygma o la testimonianza silenziosa siano le chiavi dell’annuncio cristiano dimenticano semplicemente una questione decisiva.
E cioè che solo se il cristiano fosse un individuo singolo e socialmente isolato avrebbe senso porre la questione del primato/precedenza della parola o del primato/precedenza del gesto come degli assoluti indiscutibili: solo in questo caso, infatti, il singolo dovrebbe decidere in proprio se parlare o meno, oppure se tacere, lasciando parlare prima i gesti.
Il cristiano, invece, è posto sempre in una società che è viva. In questo modo egli interagisce in un contesto in cui ognuno e la società tutta insieme continuamente agiscono, parlano, prendono decisioni, lanciano sfide, peccano, sperano, costruiscono e distruggono. Il cristiano interagisce in un mondo dove esistono le famiglie e i sindacati, le leggi e le istituzioni, i social e i media.
È ben per questo che talvolta verrà prima la testimonianza e altre volte prima la parola, anche perché tutto è perennemente in evoluzione con situazioni impreviste e imprevedibili: a volte il cristiana sarà obbligato a parlare senza essere stato prima conosciuto, altre volte potrà prima testimoniare e solo dopo spiegarsi. A scuola o all’università, se docente, dovrà certamente prima parlare, mentre se è in un pronto soccorso dovrà prima agire e agire immediatamente.
Sarà obbligato a prendere posizione, ad esprimersi ad agire e a spiegare preventivamente, illustrando dove si rischia di cadere o quali prospettive si stanno aprendo in positivo.
Infatti, nella società in cui vive, la parola e il gesto non riguarderanno direttamente il kerygma, se non raramente. Il Vangelo, infatti, non illumina solo il “mistero” di Dio, ma anche quello dell’uomo nelle sue relazioni costitutive come la paternità e la maternità, la famiglia, l’accoglienza, la cura del povero e del piccolo, la dimensione educativa e sociale.
Fu per me illuminante anni fa una splendida considerazione dell’allora Custode di Terra Santa Pierbattista Pizzaballa che affermava: “Il fatto che noi non annunciamo direttamente il kerygma agli israeliani ebrei non significa che noi stiamo zitti se viene discussa sui quotidiani la questione dell’aborto o dell’acqua e della mobilità dei palestinesi, così come se si tratta delle modalità di acquisizione della cittadinanza. Noi interveniamo con parresia, senza essere stati interpellati, anche se i nostri interventi non contengono esplicitamente il nome di Gesù Cristo. Ma certamente le persone che ascoltano le nostre prese di posizione capiscono dalle nostre riflessioni e dai nostri interventi scritti o a voce che siamo cristiani e capiscono la novità cristiana dalle nostre parole come dai nostri gesti”.
La riflessione di Pizzaballa non ha bisogno di commenti e mostra come la precedenza della parola o del gesto sia questione assolutamente teorica che raramente si pone nel concreto dell’azione pastorale della Chiesa: essa sempre testimonia e sempre contemporaneamente parla, essa sempre agisce in dialogo con ciò che avviene nella società o addirittura precorre i tempi.
Brambilla offrì, in una relazione alla diocesi di Roma, una prospettiva teologica che aiuta a comprendere quanto fin qui sostenuto: «Una diffusa interpretazione dell’evangelizzazione nei termini di formazione spirituale, catechetica, liturgica e anche caritativa è attraversata da una sorta di sindrome “fondamentalista”. Si fa valere la parola, l’evangelo, la spiritualità, lo stesso gesto della carità a monte della loro capacità di interpretare le forme pratiche della vita e le mediazioni culturali nelle quali inevitabilmente s’inseriscono. Forse perché il processo interpretativo dell’esistenza è più complesso, si cerca una scorciatoia in una sorta di offerta della “nuda” parola e dell’evangelo “puro”, in una spiritualità che non riesce ad assumere e a discernere scelte di vita con cui disporre di sé nel tempo presente. Per questo dobbiamo focalizzarci sulla questione educativa: per prendere coscienza che noi trasmettiamo sempre vangelo (e valori) dentro forme pratiche di vita, ma consegnando questi dovremo continuamente non annunciare noi stessi o i nostri modi di vivere, ma proprio il vangelo di Gesù. Il Vangelo non s’incontra allo stato puro, ma dentro un volto e una storia, a condizione che questi volti e queste storie di vita dicano Lui e non noi stessi»[1].
Nella stessa linea sono decisive le parole di papa Francesco in Evangelii Gaudium, quando afferma: «Evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio. Ma “nessuna definizione parziale e frammentaria può dare ragione della realtà ricca, complessa e dinamica, quale è quella dell’evangelizzazione, senza correre il rischio di impoverirla e perfino di mutilarla”. Ora vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice. Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità» (EG 176-177).
Note al testo
[1] F.G. Brambilla, relazione L’impegno della comunità ecclesiale per la responsabilità dei cristiani di annunciare Gesù Cristo, Basilica di San Giovanni in Laterano, 18/6/2013.