1/ Il professor Vavilov è morto. Due volte. Il difficile rapporto tra la scienza e il potere politico nella Russia di ieri e di oggi, di Giovanni Boaga 2/ [Il marxismo sovietico, contro Darwin, scelse Lamarck e mandò a morire i genetisti darwinisti nei Gulag] Il dittatore e la scienza. Quando Stalin riscrisse la genetica, di Franco Prattico
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1/ Il professor Vavilov è morto. Due volte. Il difficile rapporto tra la scienza e il potere politico nella Russia di ieri e di oggi, di Giovanni Boaga
Riprendiamo dal sito https://giovanniboaga.blogspot.com/ un articolo di Giovanni Boaga, pubblicato il 13/6/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.
Per studi più dettagliati e con bibliografia acclusa, cfr. S. Tagliabue, I rapporti tra scienza e filosofia in URSS, in L. Geymonat (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, Il novecento (3), Milano, Garzanti, 1981, pp. 377-489; G. Bosio, La genetica russa sta ritrovando la sua strada, in "Civilità cattolica" 1956 (3), pp. 43-51; M. Viganò, Il caso Lysenko: un dibattito che continua. Ancora sulla neutralità della scienza, in Civilità cattolica" 1977 (3), pp. 222-234. Tagliabue ricorda in particolare come non fu solo Vavilov a pagare con la vita per le sue ricerche scientifiche, ma che anche "alcuni fra i suoi più stretti collaboratori e amici furono arrestati e perirono poi in prigione" (p. 440).
Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2019)
Nikolaj Ivanovič Vavilov
Il 26 gennaio 1943 muore a Saratov, una cittadina della Russia europea attraversata dal Volga, Nikolaj Ivanovič Vavilov. Nominato da pochi mesi membro straniero della Royal Society di Londra e vincitore per tre volte del Premio Lenin, Vavilov lasciava alle sue spalle una carriera di grande scienziato e organizzatore culturale, dalla fondazione dell’Accademia pansovietica di Scienze Agrarie “Lenin” alla direzione per quasi un decennio della Società pansovietica di Geografia e dell’Istituto di Genetica dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica.
Una grande personalità scientifica, riconosciuto dalla comunità mondiale come un precursore degli studi sulla biodiversità, si spegneva a cinquantanove anni non nella quiete della sua casa ma in un carcere sovietico, dopo che la sua condanna a morte era stata commutata in venti anni di prigione. Quali gravi delitti aveva commesso un membro così importante della cultura sovietica della prima metà del XX secolo? Uno solo: essere uno scienziato.
La società nata dalla rivoluzione d’ottobre poteva organizzarsi facendo a meno della scienza? Naturalmente no, visto lo stato di profonda arretratezza in cui versavano l’industria e l’agricoltura. Di conseguenza gli scienziati russi degli anni Venti, e tra loro il neodarwinista Vavilov, ebbero una certa libertà d’azione, considerati dai vertici del partito indispensabili «specialisti borghesi». Basti pensare che l’Accademia Russa delle Scienze, fondata nel 1724 da Pietro il Grande sul modello dell’Accademia delle Scienze di Parigi, fu l’ultima delle istituzioni zariste a essere riformata dopo la rivoluzione.
Ma nel 1930, con il consolidamento del potere nelle mani di Stalin, l’Accademia subì una bolscevizzazione che la trasformò ben presto in un organo della burocrazia statale, fenomeno che coinvolse tutte le grandi istituzioni scientifiche e che segnò profondamente i rapporti tra il potere politico e la comunità scientifica.
Trofim Denisovič Lysenko
Nonostante il grande sviluppo di alcuni settori della scienza, dovuto agli ingenti sforzi economici e umani messi in campo, da quel momento il contrasto con la filosofia dominante si acuì. La visione totalizzante del mondo del materialismo dialettico entrò apertamente in conflitto con le conquiste della relatività e della meccanica quantistica, considerate espressioni culturali idealistiche e capitalistiche.
Non appare strano, quindi, che all’affacciarsi di posizioni che bollavano la genetica classica come «mendelismo reazionario» e sostenevano una «biologia socialista», il potere politico accordasse loro il proprio favore visto che, oltretutto, promettevano una soluzione rapida ed efficace all’annoso problema della produzione agricola. L’autore di questa “innovazione scientifica”, Trofim Denisovič Lysenko, con l’appoggio di Stalin acquisì via via sempre più potere arrivando, nel 1938, alla presidenza dell’Accademia delle scienze agricole dell'Unione Sovietica.
Nikolaj Ivanovič Vavilov
Quando i meriti scientifici non si guadagnano sul campo, nel confronto con gli altri studiosi, ma vengono decretati da un’autorità “superiore” (terrena o trascendente che sia) la reazione della comunità scientifica è assicurata. Le accese polemiche sulla presunta scientificità delle teorie di Lysenko videro protagonisti alcuni importanti specialisti dell’epoca e tra questi Vavilov, animatore di un programma di sviluppo dell’agricoltura sovietica basato sulla selezione delle piante più adatte alle condizioni locali.
Gli esemplari, raccolti attraverso i numerosi viaggi compiuti dallo scienziato in tutto il mondo, erano coltivati in stazioni sperimentali distribuite in tutto il territorio sovietico applicando le conoscenze più avanzate nel campo della genetica. Tutto questo in evidente contrasto con le idee neolamarkiste di Lysenko che considerava il concetto di cromosoma un’invenzione priva di fondamenti sperimentali e che sosteneva di poter trasformare rapidamente le varietà (e anche le specie) le une nelle altre attraverso opportune modifiche delle condizioni ambientali. Idee disastrose che ebbero come risultato non già il miglioramento della produzione agricola ma la distruzione della scuola sovietica di genetica.
Nikolaj Ivanovič Vavilov
Ben presto, però, le discussioni scientifiche si trasformarono in polemiche sui «nemici del popolo» propugnatori di una «pseudoscienza borghese» e l’opposizione al «trasformatore della natura», come era chiamato Lysenko paragonato così allo Stalin «trasformatore della storia», bravissimo nell'infarcire le sue teorie con idee care al potere costituito, non fu priva di conseguenze per il professor Vavilov.
Vavilov - foto segnaletica
Emarginato e progressivamente rimosso dai numerosi e prestigiosi incarichi, nel 1940 fu arrestato, processato con le accuse di spionaggio a favore dell’Inghilterra, boicottaggio dell’agricoltura e altre assurdità del genere. Il 9 luglio del 1941 fu condannato a morte. La sentenza, commutata in venti anni di carcere, non prolungò di molto la sua vita: Vavilov morirà due anni dopo nella prigione di Saratov a seguito di una polmonite.
Se è vero che una parte di noi sopravvive alla morte nei ricordi e nelle opere che lasciamo, possiamo ben dire che un’altra condanna a morte è stata sentenziata per il professor Vavilov. A San Pietroburgo l'istituto di ricerca che oggi porta il suo nome possiede una stazione sperimentale a Pavlovsk, nei pressi della città, dove in circa 90 ettari di terreno vengono coltivate migliaia di piante, gran parte esistenti ormai solo lì.
Nel 2010, però, i terreni su cui sorge la stazione di Pavlovsk sono passati alla Russian Housing Development Foundation (RHDF) che provvederà a edificare case d'abitazione. Da allora le più importanti istituzioni scientifiche mondiali hanno fatto sentire la loro voce perché si impedisca la distruzione della stazione sperimentale e si eviti quello che, senza giri di parole, Emile Frison del Bioversity International, organismo per la ricerca e la protezione della biodiversità, definisce un «sacrilegio».
Stazione sperimentale a Pavlovsk
Oggi non ci sono notizie rassicuranti che la mobilitazione internazionale abbia fatto cambiare idea al governo russo e la stazione sperimentale di Pavlovsk, fondata da Vavilov nel 1926, luogo di straordinaria importanza per la preservazione della diversità genetica delle piante, rischia quindi di essere smantellata.
Probabilmente la furia edificatoria del nuovo Zar (e dei suoi amici) non risparmierà la banca di semi e i terreni dove trovano dimora migliaia di esemplari provenienti da ogni parte del globo. L’impianto che ha resistito all’assedio di Leningrado, con il sacrificio dei molti che preferirono patire la fame che distruggere il tesoro che custodivano, probabilmente non resisterà a Putin. Forse il governo russo avrà pensato a questa bella iniziativa proprio nel 2010 per festeggiare degnamente l’Anno Internazionale della Biodiversità?
2/ [Il marxismo sovietico, contro Darwin, scelse Lamarck e mandò a morire i genetisti darwinisti nei Gulag] Il dittatore e la scienza. Quando Stalin riscrisse la genetica, di Franco Prattico
Riprendiamo da La Repubblica del 10/6/2008 un articolo di Franco Prattico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Scienza e fede.
Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2019)
La rivoluzione era cominciata quando, il 7 agosto 1948, un oscuro agronomo ucraino, Trofim Lysenko, annunziò nel corso di una importante assise scientifica sovietica: «Il Comitato Centrale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica ha esaminato la mia relazione e l'ha approvata».
Era la campana a morte per la genetica sovietica, che fino a quel momento era in piena fioritura ed era conosciuta e rispettata in tutto il mondo scientifico, dove ormai trionfava, sulla base di incontestabili evidenze, la teoria di Mendel che attribuisce ai geni, alle minuscole unità discrete contenute nei cromosomi di tutti gli esseri viventi, la responsabilità della trasmissione ereditaria dei caratteri fenotipici.
Una teoria, suffragata da migliaia di rigorosi esperimenti, che coniugata con l'evoluzione darwiniana costituisce tuttora il fondamento stesso della biologia moderna e che ha assicurato uno straordinario passo avanti nella comprensione della vita e anche della medicina. E che, sulla base di questi risultati, ha spazzato via definitivamente l'ipotesi, elaborata nel '700 dal grande zoologo francese Jean Baptiste Lamarck, della «trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti», che attribuiva le trasformazioni del mondo vivente (animale e vegetale) alla trasmissione ai discendenti dei caratteri acquisiti da ogni individuo nel corso della sua esistenza per meglio adattarsi al suo ambiente, dal lunghissimo collo delle giraffe, frutto dello sforzo individuale di raggiungere le foglie dei rami più alti, agli artigli dei predatori: i caratteri di ogni specie - e quindi il motore dell'evoluzione, delle trasformazioni che nel corso dei millenni hanno dato vita alle nuove specie - erano quindi per Lamarck e i lamarckiani il prodotto delle trasformazioni di ogni individuo nell'adattarsi al suo ambiente.
La scoperta che alla base dell'eredità c'erano i «geni» e che l'agente delle mutazioni erano le casuali mutazioni nelle basi della lunga catena molecolare del Dna, evidenziate dalla selezione naturale secondo la loro maggiore o minore «fitness», aveva definitivamente mandato in soffitta le ipotesi lamarckiane.
Un meccanismo, quello mendeliano, che, introducendo la casualità delle mutazioni puntiformi e riducendo alla selezione naturale i motori dell'evoluzione, appariva (a Stalin e agli ortodossi interpreti del materialismo dialettico di Engels) in contrasto con uno dei canoni del marxismo e quindi con la convinzione che fosse l'ambiente a determinare l'evolversi delle trasformazioni del mondo vivente, nel caso degli esseri umani l'ambiente economico e sociale che, radicalmente trasformato dalla Rivoluzione d' Ottobre, non poteva che dar luogo «all' uomo nuovo sovietico».
In più si insinuava che la teoria cromosomica avvalorasse teorie eugenetiche (care ai nazisti, fautori della «razza pura») e quindi fosse non solo sbagliata, ma anche idealistica, borghese, reazionaria e - perché no? - immorale.
Su questa base si innestò, nel secondo dopoguerra, una feroce polemica che non solo ebbe in Unione Sovietica esiti tragici, ma determinò una dura crisi anche tra gli intellettuali europei che avevano aderito al comunismo e alle idee del «socialismo scientifico».
A questo tema è dedicato un appassionante libro dello storico della scienza Francesco Cannata (Le due scienze. Il caso Lysenko in Italia, Bollati Boringhieri, pagg. 290, euro 28), una puntigliosa e illuminante analisi del «caso Lysenko», e degli effetti che si intrecciarono almeno in Europa con gli sviluppi della guerra fredda.
L'incoronazione staliniana delle idee lamarckiane di Lysenko costituirono, allora, lo scalino che consentì all'agronomo ucraino di iniziare una lunga scalata ai vertici delle istituzioni scientifiche sovietiche condotta con l'astuta intuizione delle preferenze del dittatore russo e che portò all'ostracismo della genetica russa e alla persecuzione degli scienziati che la praticavano.
In effetti, alcune innovazioni sostenute da Lysenko aveva registrato qualche successo iniziale e ciò gli diede l'autorità per partire nella sua crociata contro gli esponenti della genetica russa. Lysenko promise che in base ai suoi metodi l'agricoltura sovietica guidata dagli «scienziati scalzi» che seguivano il suo metodo, fondato non sulle astratte teorie della «scienza borghese», ma sulla pratica contadina, avrebbe trasformato le immense steppe in giardini fioriti.
La genetica russa e i suoi cultori si trovarono esposti all'accusa - micidiale, in quel contesto - di essere quinte colonne della borghesia capitalista e nemici dello stato sovietico: molti scienziati furono marginalizzati, privati dei loro incarici accademici e istituzionali e il loro principale esponente, Vavilov (uno studioso di grande levatura internazionale) addirittura arrestato, rinchiuso in un carcere siberiano nel quale morì.
L'eco del terremoto che aveva investito le istituzioni scientifiche russe si propagò in Europa, suscitando l'indignazione e la protesta di molti scienziati di alto livello, anche tra quelli che aderivano apertamente al marxismo o ai rispettivi partiti comunisti: John Haldane in Inghilterra, Jacquel Monod (premio Nobel) per la Francia, Adriano Buzzati Traverso in Italia.
Inserito negli sviluppi anche ideali della guerra fredda, il «caso Lysenko» fornì l'opportunità per una campagna - robustamente incoraggiata dagli Stati Uniti - di condanna dell'Unione Sovietica e dei rozzi metodi staliniani, della violenta intrusione della politica nella ricerca scientifica.
Un tema vissuto meno drammaticamente nel nostro paese, dove forse risentiva di una certa indifferenza degli intellettuali del Pci nei confronti di un dibattito che investiva lo stesso metodo scientifico, forse per la tradizionale egemonia - anche in buona parte del comunismo italiano - della cultura letteraria rispetto a quella scientifica.
Un distacco di cui si fece portavoce anche uno degli scrittori più acuti e sensibili del nostro paese, Italo Calvino, che nel dicembre '48, scriveva su L'Unità piemontese: «In un paese socialista il progresso della cultura non è staccato dal progresso comune di tutta la società. Bisogna che lo scienziato non si proponga la scienza per la scienza. Il primo criterio deve essere serve o non serve allo sviluppo della rivoluzione».
Insomma, la propaganda sovietica aveva trasformato le ipotesi ben poco scientifiche del furbo agronomo ucraino nel paradigma della cultura socialista. Al punto che il poeta francese Aragon firmò l'introduzione a un pamphlet edito dal Partito Comunista francese dedicato alla esaltazione di Lysenko e dei suoi metodi.
Nonostante l'opposizione e le messe in guardia di parecchi scienziati europei, buona parte dell'intellighentzia era convinta che come la Rivoluzione d'Ottobre aveva aperto una nuova fase nella storia umana, così la cultura che esprimeva doveva rappresentare una svolta radicale in ogni campo: lì, nelle immense distese russe, nasceva una nuova società, un uomo nuovo, «l'uomo sovietico», libero dallo sfruttamento e dai condizionamenti di classe e dall' individualismo egoistico borghese che non poteva non produrre una nuova cultura, un nuovo rapporto con la natura, nuovi rapporti umani e quindi anche una scienza nuova.
Invano, anche in Italia, alcuni scienziati pure legati al Partito Comunista, come Massimo Aloisi, cercarono di contrastare l'esaltazione acritica di Lysenko e giustificare l'ostracismo contro la genetica: contro di loro c'era l'autorità di Emilio Sereni, responsabile della commissione culturale del Pci, uomo di cultura enciclopedica e di grande intelligenza, che cercò invano di convincere l'editore Giulio Einaudi, a far tradurre e pubblicare le relazioni lisenkiane o anche il pamphlet francese prefato da Aragon.
Il fiuto culturale di Einaudi e la critica di Aloisi e di altri oppositori riuscirono a impedire una operazione, la cui unica giustificazione era che «tutto ciò che viene dall'Urss è giusto e va difeso» anche se si è convinti che si tratti di una mistificazione.