1/ Alle origini di una nuova spiritualità. I "San Giorgio" di Wassily Kandinsky, di Micol Forti 2/ Kandinskij errante in patria, di Ada Masoero 3/ L'autista russo che "salvò" l'avanguardia. Malevic, Chagall, Kandinsky: un museo che sfuggì alle purghe di Stalin e Krusciov, di Dario Pappalardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /10 /2018 - 22:35 pm | Permalink | Homepage
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Kandinsky dovette allontanarsi dall’Unione Sovietica, come Marc Chagall e tanti altri, quando comprese che sarebbe stato bandito a breve dal lavoro artistico o sarebbe addirittura finito nei Gulag, perché la sua pittura non era “materialista”, bensì indirizzava al colore, alla ricerca personale, alla tradizione. Per Kandinsky era fondamentale una tradizione pittorica che non doveva essere disprezzata, bensì piuttosto coltivata e sempre rielaborata.
Nina Andreevskaja, che il pittore sposò in Unione Sovietica nel febbraio 1917, dichiarò che «Kandinsky sarebbe dovuto diventare direttore dell’Accademia, ma poiché non era né marxista, né comunista, il posto più importante gli venne negato» L’Accademia viveva delle sue idee: «alla sua partenza andò completamente alla deriva» (in P. Rapelli, Kandinsky. ArtBook, Leonardo Arte, Milano, 1999, p. 68). Rapelli ricorda come «è proprio sul risvolto “psicologistico” che Kandinsky incontra il dissenso della maggioranza dei membri dell’Istituto per la Cultura artistica sovietico (Inchuk), per via di un impianto teorico difficilmente condivisibile dai suoi colleghi. Al suo programma è preferito quello della corrente costruttivista, che si concentra sugli aspetti materiali e meccanici interni all’arte, anticamera dello sviluppo di concetti vicini al design e alla produzione industriale. Lo stile del pittore è definito emotivo, lui stesso è visto come un “tipico metafisico e individualista in campo artistico”» (Ibidem, p. 74).
Così nel 1921 Kandinsky abbandonò l’Unione Sovietica. La ricerca delle Avanguardie proseguì allora in occidente, poiché l’URSS non solo non sapeva cosa farne, ma anzi le combatteva come contro-rivoluzionarie (cfr. su questo Da Chagall a Majakovskij, gli artisti annientati dal regime che avevano esaltato. L'idillio con la Rivoluzione, un tragico equivoco, di Sergio Romano).
Anche la biografia “affettiva” del pittore è importante per comprendere non solo la vita, ma anche la storia della conservazione delle sue opere. Già sposato nel 1892 con Anja Semjakina, Kandinsky iniziò a convivere con la sua allieva pittrice, e poi co-fondatrice di Der Blaue Reiter, Gabriele Münter.
A motivo dello scoppio della prima guerra mondiale, Kandinsky dovette allontanarsi, in quanto cittadino nemico, e far ritorno in Russia, promettendo alla Münter di sposarla al suo ritorno. Kandinsky, però, a Mosca si unì in matrimonio con Nina Andreevskaja. La Münter, venutolo a sapere solo nel 1920 da una terza persona, decise allora di tenere per sé tutte le opere rimaste in custodia, riuscendo a conservarle nascoste anche per tutto il periodo della seconda guerra mondiale. Fu lei, poi, a guerra terminata, a donare le opere appartenute un tempo a Kandinsky e all’intero gruppo del Cavaliere Azzurro, ma ora in suo possesso, alla fondazione viennese che le espone oggi al Lenbachhaus di Monaco di Baviera (cfr. su questo H. Friedel, How the Blue Rider Came to the Lenbachhaus, in The Blue Rider in the Lenbachhaus/Munich, Munich-London, New York, Prestel, 2013, pp. 10-20).
Gli articoli che seguono permettono di intravedere qualcosa delle tensioni politiche e culturali di quegli anni, attraverso la figura di Kandinsky e la sua vicenda.

Il Centro culturale Gli scritti (7/10/2018)

1/ Alle origini di una nuova spiritualità. I "San Giorgio" di Wassily Kandinsky, di Micol Forti

Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 6/6/2016 un articolo di Micol Forti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e Il Novecento: il comunismo.

Il Centro culturale Gli scritti (7/10/2018)

Kandinsky, San Giorgio II

[...] un olio su tela, intitolato San Giorgio II eseguito dal celebre pittore e teorico russo Wassily Kandinsky (1866-1944).

La numerazione che segue il titolo dell’opera si offre quale immediato indizio della ripetizione da parte dell’artista di tale soggetto: esistono infatti tre versioni ad olio, arricchite da disegni, acquerelli, schizzi e bozzetti, a cui si aggiungono altre tre versioni dipinte su vetro, anch’esse individuate con una numerazione progressiva, e una xilografia. Se si esclude una sola composizione del 1916, tutte queste opere sono state realizzate nel 1911, contemporaneamente ad altri soggetti a carattere sacro, come la Festa di Ognissanti, il Giudizio Universale in due versioni, una Grande Resurrezione, San Michele, San Gabriele e una Crocifissione.
Il 1911 segna un momento centrale, forse il più delicato e potentemente innovativo, del percorso artistico di Kandinsky, quando la riflessione teorica, sul destino e sul ruolo dei linguaggi artistici, si fonde con un avanzare rapido e meraviglioso della sua sperimentazione sulla tela.
È infatti in questo periodo che Kandinsky dà vita a due dei principali capitoli della sua storia di artista e di pensatore: la prima fu la fondazione, insieme a Franz Marc e Paul Klee, nel 1911, di un nuovo gruppo di giovani artisti, Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), il cui manifesto uscì in forma di Almanacco a più voci solo nel 1912; la seconda l’elaborazione del suo testo forse più celebre, Über das Geistige in der Kunst (Lo spirituale nell’arte), compiuto nel 1909, la cui pubblicazione dovette superare numerose reticenze prima che l’editore Piper di Monaco accettasse di darlo alle stampe nel 1911, il giorno di Natale. 
Proprio queste due esperienze, che vedono Kandinsky nella duplice veste di pittore e di teorico, possono essere prese quali linee guida per riflettere su questo nucleo di opere dedicate a soggetti religiosi, per poter meglio apprezzare i riferimenti e le proposte del grande artista russo, la cui fede greco-ortodossa fu sempre molto salda nell’arco della sua vita. In particolare, il manifesto del Cavaliere azzurro è contrappuntato da un ricco apparato iconografico che mescola, volutamente e sapientemente, opere d’arte contemporanea con opere di arte antica, medioevale e moderna, provenienti dalla cultura occidentale come da quella orientale o da culture extraeuropee, andando a comporre una sorta di “atlante” di stili e di iconografie, di linguaggi e di dialetti, la cui forza emerge in ogni epoca e a ogni latitudine, spesso senza bisogno di regole o principi precostituiti, raggiungendo una universalità di messaggio e di poesia.
In questo flusso di immagini colpisce la massiccia presenza di soggetti sacri e religiosi tratti prevalentemente dalla cultura popolare e folkloristica: quella russa e quella tedesca in particolare, le quali, nonostante le specificità stilistiche, affondavano le radici in un comune humus culturale, che dal Medioevo tramandava una visione della religiosità e della trascendenza, fatta di messaggi semplici e trasmissibili.

L’ingenuità che troppo spesso si rimproverava a questa produzione portava a sottovalutarne le qualità: l’umanità del gesto, la naturalezza dell’episodio, la verità della devozione. Un aspetto della produzione artistica, medievale e moderna, non solo ampiamente conosciuto da Kandinsky, ma da lui anche raccolto e collezionato, come racconta una bella fotografia del suo studio a Murnau scattata nell’ormai fatidico 1911
Tra i molti soggetti, dunque, che frequentano la fantasia e l’immaginazione di Kandinsky, non stupisce che la figura di San Giorgio occupi un posto di primo piano. Il suo culto, diffuso almeno dal IV secolo, si radica profondamente in Occidente e nel vicino Oriente, facendo della lotta di san Giorgio contro il drago, raccontata nella Legenda Aurea, il simbolo del conflitto tra bene e male, e della vittoria del primo sul secondo. La produzione artistica tedesca e russa lo rappresentano senza soluzione di continuità fin dall’alto medioevo, e sono proprio quelle immagini, che raffigurano un cavaliere dall’elmo piumato con il viso giovane e sereno pur nell’atto di affondare la sua lancia nel corpo mostruoso del drago, a comparire tra le pagine del Cavaliere Azzurro, tratte da piccole sculture, incisioni, ex voto.
Il desiderio di autenticità, dichiarato in apertura dello Spirituale nell’arte, e contrapposto all’imitazione dei modelli imposti dal passato, riscopre la profondità del legame con la storia, capace di trasmettere ideali e di indicare, grazie al suo esempio, la possibilità di un rinnovamento. La ricerca di interiorità e di un’espressione spirituale guida la sua indagine, che nel disintegrare ogni principio compositivo in un percorso che lo condurrà fino all’astrazione, non esclude il confronto con la tradizione, intesa nella sua accezione più ampia, evitando qualunque gerarchia o classificazione, ma considerando ogni oggetto, documento artistico, testimonianza culturale, un prezioso e imprescindibile tassello per cogliere e tramandare l’essenza spirituale di una cultura e di una società. 
Nel percorso che conduce Kandinsky a distaccarsi dalla natura e dai principi rappresentativi subordinati all’imitazione, i soggetti sacri svolgono un ruolo fondamentale: la forza della loro struttura iconografica, la stabilità degli schemi compositivi, la riconoscibilità di elementi o attributi, sono a un tempo punti di riferimento e garanti nella fase più delicata del processo di trasformazione della sua pittura.
Nel San Giorgio I la figura è ancora inquadrata in un paesaggio dominato da montagne bianche, come bianco è il suo cavallo che si impenna mentre trafigge il corpo — rosso, giallo e blu — del drago.

«Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto. Un silenzio che non è morto, ma ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono del silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere», scrive Kandinsky nello Spirituale nell’arte, mentre cerca di riconoscere in ogni elemento del linguaggio visivo la possibilità di risuonare nel nostro animo. Nel pulire il soggetto da elementi puramente descrittivi, l’artista fa emergere quanto di invariabile, necessario, non accessorio, permette di mantenere un legame con il contenuto.

In questa direzione, nel San Giorgio II l’artista concentra il suo sguardo sul gesto che è al tempo stesso un movimento, una traiettoria dinamica, e l’essenza del significato della vicenda sacra: la lancia diventa il perno intorno al quale ruota la composizione, facendo emergere al centro la figura del santo e spingendo verso il basso, quasi fuori dal dipinto, il corpo del drago di cui si riconoscono le fauci aperte. L’esplosione cromatica fa vagare l’occhio sulla superficie della tela, componendo un mosaico ricco e potente, come i modelli bizantini e veneziani che compaiono sulle pagine del Cavaliere azzurro; la traiettoria della lancia, quasi un fascio di luce, conferma il potere semantico della grande tradizione iconografica.

2/ Kandinskij errante in patria, di Ada Masoero 

Riprendiamo da Il Sole 24 Ore del 19/3/2017 un articolo di Ada Masoero. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e Il Novecento: il comunismo.

Il Centro culturale Gli scritti (7/10/2018)

Vasilij Kandinskij. «Il cavaliere (San Giorgio)», 
1914-15, Mosca, Galleria Tret'jakov
© State Tretyakov Gallery, Moscow, Russia

Vasilij Kandinskij ritorna a Milano, a tre anni dalla rassegna che in Palazzo Reale esponeva le sue opere del Centre Pompidou, in una mostra inedita, progettata espressamente per il Mudec, il museo milanese dedicato alle culture e alle arti «altre» del mondo. La nuova mostra sceglie, dunque, uno sguardo nuovo e va in cerca delle fonti visive locali e popolari cui l’artista attinse per l’intera vita: un patrimonio di segni alimentato dalle icone e dai lubki (le coloratissime, “sgrammaticate” stampe popolari che l’artista amava e collezionava), dalle suggestioni delle antiche fiabe ascoltate da bambino e, soprattutto, dall’esperienza perturbante vissuta quando, studente di Diritto a Mosca, fu inviato a Vologda, 500 chilometri a nord, per compiere una ricerca sulle leggi delle popolazioni, isolate e “primitive”, dei komi-ziriani.

Al ritorno scriverà un saggio giuridico ma ciò che davvero lo segnerà per sempre sarà il ricordo dell’esuberanza dei colori e delle decorazioni visti nelle loro case, sui loro abiti, sui loro oggetti quotidiani. Lo racconterà nell’autobiografia: «Ricordo ancora che entrando per la prima volta nelle sale di un’isba restai inchiodato di stupore davanti alle pitture sorprendenti che da ogni lato mi circondavano. Il tavolo, le panche, le stufe enormi, […] gli armadi e ogni altra cosa erano ricoperti di ornamenti primitivi, dai vari colori […]. Quando infine penetrai nella camera, mi trovai circondato da ogni parte dalla Pittura: come se io stesso fossi penetrato nella Pittura».

Sarebbero passati sette anni prima che, nel 1896, dopo altre esperienze visionarie scatenate dalla pittura (di Monet) e dalla musica (di Wagner), Kandinskij respingesse l’offerta di una cattedra di giurisprudenza nella rinomata università estone di Dorpat (oggi Tartu) e decidesse di lasciare tutto per trasferirsi a Monaco di Baviera, e studiare pittura. Con l’obiettivo, che ben presto gli fu chiaro, di dar vita a un'arte che inducesse gli osservatori a “penetrare” nei suoi quadri (com’era accaduto a lui nelle isbe di Vologda) costringendoli «a dimenticarsi di sé, a sparire lì dentro». Non sarà un cammino facile.

La mostra si propone di narrare proprio il duplice viaggio compiuto da Kandinskij; quello reale, a Vologda, che cambiò il corso della sua vita, e quello metaforico, interiore: l’itinerario che, tra accelerazioni e pentimenti, illuminazioni spirituali e riflessioni teoriche, lo avrebbe condotto da una pittura ancora figurativa a una totale non-oggettività. A un’arte tesa non a rappresentare il reale (secondo il modello allora dominante del naturalismo) ma a esprimerne la «risonanza interiore», in una nuova ottica intensamente spirituale.

Al viaggio a Vologda è dedicata la prima sezione, fitta di fotografie d’epoca e oggetti, tessuti, giocattoli, vesti coloratissime di quella regione, scelti con attenzione filologica tra quelli che Kandinskij poté vedere nel suo soggiorno al Nord, usciti, per la prima volta, dal Museo di Arti Decorative di Mosca. Di qui si parte per il suo personalissimo viaggio verso la meta, allora ignota anche a lui, dell’astrazione: in mostra scorrono 50 opere di Kandinskij, alcune famosissime, giunte dalla Galleria Tret’jakov e dal Museo Puškin di Mosca e dall’Ermitage di San Pietroburgo; altre prestate dai musei regionali russi, remoti ma ricchi di tesori; altre ancora dai musei nazionali dell’Armenia e della Georgia (di qui arrivano due tele mai viste prima in Italia, una delle quali, Quadro con cerchio, 1911, è il suo primo olio astratto).

Insieme, inframmezzate alle sue opere, scorrono oltre 80 esempi di arti sacre, folcloriche e popolari: le fonti visive che lo guidarono alla sua meta. Dopo Vologda, la mostra si sofferma su due nuclei tematici per lui fondamentali: quello del cavallo-cavaliere, e quello di Mosca-madre, l’amata città che egli identificava con la figura della madre, Lidia.

Nella sezione del «Cavaliere» (figura ricorrente, come il viandante-pellegrino, nell’immaginario e nelle favole russe), accanto al suo fiabesco San Giorgio a cavallo, 1914, trovano posto una preziosa icona (dalla Galleria Tret’jakov) dedicata allo stesso santo, veneratissimo in Russia, e lubki nei quali ricorre l’identico tema. Insieme, ci sono giocattoli e oggetti quotidiani (l’universo visivo in cui Kandinskij crebbe, e che portò sempre con sé) di cui il cavallo è ancora protagonista.

Nella sezione «Mosca madre», intorno al visionario capolavoro Piazza Rossa, 1916, sfilano gli altri luoghi della sua vita, da Odessa (nel suo primo dipinto conosciuto, del 1898) a Monaco e Murnau, in Baviera.

Il percorso, inframmezzato da illuminanti installazioni multimediali, si chiude con la sezione «La musica» dell’astrazione: qui, tra gli altri, si trovano il citato Quadro con cerchio, 1911, da Tbilisi, e capolavori come Improvvisazione 20, 1911, e Improvvisazione di forme fredde, 1914, le cui macchie rosse, danzanti fra forme prive di ogni referenzialità, scaturiscono dall’immagine del globo di fuoco che avvolge il carro del profeta Elia (presente in un'icona del ’500 della collezione Intesa Sanpaolo). La conquista dell’astrazione, raggiunta nei primi anni Dieci del ‘900, fu infatti per Kandinskij il frutto dell’intreccio fra le sue continue, laboriose riflessioni teoriche, e il vivido influsso esercitato sul suo immaginario dalle icone e dai segni di quelle arti popolari, sorretti entrambi dalla costante fascinazione esercitata su di lui dalla musica, «la più astratta di tutte le arti». Dopo, non avrebbe fatto che muoversi (ma più stancamente) sulla traiettoria luminosa tracciata allora.

Il Sole 24 Ore © Riproduzione riservata

3/ L'autista russo che "salvò" l'avanguardia. Malevic, Chagall, Kandinsky: un museo che sfuggì alle purghe di Stalin e Krusciov, di Dario Pappalardo

Riprendiamo da La Repubblica dell’8/1/2015 un articolo di Dario Pappalardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e Il Novecento: il comunismo.

Il Centro culturale Gli scritti (7/10/2018)

Per l'Unione Sovietica era "il greco pazzo". Ma oggi sarebbe più corretto definirlo "l'uomo che salvò l'avanguardia russa". Lui si chiamava George Costakis (1913-1990). A Mosca, il suo appartamento di sette stanze contava 2000 capolavori che lo coprivano dal pavimento al soffitto [N.B. de Gli scritti Costakis poté mantenere le opere in casa in quanto dipendente prima dell’ambasciata svedese e poi di quella canadese].

C'erano venticinque Kandinsky, venti Chagall e altrettanti Rodchenko e Malevic. C'era tutta l'arte astratta di inizio Novecento che il regime rifiutava e bandiva dalle gallerie di Stato, dove la quotidianità dell'Urss era magnificata dalla pittura figurativa della propaganda socialista: soldati rossi e operai solerti. Niente quadrati neri o sinfonie di colore, vietati al popolo e ignorati dagli storici.

Costakis, chauffeur all'ambasciata canadese, mette insieme il suo museo personale tra gli anni Quaranta e Settanta, all'ombra di Stalin e poi di Krusciov. Compra a poco quello che la Russia butta via. L'opera più costosa è il Cerchio rosso di Kandinsky: 600 dollari appena nel 1955. Oggi vale decine di milioni. Lui, figlio di un commerciante di tabacco originario dell'isola di Zante, acquista e nasconde tutto tra le mura domestiche.

Come autista, accompagna i diplomatici stranieri in giro tra mercanti d'arte e antiquari. Inizia così a raccogliere icone, porcellane, dipinti fiamminghi. Poi, un giorno del 1946, vede La striscia verde di Olga Rozanova, realizzata trent'anni prima. È il colpo di fulmine e insieme la scoperta del suprematismo di Malevic, del cubo-futurismo e del costruttivismo: spazzatura inutile per i censori.

Scrive nella sua autobiografia: «Per farla breve decisi di diventare collezionista di arte d'avanguardia. Molti tra i miei amici e parenti scossero la testa. Pensavano che stessi commettendo un grosso errore lasciando da parte le mie altre collezioni per iniziare a comprare opere che erano considerate da tutti "nonsense"».

Negli anni Sessanta la notizia dell'esistenza di un'incredibile collezione clandestina comincia a circolare sulla stampa occidentale e per i nomi della cultura e del jet set internazionale quella casa sulla via Vernadskij diventa una meta moscovita obbligata, dopo il Cremlino e il Bolshoi. «L'appartamento era aperto a tutti dalla mattina alla sera», ricorda ora Aliki Costakis, mentre la raccolta di suo padre, morto nel 1990, è in mostra per la prima volta a Torino, a Palazzo Chiablese, fino al 15 febbraio (a cura di Maria Tsantsanoglou e Angeliki Charistou, catalogo Skira). «Vivere in una casa-museo non era facile, a volte mi veniva da fuggire in cerca di pareti vuote. Ma c'erano aspetti interessanti. Come l'incontro con personaggi eccezionali. Da Igor Stravinskij a Marc Chagall, che venne da noi con sua moglie nel 1973. Da Henri Cartier-Bresson a Michelangelo Antonioni, che rimase tutta una sera, nel 1976».

In quegli anni il formalismo e la pittura d'avanguardia russa non possono vedersi in tanti altri posti. Ci sono giorni in cui casa Costakis raduna anche un'ottantina di visitatori. Nessuno paga il biglietto, ma tutti lasciano una firma sul registro all'ingresso. Talvolta si sfiora l'incidente diplomatico. Il milionario David Rockefeller gira pagina per non segnare il proprio nome sotto quello dell'odiato Ted Kennedy. I due per poco rischiano di incontrarsi.

Le autorità sovietiche, intanto, non vedono di buon occhio le visite dei vip del mondo. Iniziano a capire che quella spazzatura rifiutata dai musei ufficiali può valere molto. La potentissima Yekaterina Furtseva, ministro della cultura dal 1960 al 1974, si interessa alla vicenda.

L'idea di aprire finalmente un museo dedicato all'avanguardia, come vorrebbe Costakis, si rivela decisamente prematura per i sovietici. Intanto, due furti e un incendio convincono il collezionista a lasciare l'Urss nel 1977. Ma il "greco pazzo" paga la libertà cedendo parte del suo tesoro. Alla Galleria Tretyakov di Mosca restano tanti capolavori: ci sono Kandinsky, Malevic, Tatlin, «ma non i dipinti di Rodchenko», spiega la figlia Aliki «perché per le autorità era solo un fotografo, mentre prima ancora, in realtà, era stato un grande pittore avanguardista».

Il resto della raccolta (1277 oggetti) approda in Grecia: dal 2000 è di proprietà dello Stato e adesso appartiene al Museo Statale di Arte Contemporanea di Salonicco. Dopo la Russia, i Costakis fanno tappa per un anno a Roma. Nonostante le pressioni, l'ex chauffeur tiene strette le opere che gli restano. Ognuna, verso la fine degli anni Settanta, vale circa 500mila dollari.

Lui preferisce una vita frugale e coltivare ancora la sua passione. «Se un giorno tutto questo sarà noto — dice — per il mondo sarà una sorpresa». La moglie Zina vende l'auto, l'anello di diamanti e il visone per consentire a George di mantenere le abitudini di collezionista. «Fu un nuovo inizio per niente semplice», racconta ancora Aliki. «Partivamo da zero, ma non potrò mai dimenticare il senso di libertà di quel primo anno. A Roma, abitavamo a Pineta Sacchetti, mio padre impiegava il tempo a visitare siti archeologici e musei. L'Italia lo ha spinto a cominciare a dipingere».

Nel 1979, molte opere della collezione Costakis vengono presentate alla mostra Parigi-Mosca 1900 1930. Due anni dopo, il riconoscimento della tenacia del "greco pazzo" arriva dal Guggenheim di New York. Margit Rowell, curatrice del museo americano, ha scritto: «Quando abbiamo visto la collezione per la prima volta, abbiamo capito che la storia dell'arte del XX secolo avrebbe dovuto essere riscritta».

Oltre al suo tesoro, Costakis ha lasciato alcune regole del "mestiere": «Un vero collezionista deve sentirsi come un milionario anche quando è senza un soldo»; «La razionalizzazione è il più grande nemico del collezionista»; «Il vero collezionista è pronto a rinunciare a tutto ciò che ha per un'opera che desidera ardentemente»; «Un vero collezionista non deve contrattare. È più vantaggioso per lui pagare troppo che pagare abbastanza»; «Il collezionista deve con grande decisione, persino spietatamente, definire i limiti della propria collezione, non dovrebbe mai esagerare». Per gli azionisti del mercato dell'arte contemporanea c'è di che meditare.

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