Idee. Globalizzazione, la lezione di papa Francesco. Di fronte al nuovo scenario mondiale il richiamo di Francesco al senso antropologico dell’identità cristiana, che implica l’accoglienza degli altri ma anche una solidarietà qualificata e razionale, di Carlo Cardia
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Riprendiamo da Avvenire del 28/2/2018 un articolo di Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Nord e sud del mondo e Carità e giustizia.
Il Centro culturale Gli scritti (19/8/2018)
L’interdipendenza della persona con la comunità familiare, il radicarsi degli affetti primari, l’intimità genitoriale, è qualcosa che avvertiamo istintivamente dalla nascita. L’evoluzione storica fa conoscere, e vivere, altre interdipendenze che fanno crescere persone, comunità, popoli, con legami che assumono ormai dimensioni planetarie. Per gli effetti della globalizzazione sull’esperienza umana, papa Francesco ha proposto un orizzonte di analisi e d’impegno non ancora compreso nel suo più autentico significato, che dovrebbe investire i livelli alti della politica, del governo della società. Ha chiesto a tutti di andare verso il futuro, non rimanere prigionieri del passato, del tempo già conosciuto, come se potessimo replicarci senza mai cambiare. Francesco ha messo a nudo un profilo scientista sorretto da egoismi e interessi partigiani, osservando che proprio la società moderna che più si fonda sull’evoluzione rischia di finire col negare e opporsi all’evoluzione dello spirito.
Un tema che ha sorpreso i commentatori, stretti in una concezione legalistica, è quello legato alla piaga della corruzione, che il Papa ha esaminato forse per la prima volta sotto il profilo antropologico e sociale, e che ha assunto dimensione internazionale. Invece d’esser chiuso nella dimensione dell’illegalità, il processo corruttivo riguarda l’etica collettiva, incide sulla relazione tra le persone, sul rapporto tra generazioni. Per Francesco, la corruzione non è solo una colpa individuale, ma colpisce nel profondo la coscienza e l’interiorità, «esprime la forma generale della vita disordinata dell’uomo decaduto». Essa «è l’arma e il linguaggio più comune anche delle mafie e delle organizzazioni criminali nel mondo», anzi «è un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte delle mafie e delle organizzazioni criminali».
Di qui, il ribaltamento culturale da realizzare, perché «oggi molti non riescono anche solo a immaginare il futuro; oggi per un giovane è difficile credere veramente nel suo futuro, in qualunque futuro e così per la sua famiglia». Allora, la corruzione, che è «all’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, all’origine del degrado e del mancato sviluppo, all’origine del traffico di persone, di armi, di droga, compie il suo misfatto più grande perché mette in pericolo la presenza della speranza nel mondo, senza la quale la vita perde quel senso di ricerca e possibilità di miglioramento che la rende tale».
La relazione con gli altri, l’impegno che all’uomo è richiesto dai nuovi tempi, sono centrali nell’appello quasi ininterrotto di papa Francesco perché l’Europa e l’Occidente accolgano i migranti e i poveri d’ogni parte del mondo. L’appello è collegato alla solidarietà per gli ultimi, nei quali si riflette il volto di Gesù, così come Gesù bambino rappresenta tutti i bambini che per tanti motivi soffrono e sono perseguitati.
C’è qui un richiamo alle radici più intime dell’umanità solidale, al vero senso dell’identità cristiana, che implica l’accoglienza degli altri anche nei momenti più aspri, una solidarietà piena, non puramente quantitativa, bensì qualificata e piena di razionalità.
Oggi comprendiamo appieno il carattere profetico del magistero di Paolo VI, quando nella Populorum Progressio dichiarò al mondo che i popoli della terra interpellano la Chiesa, le istituzioni pubbliche, per poter diventare protagonisti della storia, partecipare alla distribuzione dei beni materiali, e morali, che sono di tutti.
Con papa Francesco si raggiunge un punto alto del magistero per il quale, come la sofferenza non è un bene in sé, altrettanto la povertà non è consolatoria, è una condizione da rimuovere, un ostacolo da abbattere con il contributo di tutti noi, a cominciare da chi ha responsabilità pubblica. La solidarietà deve coniugarsi col significato più alto della politica, richiamato da Francesco il quale, nel viaggio di ritorno dalla Svezia ha stupito chi ascoltava le sue parole, quando ha affermato che «migrare è un diritto, ma un diritto molto regolato», nel quale deve attivarsi «anche la prudenza dei governanti, che credo debbano essere molto aperti nel riceverli, ma anche fare un calcolo su come poterli sistemare: quando un migrante non è integrato, si ghettizza, entra in un ghetto, e una cultura che non si sviluppa in rapporto con un’altra cultura, entra in conflitto, e questo è pericoloso».
Nella giornata dei poveri, domenica 19 novembre, il Papa ha collegato il tema dei poveri con il destino dei cristiani, e ha affermato che i «poveri sono il nostro passaporto per il paradiso», che occorre «farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola», perché «amare i poveri significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali».
Chi mette a frutto i talenti avuti in dono è «un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni»; «rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri, non accetta di lasciare tutto com’è. Solo una cosa tralascia, il proprio utile». Nell’analisi dell’immigrazione e della povertà si realizza un’autentica svolta rivoluzionaria rispetto alla concezione dei diritti del XX secolo. Essa propone un supplemento di universalità richiesto dall’evoluzione umana perché per Francesco i diritti umani non hanno più i confini del passato: essi spettano a tutti, uomini e donne, d’ogni religione o cultura, dovunque nascano e dovunque vadano.
In questa nuova accezione di universalità, molte cose vanno riviste e rilette, con saggezza e lungimiranza, la questione della cittadinanza, che non è un bene esclusivo di un territorio o di uno Stato, ma virtualmente aperto a tutti, da disciplinare con coraggio e intelligenza; così come non esistono beni esclusivi, che appartengano ad alcuni con esclusione di tutti gli altri.
L’orizzonte che così s’apre non delinea solo un ethos superiore al mercantilismo, ma finisce per essere assai più realista se misurato con l’evoluzione storica che stiamo vivendo. Infine, si può dire che il magistero, e l’azione quotidiana, del Papa e della Santa Sede non si sono forse mai prodigati tanto come in questi anni sul problema della guerra, che rappresenta la morte colpevole dell’umanità. La preghiera di Francesco assume spesso toni biblici contro l’opera distruttiva dell’uomo, come nel ricordo delle Fosse Ardeatine, rivolgendosi al «Dio dei volti e dei nomi» colui che è «con ogni uomo e ogni popolo che soffre l’oppressione». O quando, dinanzi alle croci del Cimitero di Nettuno, nel novembre scorso ha esclamato: «Tutti sono con te, Signore. Giovani, migliaia, migliaia, migliaia… Speranze rotte»; ha quasi gridato: «Gli uomini fanno di tutto per dichiarare una guerra e alla fine distruggono se stessi. Questa è la guerra: la distruzione di noi stessi».
In questo modo, si frantuma la più grande relazionalità dell’uomo con Dio, quando si annega nel fondamentalismo, nelle intolleranze ideologiche sparse un po’ dovunque, si usa la religione per far violenza sugli altri, per massacrare innocenti. Nel suo viaggio in Egitto, e ancora in quello più recente in Asia, il Papa ha segnato un punto di non ritorno, rivolgendosi ai credenti d’ogni fede. Per Francesco, la Religione, il Dio della Bibbia, sono la religione della libertà, il Dio della vita, ogni volta che si usa la fede per praticare l’oppressione, l’omicidio, il terrorismo, s’inseguono interessi inconfessabili, s’umiliano le persone, si rovescia il messaggio di Dio, si pronuncia la bestemmia più grande che l’uomo possa formulare. La condanna della violenza religiosa pronunciata in Egitto è stata forse la più dura e senz’appello pronunciata da un Papa, rivolta a esponenti delle grandi religioni monoteiste, in un ambito ecumenico e interreligioso che ha unito Occidente e Oriente, di fronte alla più grande autorità dottrinale dell’islam sunnita. Molti commentatori hanno sottolineato in queste circostanze il valore strategico dell’appello di Francesco perché le religioni si uniscano per sconfiggere i grandi mali che l’umanità deve affrontare.
Le sue parole evocano altri messaggi di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma per i contesti in cui sono state pronunciate e per gl’interlocutori che ascoltavano, sono nuove e possono smuovere le montagne, cambiare equilibri storici che oggi sembrano consolidati.
Il suo appello è forse quello più diretto, drammatico, che sia stato rivolto ai governanti e ai capi religiosi delle terre d’Africa e d’Asia, e nell’intreccio ripetutamente evocato tra i temi delle povertà, guerre, migrazioni, così connessi e interdipendenti, si trova conferma del carattere profondamente rivoluzionario e insieme realista, del magistero di Francesco. Anche in relazione a essi, si avvertono i limiti e la vetustà, della pur nobilissima normativa che ha dato vita all’Onu, e si sente l’urgenza sulla Terra di un nuova legge, di una nuova politica, che definisca i termini di pace e di lotta alla povertà, con i quali l’umanità possa convivere e crescere in questa fase evolutiva del terzo millennio, per far fronte alle crisi che percorrono le strade del mondo.