1/ “Tutti siamo in viaggio”: Andrea Marcolongo racconta il suo nuovo libro, “La misura eroica”, di Elena Asquini 2/ 9 ragioni per amare il greco, di Alessandro D’Avenia
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1/ “Tutti siamo in viaggio”: Andrea Marcolongo racconta il suo nuovo libro, “La misura eroica”, di Elena Asquini
Riprendiamo dal sito illibraio.it (https://www.illibraio.it/andrea-marcolongo-misura-eroica-739335/) un’intervista di Elena Asquini ad Andrea Marcolongo, pubblicato il 19/3/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Letteratura ed Educazione e scuola.
Il Centro culturale Gli scritti (29/4/2018)
Dopo il successo de La lingua geniale (Laterza), tradotto in 21 paesi, il nuovo libro di Andrea Marcolongo, La misura eroica. Il mito degli Argonauti e il coraggio che spinge gli uomini ad amare (Mondadori), esplora la tradizione classica della Grecia antica, attraverso una delle sue opere più celebri: Le Argonautiche di Apollonio Rodio.
La scrittrice italiana, trentunenne, si imbarca insieme a Giasone a bordo della prima nave costruita dall’umanità, per salpare con gli Argonauti alla volta della Colchide, un viaggio che la mitologia ricorda come il primo compiuto dall’uomo sul mare. Un viaggio che, per Giasone, ma anche per il lettore, diventa un romanzo di formazione antico, che propone come strumenti di crescita essenziali il cammino e l’amore, capaci di trasformare il ragazzo che ha lasciato l’Ellade nell’uomo che vi farà ritorno, un eroe. Ma la vera essenza di quell’eroismo non sta nelle imprese compiute dagli Argonauti al di là del mare: “La misura eroica era data dall’esperienza di superare se stessi, non dal risultato. Fallire non contava: eroe non era chi vinceva, ma chi ci aveva anche solo provato”, scrive l’autrice, fornendo la chiave di lettura di un libro che si rivolge al presente tanto quanto al passato. L’eroismo non si misura nel coraggio dimostrato dagli Argonauti oltremare, ma nella semplice scelta di, almeno provarci: nel momento stesso in cui sono partiti si sono dimostrati eroici.
Andrea Marcolongo, lei vive a Sarajevo e l’esergo del suo libro recita: “A Sarajevo, che non ha mare, ma sa essere per me sempre porto”. Qual è il suo rapporto con la città?
“Nel mio libro La Misura Eroica, che è nato a Sarajevo nello spazio compreso tra l’inverno e l’autunno 2017, parlo a lungo del mio legame con questa città. A Sarajevo scrivo. A Sarajevo non abito ma vivo, nella profonda differenza di senso che intercorre tra questi due verbi. In generale, in Bosnia Erzegovina sono felice, ho trovato la mia misura, quella dei sorrisi buoni, dell’assenza di rabbia e della presenza di una comunità che tanto mi mancava in Italia, avendo perso la mia famiglia da ragazza e dove mi sono spesso sentita sola”.
Cosa le piace di più della città?
“Una mattina ero al parco quando la mia attenzione è stata attirata da un’impresa edile cui era stato affidato il compito di rinnovare un palazzo. Non era con una manciata di stucco e una pennellata di intonaco che gli operai riportavano quelle mura ferite dai proiettili all’originale pienezza di mattoni, bensì con un gran sforzo di calce da applicare con minuzia e sudore in ogni singolo foro. È stato per me, ignara di ogni edilizia ma consapevole del dolore, come assistere a tutto l’amore che ci vuole per riparare un cuore ferito”.
Nell’ultimo anno ha viaggiato molto, visto il successo all’estero del suo libro: come guarda all’Italia di oggi, e ai suoi giovani, che ha avuto modo di incontrare spesso per parlare loro de La lingua geniale?
“Da sempre, fin da quando ho iniziato a scrivere, ringrazio i miei lettori, che sono la mia forza, la mia fiducia. Soprattutto i ragazzi. Se, grazie al primo libro, ho incontrato circa 300mila studenti di tutta Italia, con la Misura Eroica riparto ancora dalle scuole, con un tour che mi porterà da Aosta a Palermo. Ed è una mia precisa scelta, perché credo che il compito della letteratura non sia quello di dare risposte, ma di suscitare domande. In fondo, questo mio nuovo libro nasce proprio dalle domande che quelli che ormai chiamo ‘i miei ragazzi’ mi hanno posto, non solo in Italia, ma fino all’ultimo villaggio del Perù o alla Sorbona, dove mi hanno portato le 21 edizioni estere. La Misura Eroica è proprio dedicato a loro, perché racconta una storia di formazione, di ricerca di se stessi e di felicità che resta costante in qualunque stagione della vita. Perché ‘maturo’, dal latino, non significa affatto superare un esame, ma sapersi mettere a frutto sempre, in ogni stagione della vita”.
Cosa rappresenta per lei l’Europa?
“Una grande opportunità, e allo stesso tempo una grande confusione. Ora che risiedo geograficamente fuori dall’Unione Europea, ma vivo in Europa, leggo solo speranza negli occhi delle persone che incontro, quasi mai quel rancore tanto urlato in televisione o sui giornali. Avrebbe però bisogno di un volto, questa nostra Europa, per non essere confusa con una moneta nel portafoglio. Da scrittrice, ritengo che il primo modo sia quello di ripensare a una coscienza europea attraverso la cultura, attraverso un’estetica, il riconoscimento della bellezza del nostro mondo di valori e di pensieri, che sappia diventare etica per tutti gli uomini e le donne che la abitano”.
La misura eroica vuole essere una lezione per l’uomo moderno attraverso gli insegnamenti degli antichi?
“Da sempre non so scrivere di ciò che non amo. E da sempre non riesco a pensare al presente se non attraverso la lezione degli antichi, questo è il mio modo di raccontare e la misura del mio nuovo libro. Del resto, i Greci dicevano che il futuro arriva alle nostre spalle, non viceversa: lo credo anch’io, soprattutto se guardo questo momento storico così confuso, smarrito e angosciato dal futuro. Talvolta, infelice”.
Come è nata l’idea di questo libro?
“La Misura Eroica è molto di più del mio primo libro: non parla di lingua greca o di mondo classico, utilizza però l’antico come fil rouge per dire di noi, oggi. Ci sono tre piani narrativi diversi, il mito degli Argonauti e di Giasone e Medea, il tema del viaggio come metafora del superamento della linea d’ombra che ognuno di noi si trova di fronte e poi ci sono io, nel racconto autobiografico del mio passaggio da ragazza a donna. Insieme, le tre voci del libro si intrecciano per non diventare mai lezione, bensì festa, inno alla bellezza e all’amore”.
Il viaggio, soprattutto quello per mare, è un tema fondamentale del suo libro e lei stessa ha viaggiato molto. Cosa significa per lei viaggiare?
“Tutti noi siamo in viaggio, sempre – non in lunghezza ma in profondità, dentro di noi. Viaggiare, che nel mio libro racconto con la metafora del mare, è soprattutto conoscersi e riconoscersi, misurandosi con il diverso che è già nella nostra anima. Con i nostri desideri, le nostre paure, i nostri sogni, chi amiamo e chi non ci ama più: è da questo confronto, che non può mai essere muto riconoscersi come allo specchio, che nasce poi la voglia di salpare verso chi siamo realmente. Nel suo Libro dell’Inquietudine Ferdinando Pessoa annotava che ‘in questo mondo, viviamo tutti a bordo di una nave salpata da un porto che non conosciamo, diretta a un porto che ignoriamo; dobbiamo avere per gli altri una amabilità da viaggio’. Spesso dimentichiamo che, nel viaggio della vita, che ci incanta per la bellezza del panorama e ci spaventa per l’arrivo di tempeste impreviste, non siamo soli. Siamo tutti esseri umani alla ricerca di noi e dunque dell’altro, dell’amore”.
L’amore e il viaggio nel suo libro sono temi fondamentali per stimolare il coraggio umano, per capire la “misura eroica”: sono due tipi di coraggio e di eroismo diversi? Cosa li divide e cosa li accomuna?
“Se il viaggio è metafora della scoperta di sé, l’amore è certezza. Per citare il regista Guillermo del Toro al Festival del Cinema di Venezia del 2017, ‘i Beatles e Gesù non possono essersi sbagliati entrambi riguardo all’amore’. Figuriamoci gli antichi Greci, mi permetto di aggiungere. Non esiste un uomo così codardo che l’amore non sappia trasformare in un eroe: questa è la mia Misura Eroica, la riscoperta di noi stessi, di quanto siamo in grado di fare (anche quando tutti ci dicono che è impossibile), di quanto sappiamo metterci in gioco per raggiungere la meta, che non è mai arrivo, ma sempre punto di svolta. Eroe non è dunque, nel senso contemporaneo, il grande campione, la star o chi ‘ce l’ha fatta’, è invece ogni donna e ogni uomo che sceglie di non tradire se stesso e di essere, semplicemente, se stesso”.
L’importante è il tentativo.
“La misura eroica era data dall’esperienza di superare se stessi, non dal risultato. Fallire non contava: eroe non era chi vinceva, ma chi ci aveva anche solo provato. Chi aveva accettato la sfida di misurarsi in qualcosa più grande di sé, per diventare grande per sempre. Fantasiosa ma abbagliante di senso, l’etimologia della parola “eroe” che proponeva Platone nel dialogo Cratilo. Secondo il filosofo, la forza che spinge gli uomini a diventare eroi è solo una: ἔρως (érōs), “amore” – solo una piccola lettera distingueva le due parole in greco antico”.
Nel suo libro si fa molta attenzione al legame tra parola e significato, spesso ricorrendo a termini di lingue straniere. Quanto è importante per lei il rapporto tra il messaggio e la sua espressione linguistica?
“Viviamo in un’epoca in cui le parole sembrano non bastare mai, un tempo in cui siamo costretti a coniare neologismi come moneta comune per capirci e farci capire. Sono però parole da poco, non hanno valore, tolgono senso alle cose anziché aggiungerne e la loro inarrestabile inflazione ci rende sempre più poveri anziché più ricchi. Parole che di fatto non vogliono dire niente, puri significanti che scintillano lo spazio di un’estate, come una canzone alla radio canticchiata mentre siamo indaffarati a fare altro – noi stessi ce ne scordiamo il significato, perché mai compreso o mai spiegato. E così ci affanniamo a cercare termini nuovi per nominare ciò che in realtà esiste da sempre e che da sempre viviamo, ma forse non lo sappiamo più dire – prima a noi stessi e poi agli altri”.
Rischiamo di perdere il vero valore della lingua?
“Si fa un gran dibattere sulle lingue da preservare e da difendere da misteriosi nemici senza volto né nome – invasori, usurpatori, stranieri. Intanto, mentre combattiamo un sabotatore leggendario come un mostro marino brandendo manuali di grammatica o addossando tutta la colpa a Internet, le parole che già esistono sembrano sfuggirci di minuto in minuto, come se il tempo del dire e del sapere si stesse esaurendo nella clessidra della contemporaneità. Il livello del mare, della confusione, del rumore s’innalza e sulla nostra riva c’è sempre meno sabbia dove distenderci e finalmente parlarci”.
Il suo libro risponde a questa necessità?
“Scrivere La Misura Eroica è stato per me un vero viaggio. Sono salpata dal porto sicuro, quello di un bestseller internazionale, rifiutando la comodità di sequel o di un libro simile rincorrendo operazioni di marketing o banalità. Di nuovo, ciò che conta, per me, è la fiducia dei miei lettori. Ho dunque pensato a un libro che sia come un sentiero tra etimologie, il lessico dei nostri sentimenti, le parole che usiamo ogni giorni - e per alcune di queste parole ho realizzato dei video che sono online. Perché etimo, in greco, significa reale: solo chi possiede le parole per dire, allora possiede la realtà”.
C’è una storia dietro la scelta della copertina de La misura eroica?
“Sì, è di nuovo una storia di dolore e di amore. La fotografia del portachiavi in copertina è legata alla mia terra, alla Bosnia: si tratta di uno scatto del grande fotografo Zyiah Gafic nell’ambito di un progetto chiamato Quest for Identity. L’intento era quello di ridare una misura umana agli oltre ottomila corpi ritrovati nelle fosse comuni di Srebrenica attraverso gli oggetti personali ritrovati. Quando ho visto quel portachiavi, un oggetto da poco, con la scritta ‘abbiamo un cuore per chiunque arrivi’ mi ha commossa e, di nuovo, l’ho trovato la più grande affermazione della forza della vita, anche nella morte”.
Da conoscitrice e amante della letteratura classica, quali sono gli scrittori e le scrittrici moderni e contemporanei che preferisce?
“Che bella questa domanda… perché ovviamente non leggo Omero ogni sera, anzi! Gli scrittori che più amo e che più hanno influenzato il mio lavoro in questi anni sono diversissimi. Primo fra tutti, Orhan Pamuk, che con i suoi libri La stranezza che ho nella testa e Il Museo dell’innocenza ha lasciato in me la nostalgia letteraria del mondo segreto degli oggetti (come il piccolo libro inglese che ho scoperto nella campagna inglese e che è un altro filo de La Misura Eroica). Per la scrittura delle parti autobiografiche ho cercato di cogliere la lucidità femminile di Annie Ernaux. Adoro l’argentina Maria Teresa Andruetto e, per l’affinità dei temi, il francese Christophe Ono-dit- Biot”.
2/ 9 ragioni per amare il greco, di Alessandro D’Avenia
Riprendiamo da Tuttolibri de La Stampa del 15/10/2016 una recensione di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (29/4/2018)
Ogni lingua esprime una irripetibile idea di mondo, più strana è l’idea più interessante è la lingua. É questa la sfida dell’appassionante libro di Andrea Marcolongo sui misteri del greco antico. Non fa differenza che una lingua sia viva o morta, ciò che conta è che impararla possa ampliare i gradi di percezione del mondo: i nostri sensi sono determinati dalle nostre parole. Il greco antico ha nella sua capacità di nominare qualcosa di speciale ed essenziale: è una lingua geniale, fatta per andare all’origine della realtà e nominarla senza fronzoli, senza però tralasciare un’infinta varietà di sfumature, proprio per raggiungere, come si fa con uno strumento di alta precisione, l’identità di ogni cosa: “è al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione; e della nostra epoca” diceva Virginia Woolf. I Greci usavano almeno almeno tre verbi per “fare”, perché non era lo stesso fare un’azione politica, una poesia, un figlio, un delitto. I loro colori non erano i nostri, li definivano a partire dai movimenti di rifrazione della luce sulla superficie: l’omerico mare “colore del vino” indicava l’indicibile cangiante riverbero della luce sull’acqua.
Il libro della Marcolongo non è una grammatica, ma una storia d’amore con il greco e la sua capacità di trasformare i sensi. L’autrice si lascia alle spalle le noiose anche se necessarie diatribe “greco sì greco no”, “la crisi del classico”…, spesso risolte dai cattedratici con dottissime dissertazioni ridotte al “devi amarlo anche se non capisci” o al “prendi la medicina del pensiero, soprattutto oggi”. Due motivazioni tutt’altro che motivanti: una parte dall’obbligo anziché dall’amore, l’altra dalla malattia anziché dalla salute. Mentre nella Lingua geniale, conosciate o no il greco antico, si parte dall’amore e dalla salute: è un vino che non avete mai bevuto, annata unica, se lo assaggiate ne vorrete ancora, come quello offerto da Ulisse al Ciclope.
Proprio la stranezza del greco antico, non ridotto ad una tortura di eccezioni da imparare a memoria, è ciò con cui Marcolongo ci affascina, trasformando nove stravaganze linguistiche in veri e propri sondaggi esistenziali: dai tre generi (maschile, femminile, neutro) ai tre numeri (singolare, plurale e duale), dal modo del desiderio (ottativo) all’anarchia ordinata dei casi…
La prosa della Lingua geniale riesce a raccontare i misteri della grammatica e della sintassi come si trattasse di un volto umano o di un’architettura: “un modo per giocare a pensare in greco antico”, ma senza le gigionerie di alcuni libri di questo genere. Ha la leggerezza frutto di esperienza e riflessione, e la giusta dose di polemica: “il liceo classico così come è strutturato, sembra non avere altro scopo che mantenere i Greci e il loro greco i più inaccessibili possibile”. Per i puristi che stanno già affilando le loro critiche, non si tratta di una grammatica descrittiva e normativa, “non ha alcuna pretesa accademica” ma “una forte pretesa di passione e di sfida”, basate sulla convinzione che “lo studio del greco contribuisca a sviluppare il talento di vivere, di amare, di faticare, di scegliere e di assumersi la responsabilità di successi e fallimenti”.
Nelle pagine di ogni lezione i momenti più smaccatamente grammaticali diventano presto veri e propri tuffi esistenziali, come quello relativo al modo “ottativo”, che serve a esprimere il desiderio: “è la misura perfetta della distanza che intercorre tra la fatica che serve a fare i conti con un desiderio e la forza che occorre per esprimerlo prima di tutto a se stessi”; o quello dedicato al duale: “uno più uno uguale uno formato da due, non semplicemente due”, sia che si riferisca agli occhi che guardano l’amata, a navi che combattono lo stesso nemico, a cavalli che tirano lo stesso carro, l’importante era esprimere attraverso la parola la presenza di una dualità non matematica, per dare conto di una relazione che crea qualcosa di nuovo rispetto a un semplice plurale.
Le 9 ragioni offerte da questo libro sono un ottimo spunto per professori e nostalgici, e un efficace punto di partenza per studenti e curiosi, per rinnovare il modo di studiare una lingua più viva e necessaria che mai: “dire cose complesse con parole semplici, vere, oneste: ecco la potenza del greco antico”.