Papa Francesco agli universitari di Roma Tre: «La tonalità del linguaggio è salita tanto. Oggi si grida per strada, a casa, ci si insulta con normalità… Si va all’università per imparare a vivere. Vivere e cercare il vero, la bontà, la bellezza. E questo si fa insieme, tutti insieme… Questo è il primo passo per la vita: se non impariamo a prendere la vita come viene, mai impareremo a viverla. La vita somiglia un po’ al portiere di una squadra, che prende il pallone da dove lo buttano … È l’unità nella diversità che la globalizzazione deve cercare. E quando si fa questo le culture crescono, il livello culturale cresce perché c’è un dialogo continuo tra i lati del poliedro che sono uniti da una unità… Si devono accogliere i migranti innanzitutto come fratelli, sorelle, umani. Secondo, ogni paese deve vedere di quale numero è capace di accogliere. È vero, non si può accogliere se non c’è possibilità, ma tutti possono fare qualcosa. E poi non solo accogliere, ma integrare… Anche loro devono ricevere la nostra cultura. Bisogna fare uno scambio di culture, e questo toglie la paura. I ragazzi che hanno fatto quella strage erano belgi, figli di migranti ma nati in Belgio, ghettizzati e non integrati»
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Riprendiamo sul nostro sito il discorso di papa Francesco nell’incontro con gli universitari di Roma Tre, il 17/2/2017. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/4/2017)
Francesco risponde a braccio. «Ho ascoltato le vostre domande, le ho lette prima!, e ho riflettuto, ho scritto un discorso che consegnerò al rettore. Ma io vorrei rispondere spontaneamente, direttamente col cuore, perché mi piace più così».
Giulia Trifilio, 25 anni, laureata in Relazioni internazionali e ora al corso magistrale di Economia dell’ambiente, domanda: «Quali possono essere le medicine per contrastare le manifestazioni di un agire violento, purtroppo sempre presente nella storia dell’umanità?»
«Tu hai parlato della violenza, ma pensiamo al linguaggio. La tonalità del linguaggio è salita tanto. Oggi si grida per strada, a casa, ci si insulta con normalità. C’è anche la violenza nell’esprimersi, nel parlare. Questa è una realtà che tutti viviamo. Se c’è qualche problema, prima si insulta e poi si domanda il perché. È vero, c’è un aria di violenza anche nella nostre città. Anche la fretta, la celerità della vita ci fa violenti.
Tante volte ci dimentichiamo di dare il buongiorno, a casa, ciao, ciao, questi saluti anonimi…La violenza è un processo che ci fa ogni volta più anonimi gli uni verso gli altri. Ti toglie il nome, e i nostri rapporti sono un po’ senza nome. Sì, è una persona quella che ho davanti ma io ti saluto come fossi una cosa.
Questo cresce, cresce e diventa la violenza mondiale. Nessuno oggi può negare che stiamo in guerra. E questa è una terza guerra mondiale, a pezzetti ma c’è. Bisogna abbassare un po’ il tono e bisogna parlare meno e ascoltare di più. Ci sono tante medicine contro la violenza ma prima di tutto il cuore, il cuore ti fa ricevere: cosa pensi tu? Prima discutere, dialogare. Sì, tu pensi in modo differente da me, ma prima dialoghiamo. il dialogo avvicina le persone, i cuori, con il dialogo si fa l’amicizia.
E si fa l’amicizia sociale. Prendo il giornale e vedo che questo insulta quello e così via: in una società dove la politica si è abbassata tanto - sto parlando della società mondiale, non di qui, dappertutto - si perde il senso della convivenza sociale. E la convivenza sociale si fa col dialogo. Questo si vede tanto quando ci sono campagne elettorali, le discussioni in tv. Uno parla prima che l’altro finisca la risposta: ma aspetta, prima ascolta e poi rispondi, e se non capisco la domanda prima chiedo!
La pazienza del dialogo. Dove non c’è dialogo, c’è violenza. Ho parlato di guerra ed è vero, siamo in guerra. Ma le guerre non incominciano là, cominciano nel tuo cuore, nel nostro cuore. Quando io non sono capace di aprirmi agli altri, di rispettare, parlare, dialogare con gli altri, lì comincia la guerra. Quando non c’è dialogo a casa, per esempio. Quando invece di parlare si grida o si sgrida. O quando siamo a tavola e invece di parlare ognuno sta col suo telefonino… Sta parlando, sì, ma con altri. Quel germe è l’inizio della guerra perché non c’è il dialogo.
E questo dice tanto all’università. L’università è un universo, il posto dove si può dialogare, dove c’è posto per tutti. Dialogare è proprio di un’università. Una università dove si va solo a scuola, si sentono i professori e poi si torna a casa, questa non è una università. Un’università deve avere questo lavoro artigianale del dialogo: sentire le lezioni, sì, la saggezza dei professori, ma il dialogo, la discussione, questo è importante. Io ora parlo di una cosa che non so se ci sia in Italia, ma so che c’è in altre parti.
Esistono le università di élite che in genere sono le cosiddette università ideologiche, dove tu vai, ti insegnano questa linea soltanto di pensiero, questa linea ideologica, e ti preparano per essere un agente di questa ideologia. Non è università, non lo è. Dove non c’è dialogo, confronto, ascolto e rispetto per come la pensa l’altro, e amicizia, gioia del gioco, sport, non c’è questo tutto questo insieme non c’è università.
“Ma io vado all’università per imparare!”. Sì, ma io ti dirò: per vivere. Vivere e cercare il vero, la bontà, la bellezza. E questo si fa insieme, tutti insieme, è un cammino universitario che non finisce mai. Per questo è tanto importante la presenza dei vecchi alunni nel corpo universitario, perché i nuovi possano avere il dialogo con loro. Quando si fa questo l’agire non è violento. E è bellissimo: la gioia di fare una strada assieme, senza gridare, senza insulti».
Riccardo Zucchetti, 23 anni, laureato in Ingegneria elettronica e ora al corso magistrale di Tecnologie della comunicazione, chiede: «Come spesso lei ha ricordato, stiamo vivendo non un’epoca di cambiamenti ma un vero cambiamento d’epoca, per il quale è necessaria una coraggiosa rivoluzione culturale. in un mondo globalizzato dove le informazioni più che confuse sono veicolate principalmente attraverso i social network, in che modo possiamo prepararci a divenire operatori della carità intellettuale per contribuire a un rinnovamento costruttivo della società?».
«L’epoca è diversa e noi dobbiamo prendere le cose come vengono. Questo è il primo passo per la vita: se non impariamo a prendere la vita come viene, mai impareremo a viverla. La vita somiglia un po’ al portiere di una squadra, che prende il pallone da dove lo buttano. La vita si deve prendere da dove viene. Non è soltanto i Tempi moderni di Chaplin, è un’epoca diversa, che viene da una parte che io non aspettavo ma devo prenderla, come viene, senza paura. La vita è così.
Parlavi di network. È vero che c’è un celerità. Gli olandesi avevano inventato una parola, “rapidazione", come la progressione geometrica nel tempo, il movimento di Aristotele, quando arriva alla fine è più veloce, si va più rapidi, con il pericolo di non avere il tempo di fermarsi per poter assimilare, pensare, riflettere.
È importante abituarsi a questa comunicazione ma senza che questa “rapidazione" mi tolga la libertà, abituarsi al dialogo con questa velocità. Tante volte una comunicazione così rapida e leggera può diventare liquida, senza consistenza: la società liquida di Bauman. Noi dobbiamo prendere la sfida di trasformare questa liquidità in concretezza. Per me la parola chiave per rispondere a questa domanda è concretezza.
Pensiamo all’economia. Qual è oggi il dramma dell’economia? L’economia liquida. Quando c’è una economia liquida c’è mancanza di lavoro, disoccupazione. Un amico imprenditore venuto dall’Argentina mi raccontava che era andato a far visita a un altro nel Nord dell’America, mi pare in Canada, e questo gli ha fatto vedere come faceva una operazione di compravendita: direttamente col pc, in Rete, in dieci minuti ha trasferito capre dell’America in Oriente e ha guadagnato diecimila dollari. Tutto liquido. E quando c’è liquidità, nell’economia, non c’è lavoro concreto.
Io vi faccio una domanda: nella nostra cara madre Europa, come si può pensare che i paesi sviluppati abbiamo una disoccupazione giovanile così forte? Io non dirò i paesi ma le cifre: in uno il 40 per cento di giovani senza lavoro, in altri il 47, il 50, quasi il 60… Si sta parlando di Europa, eh? Questa liquidità dell’economia toglie la cultura del lavoro. Non si può lavorare. I giovani non sanno cosa fare. E io, giovane, senza lavoro perché non lo trovo, alla fine l’amarezza del cuore dove mi porta? O mi porta al suicidio… quelli che sanno dicono che le vere statistiche dei suicidi giovanili non sono pubblicate… oppure, beh, vado da un’altra parte e miracolo in un esercito terroristico, almeno ho qualcosa da fare… È terribile. L’economia di mercato deve essere concreta. Per risolvere i problemi: concretezza».
Niccolò Romano, 23 anni, laureando in Giurisprudenza, chiede: «Qual è il valore e il significato di Roma per il suo vescovo, un Papa che viene “dall’altra parte del mondo”? La nostra città è ancora la communis patria? E cosa dovrebbe fare una università come la nostra per evidenziare questo ruolo?»
«Noi dobbiamo sempre cercare l’unità - l’unità che non è quel giornale! - ma è cosa totalmente diversa che l’uniformità. L’unità ha bisogno, per essere una, delle differenze. Unità nella diversità: si fa con la diversità. Lo sbaglio è pensare la globalizzazione come se fosse un pallone, una sfera dove ogni punto è a uguale distanza dal centro e,non c’è differenza, tutto è uniforme. Questa uniformità è la distruzione dell’unità, perché ti toglie la capacità di essere differente. Per questo a me piace parlare di un’altra figura geometrica, il poliedro. Ogni persona, razza, paese, cultura, sempre conserva la sua identità propria. E questo è l’unità nella diversità che la globalizzazione deve cercare. E quando si fa questo le culture crescono, il livello culturale cresce perché c’è un dialogo continuo tra i lati del poliedro che sono uniti da una unità. Il pericolo di oggi, un vero pericolo mondiale, è concepire una unità, una globalizzazione nella uniformità. E questo distrugge. La vera unità si fa nella diversità, e così possiamo parlare di una patria comune, perché siamo accomunati ma ognuno è diverso, è distinto».
L’ultima è Nour Essa, 31 anni, che il Papa conobbe l’anno scorso nel campo profughi di Lesbo con il marito e il figlio: una delle famiglie di profughi che portò con sé a Roma sul volo di ritorno. Scapparono da Damasco, dalla guerra, rimasero un mese nell’isola, «poi la nostra vita è cambiata grazie a lei», sorride a Francesco. Laurea in Agricoltura in Siria e master in microbiologia in Francia, frequenta il terzo anno di Biologia. E chiede al Papa: «C’è sempre la questione della paura che serpeggia tra la gente. Ricordo la domanda di una giornalista di ritorno da Lesbo sulla paura europea verso chi proviene da Siria o Iraq: queste persone non minacciano la cultura cristiana dell’Europa?».
«Io mi domando: quante invasioni ha avuto l’Europa? L’Europa è stata fatta di migrazioni e di invasioni, e stata fatta artigianalmente così. Le migrazioni non sono un pericolo, sono una sfida per crescere. E lo dice uno che viene da un paese dove più dell’ 80 per cento sono migranti.
Non è una cosa cattiva, l’emigrazione. Io ricordo quel giorno a Lesbo. Ho sofferto tanto, quel giorno. Loro sono saliti sull’aereo prima che arrivassi io, qualcuno è andato con a dire che dicevano scendere di nuovo per salutarmi loro non volevano scendere, avevano paura. È importante pensarlo bene, oggi, il problema dei migranti.
Perché c’è un fenomeno migratorio così forte? Pensiamo all’Africa e al Medio Oriente verso l’Europa. Perché c’è la guerra, e fuggono dalla guerra; o c’è la fame, e fuggono dalla fame. Quale sarebbe la soluzione ideale? Che non ci sia la guerra e non ci sia la fame. Fare la pace o fare investimenti in quei posti perché abbiano risorse per lavorare e guadagnarsi al vita.
In alcuni paesi hanno una “cultura”, fra virgolette, una cultura dello sfruttamento, che li fa soffrire. Noi andiamo là per sfruttarli. Un primo ministro di un paese dell’Africa mi ha detto l’anno corso che il primo lavoro che ha fatto col suo governo è la riforestazione del paese, perché le ditte internazionali erano andate là e avevano deforestato tutto. Noi facciamo i potenti che vanno a sfruttare. Così fuggono e vengono sfruttati di nuovo, da quelli che hanno i barconi. Il Mediterraneo, il mare nostrum, oggi è un cimitero. Pensiamo a questo quando siamo soli, come fosse una preghiera. Sono andato a Lampedusa, ho sentito che dovevo andare, è il primo viaggio che ho fatto, incominciava il fenomeno e adesso è di tutti i giorni.
Ma come si devono ricevere i migranti, come si devono accogliere? Primo, come fratelli, sorelle, umani. Sono uomini e donne come noi. Secondo, ogni paese deve vedere di quale numero è capace di accogliere. È vero, non si può accogliere se non c’è possibilità, ma tutti possono fare qualcosa. E poi non solo accogliere, ma integrare, ricevere: imparare la lingua, cercare lavoro, una abitazione, che ci siano organizzazioni per integrare.
Penso all’esperienza che ho avuto quando è venuta Nour: tre giorni dopo i bambini andavano a scuola, e quando sono venuti da me dopo tre mesi i bambini parlavano l’italiano, perché sono andati a scuola, e la maggioranza dei genitori aveva un lavoro. Questo è integrare.
E ancora, importante: loro portano una cultura che è ricchezza per noi, ma anche loro devono ricevere la nostra cultura. Bisogna fare uno scambio di culture, e questo toglie la paura. C’è la paura? Sì. Ma la paura non è solo dei migranti. I delinquenti sono di qui o migrati, c’è di tutto. Integrare è importante. Penso a un esempio triste: i ragazzi che hanno fatto quella strage erano belgi, figli di migranti ma nati in Belgio, ghettizzati e non integrati. Ci sono paesi d’Europa che danno un bell’esempio di integrazione, come la Svezia. E quando c’è questa accoglienza, accompagnamento e integrazione, non c’è pericolo. Con l’immigrazione si riceve una cultura e si offre una cultura. Questa è la mia riposta alla paura».