E D'Avenia dialoga con Leopardi. Pensando ai giovani, di Alessandro D'Avenia
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Riprendiamo da Avvenire del 28/10/2016 un testo di Alessandro D'Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti su Leopardi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (13/11/2016)
«La letteratura serve a fare interrogativi, non interrogazioni», scrive Alessandro D’Avenianelle pagine iniziali del suo L’arte di essere fragili (Mondadori, pagine 216, euro 19, in libreria dal 31 ottobre, di cui qui di seguito presentiamo in anteprima un brano). E se lo dice lui, che di interrogazioni se ne intende, c’è da fidarsi. Dopo lo straordinario successo del romanzo d’esordio, Bianca come il latte, rossa come il sangue (uscito nel 2010, nel 2013 è diventato un film diretto da Giacomo Campiotti), e dopo le importanti conferme di Cose che nessuno sa (2011) e Ciò che inferno non è (2014: ispirato al martirio di don Pino Puglisi, il libro ha ricevuto il premio speciale del Presidente al Mondello 2015), il professore di lettere più amato d’Italia torna adesso con quella che può essere considerata la sua prova più personale e caratteristica. L’arte di essere fragili non è infatti un romanzo in senso tradizionale, né un semplice saggio di critica letteraria. Si tratta piuttosto della versione estesa delle lezioni che D’Avenia tiene nel suo liceo milanese e nelle diverse scuole che in questi anni lo hanno invitato e applaudito.
Come Leopardi può salvarti la vita, promette il sottotitolo, perché l’interlocutore scelto dal “Prof 2.0” – così si definisce sul suo seguitissimo blog – è proprio lui, il poeta più citato e insieme frainteso del nostro Parnaso. Costruito attraverso un serrato montaggio di citazioni leopardiane, spesso presentate sotto forma di interrogativo (e non di interrogazione), il libro si articola in un percorso dall’adolescenza alla maturità, che non nasconde le difficoltà del rapporto con il mondo e anzi le esalta attraverso la riflessione sulla fragilità e sulla «riparazione» che ogni ferita comporta. Fino alla frattura suprema, quella della morte tanto invocata da Leopardi e che pure può ancora risolversi in apertura alla speranza. D’Avenia non sovrappone la sua voce a quella del poeta (ma nel libro il Leopardi prosatore non è meno presente, come dimostrano i molti brani tratti dallo Zibaldone, dalle Operette morali, dal ricchissimo epistolario) e, anche quando propone un’analisi dei Canti più conosciuti, non si spinge mai più in là di quanto il testo glielo permetta. Quello con Giacomo resta un dialogo, appunto. Ma svolto in pubblico, per permettere al lettore di riconoscersi nell’urgenza di domande senza tempo.
Alessandro Zaccuri
Caro Giacomo,
quando devo iniziare la parte di programma che ti riguarda, non dichiaro la tua identità, ma dico che è venuta l’ora di leggere il più grande poeta moderno, un poeta che ha trasformato ogni limite in bellezza, ed ebbe chiaro che questa era la sua vocazione all’età dei ragazzi che ho di fronte.
Mi guardano con gli occhi grandi per quei pochi secondi che dura l’attenzione al nuovo di questa generazione, in attesa del nome. Ma dal momento che non lo rivelo, cominciano a fare ipotesi. Quando qualcuno indovina, quasi subito una voce aggiunge: «No... quello sfigato di Leopardi, no!». Abbi pazienza, sono giovani e ignoranti: si fanno prestare i luoghi comuni pur di avere un pensiero in bocca. Ma vedi, Giacomo, io spero che usino quell’aggettivo, perché smaschera tutta la paura che nasconde, quella di una cultura per la quale chi si chiede il senso delle cose non è altro che “sfigato”, tanto quanto chi non ha un corpo perfetto. Eri veramente uno sfortunato da cui stare alla larga? Chi ha la gobba porta fortuna, si dice, ma tu ce l’avevi davvero? Pensa che c’è chi, per giustificare la tua poesia, parte proprio dalla gobba, anziché dal rapimento. Sei morto per una crisi respiratoria provocata dalla compressione del tuo corpo storto sul cuore. Non hai trovato mai un amore che corrispondesse ai tuoi innamoramenti. Insomma, sei la quintessenza del giovane che nessun giovane vorrebbe essere. È vero, Giacomo? Ti difendi da solo o devo farlo io?
Puoi farlo da solo, ma io devo ridurre la distanza tra la corazza dei miei studenti e la tua pelle. Devo spaccare quell’armatura di paure che impedisce loro di capire che l’arte da imparare in questa vita non è quella di essere invincibili e perfetti, ma quella di saper essere come si è, invincibilmente fragili e imperfetti. Per spaccare la corazza ho bisogno di una punta affilata e temprata, e allora ti impugno come una spada e leggo come se tu stesso parlassi ad alta voce, con le pause giuste: Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi chiaramente, e m’accorgessi di quello che sono, e di cuore perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e, quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile(Lettera a Pietro Giordani, 2 marzo 1818).
Chi ha l’ardire di chiamare sfigato un ragazzo così, capace di accettare e trasformare le sue sfortune in trampolino per aprire la testa e il cuore? Chi è capace come lui di affrontare la vita con questo coraggio e avere la malinconia come compagna di cammino, e nonostante questo creare così tanta bellezza? Mi fermo e chiedo: riuscireste voi a trasformare in canto il dolore della vita, i vostri fallimenti, la vostra inadeguatezza? A nutrirvi del vostro destino, più o meno fortunato che sia, per farne un capolavoro immortale?Alle tue parole cala il silenzio. Abbiamo capito che con te non si scherza, non si banalizza. Così, proprio dalla porta della sfortuna, entriamo nella tua grandezza, Giacomo, e io li vedo risvegliarsi, perché ciascuno di noi nasconde dentro di sé la stanza della sfortuna, quella in cui le fragilità e inadeguatezze sono evidenti. Abbassano le difese, ché questo è il compito della letteratura: rendere l’uomo più vero e autentico, spogliandolo delle menzogne che lo allontanano da sé, dalla vita, dagli altri. Così si risveglia la passione assopita, la propria originalità, e si confina la paura di non essere “abbastanza”: Sebbene è spento nel mondo il grande e il bello e il vivo, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia.(Zibaldone, 1° agosto 1820)
Ma questo desiderio di vita, di felicità, d’amore, fondamento del cuore dei giovani (e di tutti), è materia naturale e inestinguibile, e, quando non è indirizzato alla costruzione del mondo e della speranza, «circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico», scrivi in un altro passaggio del tuo diario nell’agosto del 1820. Non più un fuoco che riscalda e dà luce, ma un fuoco che prima o poi esploderà «in temporali e terremoti». Io vedo oggi con molta chiarezza questa energia che si disperde nel nulla. Incontro centinaia di ragazzi, e centinaia sono quelli che mi scrivono, stufi di non sapere per cosa giocarsi quell’infinito che sentono nel cuore. Vogliono progetti, non oggetti. Mentre noi cerchiamo di soddisfare il desiderio con le cose, loro chiedono quello che il desiderio contiene: la speranza dell’impossibile reso possibile.
Forse, in fondo, non è cambiato molto da quando eri giovane tu. L’adolescenza, secondo i ragazzi stessi a cui ho chiesto di definirla, è “energia” che vuole indirizzarsi alla vita per costruirla. Ecco la prima cosa che vedo in loro e che tu hai definito tanto bene: una forza creatrice, che si libera trovando forma in parole impugnate come armi per far esplodere il dolore o la gioia, per fuggire da «nullità e monotonia». Un ragazzo una volta mi ha detto: «Quando ho finito di leggere il suo libro un fuoco si era acceso dentro di me, e mi dicevo: io voglio vivere così. Adesso lei deve spiegarmi come mai questo è accaduto». Adolescenza è questo fuoco che non vuole altro che ardere di passione e di passioni, a volte fino a bruciare se stessa per mancanza di combustibile. Questo fuoco c’è, io l’ho visto. È il fuoco della vita. Può trasformarsi in distruzione e, al limite, in autodistruzione, ma non può essere spento, e se sembra estinguersi, languire, divorato dal cinismo, dalla mancanza di speranza, poi riaffiora sotto forme esplosive o implosive, «temporali e terremoti» tu li chiami, io li chiamo: dipendenze, violenze, fughe, autolesionismi, suicidi, disturbi alimentari...
Questa generazione vuole testimoni, prima che maestri, perciò, Giacomo, tu devi aiutarmi. Le passioni si risvegliano a contatto con il fuoco, non con le istruzioni per accenderlo, soprattutto in questi ragazzi che le istruzioni non le leggono più, ma vogliono mettersi subito in gioco, on fire, come si dice nella lingua di Shakespeare.