Il problema è la difficoltà, non il latino, di Luca Ricolfi
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Riprendiamo da Il Sole 24 Ore del 16/10/2016 un articolo di Luca Ricolfi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia e la sezione Letteratura
Il Centro culturale Gli scritti (24/10/2016)
Non so esattamente perché, ma ho sempre detestato gli appelli. Forse perché sono troppi, e i personaggi pubblici ne abusano (come i radicali con i referendum). O forse perché, assai spesso, sembrano strumenti di autopromozione dei firmatari, più che mezzi adeguati per risolvere i problemi che sollevano. Insomma, quali che siano le origini della mia diffidenza, non ho mai firmato appelli. Anzi, mi sono dato una regola: non firmare mai un appello, anche se lo condividi al 100%.
Oggi però sono crollato. Ho violato la mia regola, e ho firmato un appello, il primo (probabilmente l’unico) della mia vita. Non me la sentivo di non aderire.
Così, venerdì ho aggiunto la mia minuscola firma alle 9.964 che già erano state raccolte. Probabilmente, nel momento in cui leggete questo articolo, le firme avranno superato la barriera delle 10mila, tantissime per il tipo di argomento considerato.
Di che cosa si tratta? Si tratta della lettera-appello contro l’abolizione, parziale o totale, della traduzione dal latino e dal greco nell’esame di maturità (una proposta lanciata qualche mese fa dall’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer a un convegno milanese). Qui non voglio aggiungere alcun argomento alle limpide e convincenti parole dell’appello, il cui testo è direttamente consultabile su internet (indirizzo utile anche per eventuale firma).
Quello che vorrei fare, invece, è raccontare come può vedere le cose chi, come me, fa il sociologo e insegna materie scientifiche (matematica e analisi dei dati) agli studenti universitari.
Ebbene, io sono convinto che la vera posta in gioco non sia la sopravvivenza della cultura classica nel nostro Paese. Certo, tutto fa pensare che la nostra epoca sia una sorta di contro-Rinascimento, un tempo in cui il pendolo fra l’ammirazione per i classici e la venerazione delle novità oscilla decisamente a favore di queste ultime. E, se devo fare una previsione, sono perfettamente persuaso che si continuerà sulla strada già imboccata con la soppressione della storia antica dalla scuola media inferiore: nelle scuole secondarie del futuro lo spazio riservato alla civiltà greco-romana da cui proveniamo sarà sempre più ristretto.
E tuttavia a me pare che la ragione vera per cui si vuole (e quasi certamente si riuscirà) abolire la traduzione dal latino e dal greco non sia l’incapacità di apprezzare la cultura classica, o la volontà di promuovere la cultura scientifica, o il desiderio di modernizzare e svecchiare la scuola.
No, la vera ragione è molto più terra-terra: la traduzione dal latino e dal greco, insieme ad alcune parti della matematica (nei casi in cui vengono effettivamente insegnate), è rimasto l’ultimo compito davvero difficile della scuola secondaria superiore. È questo, semplicemente questo, che rende attraenti le tesi degli abolizionisti. È questo che – prima o poi – consentirà loro di imporsi.
Perché, non nascondiamocelo, la domanda degli studenti e delle loro famiglie non è di alzare l’asticella, ma di abbassarla sempre più, come in effetti diligentemente facciamo da almeno quattro decenni. È questo, il livello dell’asticella, che fa la differenza fra una buona scuola e una scuola mediocre. Ed è questo, la tenace volontà di tenerla bassa, il non-detto che accomuna buona parte delle innovazioni nella scuola e nell’università.
Se così non fosse, alla progressiva erosione dello spazio del latino e del greco, con la soppressione dell’analisi logica nella scuola media inferiore, la scomparsa quasi universale della traduzione dall’italiano, l’istituzione di licei scientifici “ma senza latino”, si accompagnerebbe l’introduzione di soggetti ritenuti più interessanti, o più utili, o più formativi, ma altrettanto impegnativi. Giusto per fare qualche esempio: studio del cinese, compresi gli ideogrammi; logica e calcolo simbolico; teoria della relatività; meccanica quantistica; filologia classica o moderna; algebra astratta; linguaggi di programmazione evoluti (al posto del ridicolo insegnamento del pacchetto Microsoft Office). Ecco perché dico che la cultura classica non è la vera posta in gioco.
Le minacce alla cultura classica vengono un po’ da tutte le parti, ma il suo vero tallone di Achille è che c’è un momento di essa, quello in cui prendiamo in mano un testo di 2000 anni fa e proviamo a tradurlo, che richiede un livello di organizzazione mentale che non siamo più capaci di fornire a tutti. Per questo, essenzialmente per questo, la traduzione dal greco e dal latino è entrata nel mirino della politica.
Non tanto perché «non è utile» (quasi nulla di ciò che si insegna a scuola ha un’utilità immediata), ma perché è difficile, molto difficile. Si potrebbe obiettare: perché mai dobbiamo difendere le cose difficili? Non c’è un po’ di sadismo nel rifiuto di alleggerire gli studi? È arrivati a questo punto, a questo nodo del problema, che mi sono convinto che, proprio per il lavoro che faccio, non potevo non firmare l’appello. Perché quel che osservo nel mio lavoro di docente universitario non mi può lasciare indifferenti.
Quel che vedo è terribile. Ci sono studenti, tantissimi studenti, che non hanno alcun particolare handicap fisico o sociale eppure sono irrimediabilmente non all’altezza dei compiti cognitivi che lo studio universitario ancora richiede in certe materie e in certe aree del Paese. Essi credono di avere delle “lacune”, e quindi di poterle colmare (come si recupera un’informazione mancante cercandola su internet), ma in realtà si sbagliano. Per essi non c’è più (quasi) nulla da fare, perché difettano delle capacità di base, che si acquisiscono lentamente e gradualmente nel tempo: capacità di astrazione e concentrazione, padronanza della lingua e del suo lessico, finezza e sensibilità alle distinzioni, capacità di prendere appunti e organizzare la conoscenza, attitudine a non dimenticare quel che si è appreso.
La scuola di oggi, con la sua corsa ad abbassare l’asticella, queste capacità le fornisce sempre più raramente. E, quel che è più grave, questa rinuncia a regalare ai giovani una vera formazione di base non avviene certo in nome di un’istruzione “utile”, ovvero all’insegna di uno sviluppo delle capacità professionali, ad esempio sul modello tedesco dell’alternanza scuola-lavoro.
No, il modello verso cui stiamo correndo a fari spenti è quello della liceizzazione totale: la scuola secondaria superiore è oggi un gigantesco liceo che non è più in grado di erogare una preparazione di base decente, e proprio per questo induce l’università a trasformarsi essa stessa in un immenso e tardivo liceo.
L’unico baluardo che resta in piedi sono quelle scuole, ma forse sarebbe meglio dire – quegli insegnanti – che non hanno rinunciato a spostare l’asticella sempre più in su, per mettere i loro allievi nelle condizioni di affrontare qualsiasi tipo di studio, umanistico o scientifico che sia. È grazie a queste scuole e a questi insegnanti che all’università, nonostante tutto, arrivano ancora drappelli di studenti in grado di ricevere un’istruzione universitaria, e le materie più complesse non sono ancora state abolite del tutto. Ma si tratta di eccezioni, non di rado provenienti dalla minoranza di studenti (circa il 6%) che ancora scelgono il liceo classico, con la sua aborrita prova di traduzione dal latino e dal greco.
La regola, purtroppo, è che chi ha un diploma di maturità non è in grado di frequentare un’università che non abbia drasticamente abbassato gli standard. È per questo che sto con la lettera-appello sulla traduzione dal latino e dal greco. Per me quella lettera non difende semplicemente la cultura classica, il latino o il greco. Quell’appello, difendendo l’ultima prova veramente difficile rimasta in piedi nella scuola, difende anche un’idea più generale: che se non vogliamo privare i nostri ragazzi delle capacità di cui prima o poi avranno bisogno, dobbiamo regalargli studi degni di questo nome, e smetterla di proteggerli da ogni sfida che possa metterli davvero alla prova.