Agli ultimi banchi. Educazione. «La scuola, le api e le formiche»: il libro di Walter Tocci, uscito per Donzelli, che passa al setaccio l'ossessione riformativa delle politiche per l'istruzione, tutte improntate alla società di mercato, di Piero Bevilacqua
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Riprendiamo da Il Manifesto del 18/12/2015 un articolo di Piero Bevilacqua. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia.
Il Centro culturale Gli scritti (17/1/2016)
Ci sono analisi settoriali che svelano molte più cose di profondità sistemica che non tante indagini di portata programmaticamente generale. È questo il caso del libro di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l’educazione dalle ossessioni normative (Donzelli, pp.192, euro 19,50) che è molto più di una tagliente analisi della scuola italiana nel nostro tempo. Senza forzare molto le cose si potrebbe dire che è una diagnosi della società italiana e al tempo stesso una spiegazione etiologica del suo conclamato declino attraverso le politiche della formazione. L’autore, infatti, prende in esame i tentativi di riforma degli ultimi anni, i suoi impatti sulla scuola, ma ha il grande merito di non rimanere dentro questo recinto, di scorgere le origini dei problemi in dinamiche più generali, sotto il cui influsso l’Italia indietreggia a grandi passi, chiudendosi in un processo di autoemarginazione di cui non si vede la fine.
La situazione della scuola italiana e il livello culturale dell’intero paese sono il risultato di processi economici e sociali molteplici, e al tempo stesso il frutto di scelte, di assecondamento, da parte delle classi dirigenti e del ceto politico, di convinzioni ideologiche dominanti. Si pensi alla diffusione del mito della società della conoscenza. «Dagli anni novanta – ricorda Tocci – si è diffusa una interpretazione rassicurante della modernità riflessiva, come processo auto-generativo della competenza sociale. Si suppone una capacità degli individui e delle istituzioni di cogliere nel cambiamento stesso i saperi necessari per il suo governo. È il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato, decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. Innovare sembra come passeggiare in un prato raccogliendo i fiori della conoscenza».
È da tale visione-illusione, rielaborazione e insieme cascame ideologico della cultura neoliberista, che nasce la politica di intervento «riformatore» sulla scuola degli anni recenti. Una politica tutta orientata a piegare, attraverso dispostivi normativi, le strutture «antiquate» della formazione alla «modernità» rampante della società che avanza. «La scuola — sottolinea Tocci — è sempre in ritardo rispetto a una presunta paideia della modernizzazione. La sua resistenza al cambiamento diventa una colpa rispetto alla società. E può essere mondata solo con le riforme».
Senza che gran parte dei riformatori ne abbia piena consapevolezza, tale posizione assume la società plasmata dal cosiddetto libero mercato, le sue intime logiche competitive, come il principio di realtà a cui la formazione scolastica deve adattarsi per poterla più prontamente servire. Non è più la scuola, la comunità scientifica ed educativa dello Stato-nazione che progetta le linee di formazione delle nuove generazioni, sulla base della sua storia e dei bisogni conoscitivi e culturali dell’epoca, ma è la società di mercato che tenta di trascinare le istituzioni nel vortice delle sue imperiose dinamiche.
Da ciò discende l’emarginazione sempre più dispiegata della cultura umanistica, poco utile ai bisogni economici del momento, l’insistenza ossessiva sulla valutazione e sui suoi criteri, piegati a logiche sempre più attente ai risultati quantitativi immediati, piuttosto che al processo evolutivo dei ragazzi. Il fine della scuola è sempre meno quello di formare spiritualmente e civilmente i cittadini italiani, di dotarli di un patrimonio cognitivo e culturale per la futura navigazione in una società complessa, ma di renderli più pronti alle esigenze del mercato del lavoro.
Questo spiega l’ossessione normativa con cui i governi sono intervenuti negli ultimi decenni in tale ambito, senza alcuna ambizione di innalzare la qualità dei processi formativi, di innovare i metodi e i modi dell’insegnamento, di attingere alle novità dei saperi contemporanei, oggi impegnati in uno straordinario sforzo di cooperazione interdisciplinare. Una tendenza a cui si è accompagnata la nessuna cura per le sorti di chi «non eccelle», dei ragazzi provenienti da famiglie modeste, che sempre più numerosi ripercorrono il destino sociale dei padri, entro un meccanismo di mobilità sociale bloccato, riproduttore di disuguaglianze sociali oltre che territoriali.
Indagini recenti – ricorda Tocci – mostrano che nel nostro paese poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. Da noi, tale incapacità, fondativa di una piena cittadinanza, riguarda il 70% dei cittadini tra i 16 e i 65 anni. Una cifra impressionante — che ci colloca agli ultimi posti, insieme alla Spagna, nelle statistiche Ocse — composta da dati articolati in altre cifre edificanti: il 6% di analfabeti primari; il 22 % di analfabeti di ritorno (quelli che perdono negli anni le poche competenze apprese a scuola); il 42% di analfabeti funzionali, di coloro, cioè che pur essendo in grado di leggere un testo non riescono a padroneggiarne il significato.
Un quadro allarmante che avrebbe dovuto essere posto al centro della riflessione delle classi dirigenti italiane, quale fuoco strategico decisivo su cui intervenire per invertire il corso accelerato del declino nazionale. E che invece non trova attenzione se non per qualche giorno su i nostri media, figuriamoci nell’agenda politica di governo. Tocci racconta che nel 2014, quando i giornali pubblicarono i risultati dell’indagine Piaac-Ocse, di fronte all’enormità dei dati, il governo Letta decise di nominare una commissione, presieduta da Tullio De Mauro, per studiare i rimedi. Giusto un gesto di buona volontà.
Inutile rammentare che il governo Renzi, l’ha messa da parte, realizzando il progetto risolutivo a tutti noto come «Buona scuola»: sigillo definitivo di questo esecutivo sulla propria radicale inadeguatezza ad affrontare i problemi fondamentali del Paese.
Significativamente poche voci critiche si son levate dal mondo imprenditoriale e professionale, dal giornalismo, dai gruppi intellettuali, e non per caso. I livelli di istruzione delle nostre classi dirigenti sono fra i più bassi d’Europa: il 31% di laureati contro la maggioranza assoluta in Germania, Regno Unito e Francia, accompagnati da un sontuoso 26% di individui col solo titolo elementare. A fronte di dati a una sola cifra negli altri paesi.
Tali numeri sono decisivi per comprendere come si configura il sistema-Italia e il carattere perverso del suo avvitarsi verso il basso. Tocci lo mostra con nitore espositivo e argomentazioni inoppugnabili. Una classe imprenditoriale fra le più incolte del Continente investe in ricerca meno di quanto faccia lo stato – caso unico in Europa – che già di suo investe meno di tutti gli altri. Il sistema produttivo avanza una domanda modesta di innovazione tecnologica e si accontenta di una percentuale annuale di laureati che è la metà di quella europea. Sicché non stupisce come nel nostro Paese sia stato politicamente così agevole, ai vari governi, praticare i tagli lineari alla scuola e all’Università degli ultimi anni.
Così come non stupisce lo spreco delle competenze e dei saperi dei nostri laureati e ricercatori, della nostra gioventù studiosa di cui l’intero sistema paese, fondato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, non sa che fare. Come non vedere allora che scuola e Università sono le leve strategiche per invertire la china e che solo un grande progetto politico può metterle in moto?