Papa Francesco a Cuba e negli USA 1/ «Il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone». Omelia nella messa a La Habana (Cuba) 2/ «Quando non si vive una vita di famiglia si generano quelle personalità che possiamo definire così: “io, me, mi, con me, per me”, totalmente centrate su sé stesse». Discorso nell’Incontro con le famiglie a Santiago (Cuba) 3/ «Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e non-esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio. Quattro rappresentanti del Popolo americano». Discorso all'Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d'America, Washington 4/ «Il Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”». Discorso all’ONU 5/ «La libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione». Discorso nell’Incontro per la libertà religiosa a Philadelphia 6/ «Un cristianesimo che “si fa” poco nella realtà e “si spiega” infinitamente nella formazione, sta in una sproporzione pericolosa. Direi in un vero e proprio circolo vizioso. Il pastore deve mostrare che il Vangelo della famiglia è davvero “buona notizia” in un mondo dove l’attenzione verso sé stessi sembra regnare sovrana!». Discorso ai vescovi ospiti dell'incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia 7/ «Dio è entrato nel mondo in una famiglia. E ha potuto farlo perché quella famiglia era una famiglia che aveva il cuore aperto all’amore, aveva le porta aperte». Discorso nella veglia di preghiera a Philadelphia 8/ «Dio conceda a tutti noi di essere profeti della gioia del Vangelo, del Vangelo della famiglia»: L’omelia della Messa a Philadelphia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 28 /09 /2015 - 00:33 am | Permalink | Homepage
- Tag usati: ,
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

1/ «Il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone». Omelia nella messa a La Habana (Cuba)

Riprendiamo sul nostro sito l’omelia tenuta da papa Francesco nella Messa presso la Plaza de la Revolución, La Habana, il 20/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Gesù rivolge ai suoi discepoli una domanda apparentemente indiscreta: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?” (Mc 9,33). Una domanda che anche oggi Egli può farci: Di cosa parlate quotidianamente? Quali sono le vostre aspirazioni? «Essi – dice il Vangelo – tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,34). Si vergognavano di dire a Gesù di cosa stavano parlando. Come nei discepoli di ieri, anche in noi oggi si può riscontrare la medesima discussione: “Chi è il più grande?”.

Gesù non insiste con la sua domanda, non li obbliga a dirgli di che cosa parlavano per la strada; eppure quella domanda rimane, non sono nella mente, ma anche nel cuore dei discepoli.

“Chi è il più grande?”. Una domanda che ci accompagnerà per tutta la vita e alla quale saremo chiamati a rispondere nelle diverse fasi dell’esistenza. Non possiamo sfuggire a questa domanda, è impressa nel cuore. Ho sentito più di una volta in riunioni famigliari domandare ai figli: “A chi volete più bene, al papà o alla mamma?”. È come domandare: chi è più importante per voi? Questa domanda è davvero solo un semplice gioco per bambini? La storia dell’umanità è stata segnata dal modo di rispondere a questa domanda.

Gesù non teme le domande degli uomini; non ha paura dell’umanità, né dei diversi interrogativi che essa pone. Al contrario, Egli conosce i “recessi” del cuore umano, e come buon pedagogo è sempre disposto ad accompagnarci. Fedele al suo stile, fa’ propri i nostri interrogativi, le nostre aspirazioni e dà loro un nuovo orizzonte. Fedele al suo stile, riesce a dare una risposta capace di porre una nuova sfida, spiazzando le “risposte attese” o ciò che era apparentemente già stabilito. Fedele al suo stile, Gesù pone sempre in atto la logica dell’amore. Una logica capace di essere vissuta da tutti, perché è per tutti.

Lontano da ogni tipo di elitarismo, l’orizzonte di Gesù non è per pochi privilegiati capaci di giungere alla “conoscenza desiderata” o a distinti livelli di spiritualità. L’orizzonte di Gesù è sempre una proposta per la vita quotidiana, anche qui, nella “nostra” isola; una proposta che fa sempre sì che la quotidianità abbia un certo sapore di eternità.

Chi è il più grande? Gesù è semplice nella sua risposta: «Se uno vuole essere il primo – ossia il più grande – sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35). Chi vuole essere grande, serva gli altri, e non si serva degli altri!

E questo è il grande paradosso di Gesù. I discepoli discutevano su chi dovesse occupare il posto più importante, su chi sarebbe stato il privilegiato – ed erano i discepoli, i più vicini a Gesù, e discutevano di questo! –, chi sarebbe stato al di sopra della legge comune, della norma generale, per mettersi in risalto con un desiderio di superiorità sugli altri. Chi sarebbe asceso più rapidamente per occupare incarichi che avrebbero dato certi vantaggi.

E Gesù sconvolge la loro logica dicendo loro semplicemente che la vita autentica si vive nell’impegno concreto con il prossimo, cioè servendo.

L’invito al servizio presenta una peculiarità alla quale dobbiamo fare attenzione. Servire significa, in gran parte, avere cura della fragilità. Servire significa avere cura di coloro che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro popolo. Sono i volti sofferenti, indifesi e afflitti che Gesù propone di guardare e invita concretamente ad amare. Amore che si concretizza in azioni e decisioni. Amore che si manifesta nei differenti compiti che come cittadini siamo chiamati a svolgere. Sono persone in carne e ossa, con la loro vita, la loro storia e specialmente la loro fragilità, che Gesù ci invita a difendere, ad assistere, a servire. Perché
essere cristiano comporta servire la dignità dei fratelli, lottare per la dignità dei fratelli e vivere per la dignità dei fratelli. Per questo, il cristiano è sempre invitato a mettere da parte le sue esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo concreto dei più fragili.

C’è un “servizio” che serve gli altri; però dobbiamo guardarci dall’altro servizio, dalla tentazione del “servizio” che “si” serve degli altri. Esiste una forma di esercizio del servizio che ha come interesse il beneficiare i “miei”, in nome del “nostro”. Questo servizio lascia sempre fuori i “tuoi”, generando una dinamica di esclusione.

Tutti siamo chiamati dalla vocazione cristiana al servizio che serve e ad aiutarci a vicenda a non cadere nelle tentazioni del “servizio che si serve”. Tutti siamo invitati, stimolati da Gesù a farci carico gli uni degli altri per amore. E questo senza guardare accanto per vedere che cosa il vicino fa o non fa. Gesù ci dice: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35). Costui diventa il primo. Non dice: “Se il tuo vicino desidera essere il primo, che serva”. Dobbiamo guardarci dallo sguardo che giudica e incoraggiarci a credere nello sguardo che trasforma, al quale ci invita Gesù.

Questo farci carico per amore non punta verso un atteggiamento di servilismo, ma al contrario, pone al centro la questione del fratello: il servizio guarda sempre il volto del fratello, tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”, e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone.

Il santo Popolo fedele di Dio che vive a Cuba è un popolo che ama la festa, l’amicizia, le cose belle. È un popolo che cammina, che canta e loda. È un popolo che ha delle ferite, come ogni popolo, ma che sa stare con le braccia aperte, che cammina con speranza, perché la sua vocazione è di grandezza. Così l’hanno seminata i vostri antenati. Oggi vi invito a prendervi cura di questa vocazione, a prendervi cura di questi doni che Dio vi ha regalato, ma specialmente voglio invitarvi a prendervi cura e a servire la fragilità dei vostri fratelli. Non trascurateli a causa di progetti che possono apparire seducenti, ma che si disinteressano del volto di chi ti sta accanto. Noi conosciamo, siamo testimoni della «forza incomparabile» della risurrezione che «produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 276.278).

Non dimentichiamoci della Buona Notizia di oggi: la grandezza di un popolo, di una nazione; la grandezza di una persona si basa sempre su come serve la fragilità dei suoi fratelli. E in questo troviamo uno dei frutti di una vera umanità.

Perché, cari fratelli e sorelle, “chi non vive per servire, non serve per vivere”.

2/ «Quando non si vive una vita di famiglia si generano quelle personalità che possiamo definire così: “io, me, mi, con me, per me”, totalmente centrate su sé stesse». Discorso nell’Incontro con le famiglie a Santiago (Cuba)

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’Incontro con le famiglie presso la Cattedrale di Nostra Signora dell’Assunzione, Santiago (Cuba) il 22/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Siamo in famiglia. E quando uno sta in famiglia si sente a casa. Grazie famiglie cubane, grazie cubani per avermi fatto sentire in tutti questi giorni in famiglia, per avermi fatto sentire a casa. Grazie per tutto questo. Questo incontro con voi è come “la ciliegina sulla torta”. Concludere la mia visita vivendo questo incontro in famiglia è un motivo per rendere grazie a Dio per il “calore” che promana da gente che sa ricevere, che sa accogliere, che sa far sentire a casa. Grazie a tutti i cubani.

Ringrazio Mons. Dionisio García, Arcivescovo di Santiago, per il saluto che mi ha rivolto a nome di tutti, e la coppia che ha avuto il coraggio di condividere con tutti noi i suoi aneliti e i suoi per vivere la famiglia come una “chiesa domestica”.

Il Vangelo di Giovanni ci presenta come primo avvenimento pubblico di Gesù le Nozze di Cana, nella festa di una famiglia. Lì è con Maria sua madre e alcuni dei suoi discepoli. Condividevano la festa familiare.

Le nozze sono momenti speciali nella vita di molti. Per i “più veterani”, genitori, nonni, è un’occasione per raccogliere il frutto della semina. Dà gioia all’anima vedere i figli crescere e poter formare la propria famiglia. È l’opportunità di vedere, per un istante, che tutto ciò per cui si è lottato ne valeva la pena. Accompagnare i figli, sostenerli, stimolarli perché possano decidersi a costruire la loro vita, a formare la loro famiglia, è un grande compito per i genitori. A loro volta, i giovani sposi sono nella gioia. Tutto un futuro che comincia. E tutto ha “sapore” di casa nuova, di speranza. Nelle nozze sempre si incontrano il passato che ereditiamo e il futuro che ci attende. C’è memoria e speranza. Sempre si apre l’opportunità di ringraziare per tutto ciò che ci ha permesso di giungere fino ad oggi con lo stesso amore che abbiamo ricevuto.

E Gesù comincia la sua vita pubblica proprio in un matrimonio. Si inserisce in questa storia di semina e raccolto, di sogni e ricerche, di sforzi e impegno, di lavori faticosi che hanno arato la terra perché dia il suo frutto. Gesù comincia la sua vita pubblica all’interno di una famiglia, in seno ad una comunità domestica. Ed è proprio in seno alle nostre famiglie che Egli continua ad inserirsi, continua ad esser parte. Gli piace stare in famiglia.

È interessante osservare come Gesù si manifesta anche nei pranzi, nelle cene. Mangiare con diverse persone, visitare diverse case è stato per Gesù un luogo privilegiato per far conoscere il progetto di Dio. Egli va a casa degli amici – Marta e Maria –, ma non è selettivo, non gli importa se ci sono pubblicani o peccatori, come Zaccheo. Va a casa di Zaccheo. Non solo Egli agiva così, ma quando inviò i suoi discepoli ad annunciare la buona novella del Regno di Dio, disse loro: «Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno» (Lc 10,7). Matrimoni, visite alle famiglie, cene, qualcosa di speciale avranno questi momenti nella vita delle persone perché Gesù preferisca manifestarsi lì.

Ricordo nella mia diocesi precedente che molte famiglie mi spiegavano che l’unico momento che avevano per stare insieme era normalmente la cena, di sera, quando si tornava dal lavoro, e i più piccoli finivano i compiti di scuola. Era un momento speciale di vita familiare. Si commentava il giorno, ciò che ognuno aveva fatto, si metteva in ordine la casa, si sistemavano i vestiti, si organizzavano gli impegni principali per i giorni seguenti, i bambini litigavano… era il momento. Sono momenti in cui uno arriva anche stanco, e qualche discussione, qualche litigata tra marito e moglie succede, ma non c’è da aver paura; io ho più paura delle coppie che mi dicono che mai, mai hanno avuto una discussione; raro, è raro. Gesù sceglie questi momenti per mostrarci l’amore di Dio, Gesù sceglie questi spazi per entrare nelle nostre case e aiutarci a scoprire lo Spirito vivo e operante nelle nostre case e nelle nostre cose quotidiane. È in casa che impariamo la fraternità, impariamo la solidarietà, impariamo il non essere prepotenti. È in casa che impariamo ad accogliere e apprezzare la vita come una benedizione e che ciascuno ha bisogno degli altri per andare avanti. È in casa che sperimentiamo il perdono, e siamo invitati continuamente a perdonare, a lasciarci trasformare. È interessante: in casa non c’è posto per le “maschere”, siamo quello che siamo e, in un modo o nell’altro, siamo invitati a cercare il meglio per gli altri.

Per questo la comunità cristiana chiama le famiglie con il nome di chiese domestiche, perché è nel calore della casa che la fede permea ogni angolo, illumina ogni spazio, costruisce la comunità. Perché è in momenti come questi che le persone hanno cominciato a scoprire l’amore concreto e operante di Dio.

In molte culture al giorno d’oggi vanno sparendo questi spazi, vanno scomparendo questi momenti familiari, pian piano tutto tende a separarsi, isolarsi; scarseggiano i momenti in comune, per essere uniti, per stare in famiglia. E dunque non si sa aspettare, non si sa chiedere permesso, non si sa chiedere scusa, non si sa ringraziare, perché la casa diventa vuota, non di persone, ma vuota di relazioni, vuota di contatti umani, vuota di incontri, tra genitori, figli, nonni, nipoti, fratelli.... Poco tempo fa una persona che lavora con me mi raccontava che sua moglie e i figli erano andati in vacanza e lui era rimasto solo, perché gli toccava lavorare in quei giorni. Il primo giorno la casa stava tutta in silenzio, “in pace”, era felice, niente in disordine. Il terzo giorno, quando gli ho chiesto come stava, mi ha detto: “Voglio già che ritornino tutti”. Sentiva che non poteva vivere senza sua moglie e i suoi figli. E questo è bello, questo è bello.

Senza famiglia, senza il calore di casa, la vita diventa vuota, cominciano a mancare le reti che ci sostengono nelle difficoltà, le reti che ci alimentano nella vita quotidiana e motivano la lotta per la prosperità. La famiglia ci salva da due fenomeni attuali, due cose che succedono al giorno d’oggi: la frammentazione, cioè la divisione, e la massificazione. In entrambi i casi, le persone si trasformano in individui isolati, facili da manipolare e governare. E allora troviamo nel mondo società divise, rotte, separate o altamente massificate sono conseguenza della rottura dei legami familiari; quando si perdono le relazioni che ci costituiscono come persone, che ci insegnano ad essere persone. E così uno si dimentica di come si dice papà, mamma, figlio, figlia, nonno, nonna… Si perde la memoria di queste relazioni che sono il fondamento. Sono il fondamento del nome che abbiamo.

La famiglia è scuola di umanità, scuola che insegna a mettere il cuore nelle necessità degli altri, ad essere attenti alla vita degli altri. Quando viviamo bene nella famiglia, gli egoismi restano piccoli – ci sono, perché tutti abbiamo un po’ di egoismo –; ma quando non si vive una vita di famiglia si generano quelle personalità che possiamo definire così: “io, me, mi, con me, per me”, totalmente centrate su sé stesse, che ignorano la solidarietà, la fraternità, il lavoro in comune, l’amore, la discussione tra fratelli. Lo ignorano. Nonostante le molte difficoltà che affliggono oggi le nostre famiglie nel mondo, non dimentichiamoci, per favore, di questo: le famiglie non sono un problema, sono prima di tutto un’opportunità. Un’opportunità che dobbiamo curare, proteggere e accompagnare. È un modo di dire che sono una benedizione. Quando incominci a vivere la famiglia come un problema, ti stanchi, non cammini, perché sei tutto centrato su te stesso.

Si discute molto oggi sul futuro, su quale mondo vogliamo lascare ai nostri figli, quale società vogliamo per loro. Credo che una delle possibili risposte si trova guardando voi, questa famiglia che ha parlato, ognuno di voi: vogliamo lasciare un mondo di famiglie. È la migliore eredità: lasciamo un mondo di famiglie. Certamente non esiste la famiglia perfetta, non esistono sposi perfetti, genitori perfetti né figli perfetti, e, se non si offende, io direi suocera perfetta. Non esistono, non esistono. Ma questo non impedisce che siano la risposta per il domani. Dio ci stimola all’amore e l’amore sempre si impegna con le persone che ama. Per questo, abbiamo cura delle nostre famiglie, vere scuole del domani. Abbiamo cura delle nostre famiglie, veri spazi di libertà. Abbiamo cura delle nostre famiglie, veri centri di umanità.

E qui mi viene un’immagine: quando, nelle Udienze del mercoledì, passo a salutare la gente, tante tante donne mi mostrano la pancia e mi dicono: “Padre, me lo benedice?”. Io ora vi propongo una cosa, a tutte quelle donne che sono “incinte di speranza”, perché un figlio è una speranza: che in questo momento si tocchino la pancia. Se c’è qualcuna qui, lo faccia. O quelle che stanno ascoltano alla radio o alla televisione. E io, a ciascuna di loro, ad ogni bambino o bambina che è lì dentro ad aspettare, do la benedizione. Così che ognuna si tocca la pancia e io le do la benedizione, nel nome del Padre e del Figlio  dello Spirito Santo. E auguro che nasca bello sano, che cresca bene, che lo possa allevare bene. Accarezzate il bambino che state aspettando.

Non voglio concludere senza fare riferimento all’Eucaristia. Avrete notato che Gesù vuole utilizzare come spazio del suo memoriale una cena. Sceglie come spazio della sua presenza tra noi un momento concreto della vita familiare. Un momento vissuto e comprensibile per tutti, la cena.

E l’Eucaristia è la cena della famiglia di Gesù, che da un confine all’altro della terra si riunisce per ascoltare la sua Parola e nutrirsi con il suo Corpo. Gesù è il Pane di Vita delle nostre famiglie, vuole essere sempre presente nutrendoci con il suo amore, sostenendoci con la sua fede, aiutandoci a camminare con la sua speranza, perché in tutte le circostanze possiamo sperimentare che Egli è il vero Pane del cielo.

Tra pochi giorni parteciperò insieme alle famiglie del mondo all’Incontro Mondiale delle Famiglie, e tra meno di un mese al Sinodo dei Vescovi che ha per tema la Famiglia. Vi invito a pregare. Vi chiedo per favore di pregare per queste due intenzioni, perché sappiamo tutti insieme aiutarci a prenderci cura della famiglia, perché sempre più sappiamo scoprire l’Emmanuele, cioè il Dio che vive in mezzo al suo popolo facendo di ogni famiglia e di tutte le famiglie la sua dimora. Conto sulla vostra preghiera. Grazie!

Saluto finale dalla terrazza antistante la chiesa:

Vi saluto. Vi ringrazio… l’accoglienza, il calore… I cubani sono davvero gentili, buoni, e ti fanno sentire a casa. Tante grazie! E voglio dire una parola di speranza. Una parola di speranza che forse ci farà girare la testa indietro e in avanti. Guardando indietro: memoria. Memoria di quelli che ci hanno portato alla vita, e specialmente, dei nonni. Un gran saluto ai nonni. Non dimentichiamoci dei nonni. I nonni sono la nostra memoria vivente. E guardando in avanti: i bambini e i giovani, che sono la forza di un popolo. Un popolo che ha cura dei suoi nonni e che ha cura dei suoi bambini e dei suoi giovani, ha il trionfo assicurato! Dio vi benedica. Lasciate che vi dia la benedizione, ma ad una condizione. Dovrete pagare qualcosa: vi chiedo di pregare per me. Questa è la condizione. Vi benedica Dio Onnipotente, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Addio e grazie!

3/ «Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e non-esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio. Quattro rappresentanti del Popolo americano». Discorso all'Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d'America, Washington

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco all'Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d'America, Washington, D.C., il 24/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Signor Vicepresidente,
Signor Presidente della Camera dei Rappresentanti,
Onorevoli Membri del Congresso,
Cari Amici,

Sono molto grato per il vostro invito a rivolgermi a questa Assemblea Plenaria del Congresso nella “terra dei liberi e casa dei valorosi”. Mi piace pensare che la ragione di ciò sia il fatto che io pure sono un figlio di questo grande continente, da cui tutti noi abbiamo ricevuto tanto e verso il quale condividiamo una comune responsabilità.

Ogni figlio o figlia di una determinata nazione ha una missione, una responsabilità personale e sociale. La vostra propria responsabilità come membri del Congresso è di permettere a questo Paese, grazie alla vostra attività legislativa, di crescere come nazione. Voi siete il volto di questo popolo, i suoi rappresentanti. Voi siete chiamati a salvaguardare e a garantire la dignità dei vostri concittadini nell’instancabile ed esigente perseguimento del bene comune, che è il fine di ogni politica.

Una società politica dura nel tempo quando si sforza, come vocazione, di soddisfare i bisogni comuni stimolando la crescita di tutti i suoi membri, specialmente quelli in situazione di maggiore vulnerabilità o rischio. L’attività legislativa è sempre basata sulla cura delle persone. A questo siete stati invitati, chiamati e convocati da coloro che vi hanno eletto.

Il vostro è un lavoro che mi fa riflettere sulla figura di Mosè, per due aspetti. Da una parte il patriarca e legislatore del popolo d’Israele simbolizza il bisogno dei popoli di mantenere vivo il loro senso di unità con gli strumenti di una giusta legislazione. Dall’altra, la figura di Mosè ci conduce direttamente a Dio e quindi alla dignità trascendente dell’essere umano. Mosè ci offre una buona sintesi del vostro lavoro: a voi viene richiesto di proteggere, con gli strumenti della legge, l’immagine e la somiglianza modellate da Dio su ogni volto umano.

Oggi vorrei rivolgermi non solo a voi, ma, attraverso di voi, all’intero popolo degli Stati Uniti. Qui, insieme con i suoi rappresentanti, vorrei cogliere questa opportunità per dialogare con le molte migliaia di uomini e di donne che si sforzano quotidianamente di fare un’onesta giornata di lavoro, di portare a casa il pane quotidiano, di risparmiare qualche soldo e – un passo alla volta – di costruire una vita migliore per le proprie famiglie. Sono uomini e donne che non si preoccupano semplicemente di pagare le tasse, ma, nel modo discreto che li caratterizza, sostengono la vita della società. Generano solidarietà con le loro attività e creano organizzazioni che danno una mano a chi ha più bisogno.

Vorrei anche entrare in dialogo con le numerose persone anziane che sono un deposito di saggezza forgiata dall’esperienza e che cercano in molti modi, specialmente attraverso il lavoro volontario, di condividere le loro storie e le loro esperienze. So che molti di loro sono pensionati, ma ancora attivi, e continuano a darsi da fare per costruire questo Paese. Desidero anche dialogare con tutti quei giovani che si impegnano per realizzare le loro grandi e nobili aspirazioni, che non sono sviati da proposte superficiali e che affrontano situazioni difficili, spesso come risultato dell’immaturità di tanti adulti. Vorrei dialogare con tutti voi, e desidero farlo attraverso la memoria storica del vostro popolo.

La mia visita capita in un momento in cui uomini e donne di buona volontà stanno celebrando gli anniversari di alcuni grandi Americani. Nonostante la complessità della storia e la realtà della debolezza umana, questi uomini e donne, con tutte le loro differenze e i loro limiti, sono stati capaci con duro lavoro e sacrificio personale – alcuni a costo della propria vita – di costruire un futuro migliore. Hanno dato forma a valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americano. Un popolo con questo spirito può attraversare molte crisi, tensioni e conflitti, mentre sempre sarà in grado di trovare la forza per andare avanti e farlo con dignità. Questi uomini e donne ci offrono una possibilità di guardare e di interpretare la realtà. Nell’onorare la loro memoria, siamo stimolati, anche in mezzo a conflitti, nella concretezza del vivere quotidiano, ad attingere dalle nostre più profonde riserve culturali.

Vorrei menzionare quattro di questi Americani: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton.

Quest’anno ricorre il centocinquantesimo anniversario dell’assassinio del Presidente Abraham Lincoln, il custode della libertà, che ha instancabilmente lavorato perché “questa nazione, con la protezione di Dio, potesse avere una nuova nascita di libertà”. Costruire un futuro di libertà richiede amore per il bene comune e collaborazione in uno spirito di sussidiarietà e solidarietà.

Siamo tutti pienamente consapevoli, ed anche profondamente preoccupati, per la inquietante l’odierna situazione sociale e politica del mondo. Il nostro mondo è sempre più un luogo di violenti conflitti, odi e brutali atrocità, commesse perfino in nome di Dio e della religione. Sappiamo che nessuna religione è immune da forme di inganno individuale o estremismo ideologico. Questo significa che dobbiamo essere particolarmente attenti ad ogni forma di fondamentalismo, tanto religioso come di ogni altro genere. È necessario un delicato equilibrio per combattere la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico, mentre si salvaguarda allo stesso tempo la libertà religiosa, la libertà intellettuale e le libertà individuali. Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi. Sappiamo che nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate.

La nostra, invece, dev’essere una risposta di speranza e di guarigione, di pace e di giustizia. Ci è chiesto di fare appello al coraggio e all’intelligenza per risolvere le molte crisi economiche e geopolitiche di oggi. Perfino in un mondo sviluppato, gli effetti di strutture e azioni ingiuste sono fin troppo evidenti. I nostri sforzi devono puntare a restaurare la pace, rimediare agli errori, mantenere gli impegni, e così promuovere il benessere degli individui e dei popoli. Dobbiamo andare avanti insieme, come uno solo, in uno spirito rinnovato di fraternità e di solidarietà, collaborando generosamente per il bene comune.

Le sfide che oggi affrontiamo, richiedono un rinnovamento di questo spirito di collaborazione, che ha procurato tanto bene nella storia degli Stati Uniti. La complessità, la gravità e l’urgenza di queste sfide esigono che noi impieghiamo le nostre risorse e i nostri talenti, e che ci decidiamo a sostenerci vicendevolmente, con rispetto per le nostre differenze e per le nostre convinzioni di coscienza.

In questa terra, le varie denominazioni religiose hanno contribuito grandemente a costruire e a rafforzare la società. È importante che oggi, come nel passato, la voce della fede continui ad essere ascoltata, perché è una voce di fraternità e di amore, che cerca di far emergere il meglio in ogni persona e in ogni società. Tale cooperazione è una potente risorsa nella battaglia per eliminare le nuove forme globali di schiavitù, nate da gravi ingiustizie le quali possono essere superate solo grazie a nuove politiche e a nuove forme di consenso sociale.

Penso qui alla storia politica degli Stati Uniti, dove la democrazia è profondamente radicata nello spirito del popolo americano. Qualsiasi attività politica deve servire e promuovere il bene della persona umana ed essere basata sul rispetto per la dignità di ciascuno. “Consideriamo queste verità come per sé evidenti, cioè che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la vita, la libertà e il perseguimento della felicità” (Dichiarazione di Indipendenza, 4 luglio 1776). Se la politica dev’essere veramente al servizio della persona umana, ne consegue che non può essere sottomessa al servizio dell’economia e della finanza. Politica è, invece, espressione del nostro insopprimibile bisogno di vivere insieme in unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comunità che sacrifichi gli interessi particolari per poter condividere, nella giustizia e nella pace, i suoi benefici, i suoi interessi, la sua vita sociale. Non sottovaluto le difficoltà che questo comporta, ma vi incoraggio in questo sforzo.

Penso anche alla marcia che Martin Luther King ha guidato da Selma a Montgomery cinquant’anni fa come parte della campagna per conseguire il suo “sogno” di pieni diritti civili e politici per gli Afro-Americani. Quel sogno continua ad ispirarci. Mi rallegro che l’America continui ad essere, per molti, una terra di “sogni”. Sogni che conducono all’azione, alla partecipazione, all’impegno. Sogni che risvegliano ciò che di più profondo e di più vero si trova nella vita delle persone. Negli ultimi secoli, milioni di persone sono giunte in questa terra per rincorrere il proprio sogno di costruire un futuro in libertà. Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri. Vi dico questo come figlio di immigrati, sapendo che anche tanti di voi sono discendenti di immigrati.

Tragicamente, i diritti di quelli che erano qui molto prima di noi non sono stati sempre rispettati. Per quei popoli e le loro nazioni, dal cuore della democrazia americana, desidero riaffermare la mia più profonda stima e considerazione. Quei primi contatti sono stati spesso turbolenti e violenti, ma è difficile giudicare il passato con i criteri del presente. Tuttavia, quando lo straniero in mezzo a noi ci interpella, non dobbiamo ripetere i peccati e gli errori del passato. Dobbiamo decidere ora di vivere il più nobilmente e giustamente possibile, così come educhiamo le nuove generazioni a non voltare le spalle al loro “prossimo” e a tutto quanto ci circonda. Costruire una nazione ci chiede di riconoscere che dobbiamo costantemente relazionarci agli altri, rifiutando una mentalità di ostilità per poterne adottare una di reciproca sussidiarietà, in uno sforzo costante di fare del nostro meglio. Ho fiducia che possiamo farlo.

Il nostro mondo sta fronteggiando una crisi di rifugiati di proporzioni tali che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questa realtà ci pone davanti grandi sfide e molte dure decisioni. Anche in questo continente, migliaia di persone sono spinte a viaggiare verso il Nord in cerca di migliori opportunità. Non è ciò che volevamo per i nostri figli? Non dobbiamo lasciarci spaventare dal loro numero, ma piuttosto vederle come persone, guardando i loro volti e ascoltando le loro storie, tentando di rispondere meglio che possiamo alle loro situazioni. Rispondere in un modo che sia sempre umano, giusto e fraterno. Dobbiamo evitare una tentazione oggi comune: scartare chiunque si dimostri problematico. Ricordiamo la Regola d’Oro: «Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te» (Mt 7,12).

Questa norma ci indica una chiara direzione. Trattiamo gli altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati. Cerchiamo per gli altri le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi. Aiutiamo gli altri a crescere, come vorremmo essere aiutati noi stessi. In una parola, se vogliamo sicurezza, diamo sicurezza; se vogliamo vita, diamo vita; se vogliamo opportunità, provvediamo opportunità. La misura che usiamo per gli altri sarà la misura che il tempo userà per noi. La Regola d’Oro ci mette anche di fronte alla nostra responsabilità di proteggere e difendere la vita umana in ogni fase del suo sviluppo.

Questa convinzione mi ha portato, fin dall’inizio del mio ministero, a sostenere a vari livelli l’abolizione globale della pena di morte. Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini.

Recentemente i miei fratelli Vescovi qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione.

In questi tempi in cui le preoccupazioni sociali sono così importanti, non posso mancare di menzionare la serva di Dio Dorothy Day, che ha fondato il Catholic Worker Movement. Il suo impegno sociale, la sua passione per la giustizia e per la causa degli oppressi, erano ispirati dal Vangelo, dalla sua fede e dall’esempio dei santi.

Quanto cammino è stato fatto in questo campo in tante parti del mondo! Quanto è stato fatto in questi primi anni del terzo millennio per far uscire la gente dalla povertà estrema! So che voi condividete la mia convinzione che va fatto ancora molto di più, e che in tempi di crisi e di difficoltà economica non si deve perdere lo spirito di solidarietà globale. Allo stesso tempo desidero incoraggiarvi a non dimenticare tutte quelle persone intorno a noi, intrappolate nel cerchio della povertà. Anche a loro c’è bisogno di dare speranza. La lotta contro la povertà e la fame dev’essere combattuta costantemente su molti fronti, specialmente nelle sue cause. So che molti americani oggi, come in passato, stanno lavorando per affrontare questo problema.

Va da sé che parte di questo grande sforzo sta nella creazione e distribuzione della ricchezza. Il corretto uso delle risorse naturali, l’appropriata applicazione della tecnologia e la capacità di ben orientare lo spirito imprenditoriale, sono elementi essenziali di un’economia che cerca di essere moderna, inclusiva e sostenibile. «L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione, orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune» (Enc. Laudato si’, 129). Questo bene comune include anche la terra, tema centrale dell’Enciclica che ho recentemente scritto, per «entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune» (ibid., 3). «Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti» (ibid., 14).

Nell’Enciclica Laudato si’ esorto ad uno sforzo coraggioso e responsabile per «cambiare rotta» (ibid., 61) ed evitare gli effetti più seri del degrado ambientale causato dall’attività umana. Sono convinto che possiamo fare la differenza e non ho dubbi che gli Stati Uniti - e questo Congresso – hanno un ruolo importante da giocare. Ora è il momento di azioni coraggiose e strategie dirette a implementare una «cultura della cura» (ibid., 231) e «un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura» (ibid., 139).  Abbiamo la libertà necessaria per limitare e orientare la tecnologia (cfr ibid., 112), per individuare modi intelligenti di «orientare, coltivare e limitare il nostro potere» (ibid., 78) e mettere la tecnologia «al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale» (ibid., 112). Al riguardo, ho fiducia che le istituzioni americane di ricerca e accademiche potranno dare un contributo vitale negli anni a venire.

Un secolo fa, all’inizio della Grande Guerra, che il Papa Benedetto XV definì “inutile strage”, nasceva un altro straordinario Americano: il monaco cistercense Thomas Merton. Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: “Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri”.  Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni.

In questa prospettiva di dialogo, vorrei riconoscere gli sforzi fatti nei mesi recenti per cercare di superare le storiche differenze legate a dolorosi episodi del passato. È mio dovere costruire ponti e aiutare ogni uomo e donna, in ogni possibile modo, a fare lo stesso. Quando nazioni che erano state in disaccordo riprendono la via del dialogo – un dialogo che potrebbe essere stato interrotto per le ragioni più valide – nuove opportunità si aprono per tutti. Questo ha richiesto, e richiede, coraggio e audacia, che non vuol dire irresponsabilità. Un buon leader politico è uno che, tenendo presenti gli interessi di tutti, coglie il momento con spirito di apertura e senso pratico. Un buon leader politico opta sempre per «iniziare processi più che possedere spazi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 222-223).

Essere al servizio del dialogo e della pace significa anche essere veramente determinati a ridurre e, nel lungo termine, a porre fine ai molti conflitti armati in tutto il mondo. Qui dobbiamo chiederci: perché armi mortali sono vendute a coloro che pianificano di infliggere indicibili sofferenze a individui e società? Purtroppo, la risposta, come tutti sappiamo, è semplicemente per denaro: denaro che è intriso di sangue, spesso del sangue innocente. Davanti a questo vergognoso e colpevole silenzio, è nostro dovere affrontare il problema e fermare il commercio di armi.

Tre figli e una figlia di questa terra, quattro individui e quattro sogni: Lincoln, libertà; Martin Luther King, libertà nella pluralità e non-esclusione; Dorothy Day, giustizia sociale e diritti delle persone; e Thomas Merton, capacità di dialogo e di apertura a Dio.

Quattro rappresentanti del Popolo americano.

Terminerò la mia visita nella vostra terra a Filadelfia, dove prenderò parte all’Incontro Mondiale delle Famiglie. È mio desiderio che durante tutta la mia visita la famiglia sia un tema ricorrente. Quanto essenziale è stata la famiglia nella costruzione di questo Paese! E quanto merita ancora il nostro sostegno e il nostro incoraggiamento! Eppure non posso nascondere la mia preoccupazione per la famiglia, che è minacciata, forse come mai in precedenza, dall’interno e dall’esterno. Relazioni fondamentali sono state messe in discussione, come anche la base stessa del matrimonio e della famiglia. Io posso solo riproporre l’importanza e, soprattutto, la ricchezza e la bellezza della vita familiare.

In particolare, vorrei richiamare l’attenzione su quei membri della famiglia che sono i più vulnerabili, i giovani. Per molti di loro si profila un futuro pieno di tante possibilità, ma molti altri sembrano disorientati e senza meta, intrappolati in un labirinto senza speranza, segnato da violenze, abusi e disperazione. I loro problemi sono i nostri problemi. Non possiamo evitarli. È necessario affrontarli insieme, parlarne e cercare soluzioni efficaci piuttosto che restare impantanati nelle discussioni. A rischio di banalizzare, potremmo dire che viviamo in una cultura che spinge i giovani a non formare una famiglia, perché mancano loro possibilità per il futuro. Ma questa stessa cultura presenta ad altri così tante opzioni che anch’essi sono dissuasi dal formare una famiglia.

Una nazione può essere considerata grande quando difende la libertà, come ha fatto Lincoln; quando promuove una cultura che consenta alla gente di “sognare” pieni diritti per tutti i propri fratelli e sorelle, come Martin Luther King ha cercato di fare; quando lotta per la giustizia e la causa degli oppressi, come Dorothy Day ha fatto con il suo instancabile lavoro, frutto di una fede che diventa dialogo e semina pace nello stile contemplativo di Thomas Merton.

In queste note ho cercato di presentare alcune delle ricchezze del vostro patrimonio culturale, dello spirito del popolo americano. Il mio auspicio è che questo spirito continui a svilupparsi e a crescere, in modo che il maggior numero possibile di giovani possa ereditare e dimorare in una terra che ha ispirato così tante persone a sognare.

Dio benedica l’America!

Parole del Papa a braccio dalla terrazza del Congresso

Buongiorno a tutti voi! Vi ringrazio per la vostra accoglienza e la vostra presenza. Ringrazio i personaggi più importanti che ci sono qui: i bambini. Voglio chiedere a Dio che li benedica! Signore, Padre di tutti noi, benedici questo popolo, benedici ciascuno di loro, benedici le loro famiglie, dona loro ciò di cui hanno maggiormente bisogno. E vi prego, per piacere, di pregare per me. E se tra voi c’è qualcuno che non è credente, o non può pregare, vi chiedo – per favore – di augurarmi cose buone. Grazie di cuore. E Dio benedica l’America!

4/ «Il Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”». Discorso all’ONU

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco all'Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, New York, il 25/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Signor Presidente, Signore e Signori, buongiorno!

Ancora una volta, seguendo una tradizione della quale mi sento onorato, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha invitato il Papa a rivolgersi a questa onorevole assemblea delle nazioni. A mio nome e a nome di tutta la comunità cattolica, Signor Ban Ki-moon, desidero esprimerLe la più sincera e cordiale riconoscenza; La ringrazio anche per le Sue gentili parole. Saluto inoltre i Capi di Stato e di Governo qui presenti, gli Ambasciatori, i diplomatici e i funzionari politici e tecnici che li accompagnano, il personale delle Nazioni Unite impegnato in questa 70.ma Sessione dell’Assemblea Generale, il personale di tutti i programmi e agenzie della famiglia dell’ONU e tutti coloro che in un modo o nell’altro partecipano a questa riunione. Tramite voi saluto anche i cittadini di tutte le nazioni rappresentate a questo incontro. Grazie per gli sforzi di tutti e di ciascuno per il bene dell’umanità.

Questa è la quinta volta che un Papa visita le Nazioni Unite. Lo hanno fatto i miei predecessori Paolo VI nel 1965, Giovanni Paolo II nel 1979 e nel 1995 e il mio immediato predecessore, oggi Papa emerito Benedetto XVI, nel 2008. Tutti costoro non hanno risparmiato espressioni di riconoscimento per l’Organizzazione, considerandola la risposta giuridica e politica adeguata al momento storico, caratterizzato dal superamento delle distanze e delle frontiere ad opera della tecnologia e, apparentemente, di qualsiasi limite naturale all’affermazione del potere. Una risposta imprescindibile dal momento che il potere tecnologico, nelle mani di ideologie nazionalistiche o falsamente universalistiche, è capace di produrre tremende atrocità. Non posso che associarmi all’apprezzamento dei miei predecessori, riaffermando l’importanza che la Chiesa Cattolica riconosce a questa istituzione e le speranze che ripone nelle sue attività.

La storia della comunità organizzata degli Stati, rappresentata dalle Nazioni Unite, che festeggia in questi giorni il suo 70° anniversario, è una storia di importanti successi comuni, in un periodo di inusitata accelerazione degli avvenimenti. Senza pretendere di essere esaustivo, si può menzionare la codificazione e lo sviluppo del diritto internazionale, la costruzione della normativa internazionale dei diritti umani, il perfezionamento del diritto umanitario, la soluzione di molti conflitti e operazioni di pace e di riconciliazione, e tante altre acquisizioni in tutti i settori della proiezione internazionale delle attività umane. Tutte queste realizzazioni sono luci che contrastano l’oscurità del disordine causato dalle ambizioni incontrollate e dagli egoismi collettivi. È certo che sono ancora molti i gravi problemi non risolti, ma è anche evidente che se fosse mancata tutta questa attività internazionale, l’umanità avrebbe potuto non sopravvivere all’uso incontrollato delle sue stesse potenzialità. Ciascuno di questi progressi politici, giuridici e tecnici rappresenta un percorso di concretizzazione dell’ideale della fraternità umana e un mezzo per la sua maggiore realizzazione.

Rendo perciò omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito con lealtà e sacrificio l’intera umanità in questi 70 anni. In particolare, desidero ricordare oggi coloro che hanno dato la loro vita per la pace e la riconciliazione dei popoli, a partire da Dag Hammarskjöld fino ai moltissimi funzionari di ogni grado, caduti nelle missioni umanitarie di pace e di riconciliazione.

L’esperienza di questi 70 anni, al di là di tutto quanto è stato conseguito, dimostra che la riforma e l’adattamento ai tempi sono sempre necessari, progredendo verso l’obiettivo finale di concedere a tutti i Paesi, senza eccezione, una partecipazione e un’incidenza reale ed equa nelle decisioni. Questa necessità di una maggiore equità, vale in special modo per gli organi con effettiva capacità esecutiva, quali il Consiglio di Sicurezza, gli Organismi finanziari e i gruppi o meccanismi specificamente creati per affrontare le crisi economiche. Questo aiuterà a limitare qualsiasi sorta di abuso o usura specialmente nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Gli organismi finanziari internazionali devono vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza.

Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. In questo contesto, è opportuno ricordare che la limitazione del potere è un’idea implicita nel concetto di diritto. Dare a ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi sociali. La distribuzione di fatto del potere (politico, economico, militare, tecnologico, ecc.) tra una pluralità di soggetti e la creazione di un sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi, realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta, tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere: l’ambiente naturale e il vasto mondo di donne e uomini esclusi. Due settori intimamente uniti tra loro, che le relazioni politiche ed economiche preponderanti hanno trasformato in parti fragili della realtà. Per questo è necessario affermare con forza i loro diritti, consolidando la protezione dell’ambiente e ponendo termine all’esclusione.

Anzitutto occorre affermare che esiste un vero “diritto dell’ambiente” per una duplice ragione. In primo luogo perché come esseri umani facciamo parte dell’ambiente. Viviamo in comunione con esso, perché l’ambiente stesso comporta limiti etici che l’azione umana deve riconoscere e rispettare. L’uomo, anche quando è dotato di «capacità senza precedenti» che «mostrano una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico» (Enc. Laudato sì, 81), è al tempo stesso una porzione di tale ambiente. Possiede un corpo formato da elementi fisici, chimici e biologici, e può sopravvivere e svilupparsi solamente se l’ambiente ecologico gli è favorevole. Qualsiasi danno all’ambiente, pertanto, è un danno all’umanità. In secondo luogo, perché ciascuna creatura, specialmente gli esseri viventi, ha un valore in sé stessa, di esistenza, di vita, di bellezza e di interdipendenza con le altre creature. Noi cristiani, insieme alle altre religioni monoteiste, crediamo che l’universo proviene da una decisione d’amore del Creatore, che permette all’uomo di servirsi rispettosamente della creazione per il bene dei suoi simili e per la gloria del Creatore, senza però abusarne e tanto meno essendo autorizzato a distruggerla. Per tutte le credenze religiose l’ambiente è un bene fondamentale (cfr ibid., 81).

L’abuso e la distruzione dell’ambiente, allo stesso tempo, sono associati ad un inarrestabile processo di esclusione. In effetti, una brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale, conduce tanto ad abusare dei mezzi materiali disponibili quanto ad escludere i deboli e i meno abili, sia per il fatto di avere abilità diverse (portatori di handicap), sia perché sono privi delle conoscenze e degli strumenti tecnici adeguati o possiedono un’insufficiente capacità di decisione politica. L’esclusione economica e sociale è una negazione totale della fraternità umana e un gravissimo attentato ai diritti umani e all’ambiente. I più poveri sono quelli che soffrono maggiormente questi attentati per un triplice, grave motivo: sono scartati dalla società, sono nel medesimo tempo obbligati a vivere di scarti e devono ingiustamente soffrire le conseguenze dell’abuso dell’ambiente. Questi fenomeni costituiscono oggi la tanto diffusa e incoscientemente consolidata “cultura dello scarto”.

La drammaticità di tutta questa situazione di esclusione e di inequità, con le sue chiare conseguenze, mi porta, insieme a tutto il popolo cristiano e a tanti altri, a prendere coscienza anche della mia grave responsabilità al riguardo, per cui alzo la mia voce, insieme a quella di tutti coloro che aspirano a soluzioni urgenti ed efficaci. L’adozione dell’ “Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile” durante il Vertice mondiale che inizierà oggi stesso, è un importante segno di speranza. Confido anche che la Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico raggiunga accordi fondamentali ed effettivi.

Non sono sufficienti, tuttavia, gli impegni assunti solennemente, benché costituiscano certamente un passo necessario verso la soluzione dei problemi. La definizione classica di giustizia alla quale ho fatto riferimento anteriormente contiene come elemento essenziale una volontà costante e perpetua: Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. Il mondo chiede con forza a tutti i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di passi concreti e di misure immediate, per preservare e migliorare l’ambiente naturale e vincere quanto prima il fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione, traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato. È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e il numero di vite innocenti coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli.

La molteplicità e complessità dei problemi richiede di avvalersi di strumenti tecnici di misurazione. Questo, però, comporta un duplice pericolo: limitarsi all’esercizio burocratico di redigere lunghe enumerazioni di buoni propositi – mete, obiettivi e indicazioni statistiche –, o credere che un’unica soluzione teorica e aprioristica darà risposta a tutte le sfide. Non bisogna perdere di vista, in nessun momento, che l’azione politica ed economica, è efficace solo quando è concepita come un’attività prudenziale, guidata da un concetto perenne di giustizia e che tiene sempre presente che, prima e aldilà di piani e programmi, ci sono donne e uomini concreti, uguali ai governanti, che vivono, lottano e soffrono, e che molte volte si vedono obbligati a vivere miseramente, privati di qualsiasi diritto.

Affinché questi uomini e donne concreti possano sottrarsi alla povertà estrema, bisogna consentire loro di essere degni attori del loro stesso destino. Lo sviluppo umano integrale e il pieno esercizio della dignità umana non possono essere imposti. Devono essere costruiti e realizzati da ciascuno, da ciascuna famiglia, in comunione con gli altri esseri umani e in una giusta relazione con tutti gli ambienti nei quali si sviluppa la socialità umana – amici, comunità, villaggi e comuni, scuole, imprese e sindacati, province, nazioni, ecc. Questo suppone ed esige il diritto all’istruzione – anche per le bambine (escluse in alcuni luoghi) – che si assicura in primo luogo rispettando e rafforzando il diritto primario della famiglia a educare e il diritto delle Chiese e delle aggregazioni sociali a sostenere e collaborare con le famiglie nell’educazione delle loro figlie e dei loro figli. L’educazione, così concepita, è la base per la realizzazione dell’Agenda 2030 e per il risanamento dell’ambiente.

Al tempo stesso, i governanti devono fare tutto il possibile affinché tutti possano disporre della base minima materiale e spirituale per rendere effettiva la loro dignità e per formare e mantenere una famiglia, che è la cellula primaria di qualsiasi sviluppo sociale. Questo minimo assoluto, a livello materiale ha tre nomi: casa, lavoro e terra; e un nome a livello spirituale: libertà di spirito, che comprende la libertà religiosa, il diritto all’educazione e tutti gli altri diritti civili.

Per tutte queste ragioni, la misura e l’indicatore più semplice e adeguato dell’adempimento della nuova Agenda per lo sviluppo sarà l’accesso effettivo, pratico e immeditato, per tutti, ai beni materiali e spirituali indispensabili: abitazione propria, lavoro dignitoso e debitamente remunerato, alimentazione adeguata e acqua potabile; libertà religiosa e, più in generale, libertà di spirito ed educazione. Nello stesso tempo, questi pilastri dello sviluppo umano integrale hanno un fondamento comune, che è il diritto alla vita, e, in senso ancora più ampio, quello che potremmo chiamare il diritto all’esistenza della stessa natura umana.

La crisi ecologica, insieme alla distruzione di buona parte della biodiversità, può mettere in pericolo l’esistenza stessa della specie umana. Le nefaste conseguenze di un irresponsabile malgoverno dell’economia mondiale, guidato unicamente dall’ambizione di guadagno e di potere, devono costituire un appello a una severa riflessione sull’uomo: «L’uomo non si crea da solo. È spirito e volontà, però anche natura» (Benedetto XVI, Discorso al Parlamento della Repubblica Federale di Germania, 22 settembre 2011; citato in Enc. Laudato sì, 6). La creazione si vede pregiudicata «dove noi stessi siamo l’ultima istanza [...]. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi» (Id., Incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, 6 agosto 2008, citato ibid.). Perciò, la difesa dell’ambiente e la lotta contro l’esclusione esigono il riconoscimento di una legge morale inscritta nella stessa natura umana, che comprende la distinzione naturale tra uomo e donna (cfr Enc. Laudato sì, 155) e il rispetto assoluto della vita in tutte le sue fasi e dimensioni (cfr ibid., 123; 136).

Senza il riconoscimento di alcuni limiti etici naturali insormontabili e senza l’immediata attuazione di quei pilastri dello sviluppo umano integrale, l’ideale di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra» (Carta delle Nazioni Unite, Preambolo) e di «promuovere il progresso sociale e un più elevato livello di vita all’interno di una più ampia libertà» (ibid.) corre il rischio di diventare un miraggio irraggiungibile o, peggio ancora, parole vuote che servono come scusa per qualsiasi abuso e corruzione, o per promuovere una colonizzazione ideologica mediante l’imposizione di modelli e stili di vita anomali estranei all’identità dei popoli e, in ultima analisi, irresponsabili.

La guerra è la negazione di tutti i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli.

A tal fine bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale. L’esperienza dei 70 anni di esistenza delle Nazioni Unite, in generale, e in particolare l’esperienza dei primi 15 anni del terzo millennio, mostrano tanto l’efficacia della piena applicazione delle norme internazionali come l’inefficacia del loro mancato adempimento. Se si rispetta e si applica la Carta delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini, come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati di pace. Quando, al contrario, si confonde la norma con un semplice strumento da utilizzare quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si apre un vero vaso di Pandora di forze incontrollabili, che danneggiano gravemente le popolazioni inermi, l’ambiente culturale, e anche l’ambiente biologico.

Il Preambolo e il primo articolo della Carta delle Nazioni Unite indicano le fondamenta della costruzione giuridica internazionale: la pace, la soluzione pacifica delle controversie e lo sviluppo delle relazioni amichevoli tra le nazioni. Contrasta fortemente con queste affermazioni, e le nega nella pratica, la tendenza sempre presente alla proliferazione delle armi, specialmente quelle di distruzione di massa come possono essere quelle nucleari. Un’etica e un diritto basati sulla minaccia della distruzione reciproca – e potenzialmente di tutta l’umanità – sono contraddittori e costituiscono una frode verso tutta la costruzione delle Nazioni Unite, che diventerebbero “Nazioni unite dalla paura e dalla sfiducia”. Occorre impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di non proliferazione, nella lettera e nello spirito, verso una totale proibizione di questi strumenti.

Il recente accordo sulla questione nucleare in una regione sensibile dell’Asia e del Medio Oriente, è una prova delle possibilità della buona volontà politica e del diritto, coltivati con sincerità, pazienza e costanza. Formulo i miei voti perché questo accordo sia duraturo ed efficace e dia i frutti sperati con la collaborazione di tutte le parti coinvolte.

In tal senso, non mancano gravi prove delle conseguenze negative di interventi politici e militari non coordinati tra i membri della comunità internazionale. Per questo, seppure desiderando di non avere la necessità di farlo, non posso non reiterare i miei ripetuti appelli in relazione alla dolorosa situazione di tutto il Medio Oriente, del Nord Africa e di altri Paesi africani, dove i cristiani, insieme ad altri gruppi culturali o etnici e anche con quella parte dei membri della religione maggioritaria che non vuole lasciarsi coinvolgere dall’odio e dalla pazzia, sono stati obbligati ad essere testimoni della distruzione dei loro luoghi di culto, del loro patrimonio culturale e religioso, delle loro case ed averi e sono stati posti nell’alternativa di fuggire o di pagare l’adesione al bene e alla pace con la loro stessa vita o con la schiavitù.

Queste realtà devono costituire un serio appello ad un esame di coscienza di coloro che hanno la responsabilità della conduzione degli affari internazionali. Non solo nei casi di persecuzione religiosa o culturale, ma in ogni situazione di conflitto, come in Ucraina, in Siria, in Iraq, in Libia, nel Sud-Sudan e nella regione dei Grandi Laghi, prima degli interessi di parte, pur se legittimi, ci sono volti concreti. Nelle guerre e nei conflitti ci sono persone, nostri fratelli e sorelle, uomini e donne, giovani e anziani, bambini e bambine che piangono, soffrono e muoiono. Esseri umani che diventano materiale di scarto mentre non si fa altro che enumerare problemi, strategie e discussioni.

Come ho chiesto al Segretario Generale delle Nazioni Unite nella mia lettera del 9 agosto 2014, «la più elementare comprensione della dignità umana [obbliga] la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto il possibile per fermare e prevenire ulteriori sistematiche violenze contro le minoranze etniche e religiose» e per proteggere le popolazioni innocenti.

In questa medesima linea vorrei citare un altro tipo di conflittualità, non sempre così esplicitata ma che silenziosamente comporta la morte di milioni di persone. Un altro tipo di guerra che vivono molte delle nostre società con il fenomeno del narcotraffico. Una guerra “sopportata” e debolmente combattuta. Il narcotraffico per sua stessa natura si accompagna alla tratta delle persone, al riciclaggio di denaro, al traffico di armi, allo sfruttamento infantile e al altre forme di corruzione. Corruzione che è penetrata nei diversi livelli della vita sociale, politica, militare, artistica e religiosa, generando, in molti casi, una struttura parallela che mette in pericolo la credibilità delle nostre istituzioni.

Ho iniziato questo intervento ricordando le visite dei miei predecessori. Ora vorrei, in modo particolare, che le mie parole fossero come una continuazione delle parole finali del discorso di Paolo VI, pronunciate quasi esattamente 50 anni or sono, ma di perenne valore. «È l’ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro destino comune. Mai come oggi [...] si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo [poiché] il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l’umanità» (Discorso ai Rappresentanti degli Stati, 4 ottobre 1965). Tra le altre cose, senza dubbio, la genialità umana, ben applicata, aiuterà a risolvere le gravi sfide del degrado ecologico e dell’esclusione. Proseguo con le parole di Paolo VI: «Il pericolo vero sta nell’uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina ed alle più alte conquiste!» (ibid.).

La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ciascuna vita umana, di ciascun uomo e di ciascuna donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata.

Tale comprensione e rispetto esigono un grado superiore di saggezza, che accetti la trascendenza – quella di sé stesso – rinunci alla costruzione di una élite onnipotente e comprenda che il senso pieno della vita individuale e collettiva si trova nel servizio disinteressato verso gli altri e nell’uso prudente e rispettoso della creazione, per il bene comune . Ripetendo le parole di Paolo VI, «l’edificio della moderna civiltà deve reggersi su principii spirituali, capaci non solo di sostenerlo, ma altresì di illuminarlo e di animarlo» (ibid.).

Il Gaucho Martin Fierro, un classico della letteratura della mia terra natale, canta: “I fratelli siano uniti perché questa è la prima legge. Abbiano una vera unione in qualsiasi tempo, perché se litigano tra di loro li divoreranno quelli di fuori”.

Il mondo contemporaneo apparentemente connesso, sperimenta una crescente e consistente e continua frammentazione sociale che pone in pericolo «ogni fondamento della vita sociale» e pertanto «finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi» (Enc. Laudato sì, 229).

Il tempo presente ci invita a privilegiare azioni che possano generare nuovi dinamismi nella società e che portino frutto in importanti e positivi avvenimenti storici (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223).

Non possiamo permetterci di rimandare “alcune agende” al futuro. Il futuro ci chiede decisioni critiche e globali di fronte ai conflitti mondiali che aumentano il numero degli esclusi e dei bisognosi.

La lodevole costruzione giuridica internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e di tutte le sue realizzazioni, migliorabile come qualunque altra opera umana e, al tempo stesso, necessaria, può essere pegno di un futuro sicuro e felice per le generazioni future. Lo sarà se i rappresentanti degli Stati sapranno mettere da parte interessi settoriali e ideologie e cercare sinceramente il servizio del bene comune. Chiedo a Dio Onnipotente che sia così, e vi assicuro il mio appoggio, la mia preghiera e l’appoggio e le preghiere di tutti i fedeli della Chiesa Cattolica, affinché questa Istituzione, tutti i suoi Stati membri e ciascuno dei suoi funzionari, renda sempre un servizio efficace all’umanità, un servizio rispettoso della diversità e che sappia potenziare, per il bene comune, il meglio di ciascun popolo e di ciascun cittadino. Che Dio vi benedica tutti!

5/ «La libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione». Discorso nell’Incontro per la libertà religiosa a Philadelphia

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’Incontro per la libertà religiosa con la comunità ispanica e altri immigrati presso l’Independence Mall, a Philadelphia il 26/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Cari amici, buonasera!

Uno dei momenti salienti della mia visita è qui, davanti all’Independence Mall, luogo di nascita degli Stati Uniti d’America. È in questo luogo che le libertà che definiscono questo Paese sono state proclamate per la prima volta. La Dichiarazione d’Indipendenza ha affermato che tutti gli uomini e tutte le donne sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, e che i governi esistono per proteggere e difendere tali diritti. Queste vibranti parole continuano a risuonare e ad ispirarci oggi, come hanno fatto con persone di tutto il mondo al fine di combattere per la libertà di vivere conformemente alla loro dignità.

La storia mostra anche che questa verità, come del resto ogni verità, va costantemente riaffermata, fatta propria e difesa. La storia di questa nazione è anche quella di uno sforzo costante, fino ai nostri giorni, per dare corpo a questi alti principi nella vita sociale e politica. Ricordiamo le grandi lotte che hanno portato all’abolizione della schiavitù, all’estensione del diritto di voto, alla crescita del movimento dei lavoratori, ed allo sforzo progressivo per eliminare ogni forma di razzismo e di pregiudizio diretti contro le ondate successive di nuovi americani. Questo dimostra che, quando un Paese è determinato a rimanere fedele ai suoi principi fondatori, basati sul rispetto della dignità umana, diventa più forte e si rinnova. Quando un Paese conserva memoria delle proprie radici, cresce, si rinnova e accoglie nel proprio seno nuovi popoli e nuova gente che vengono in esso.

Tutti traiamo beneficio dal fare memoria del nostro passato. Un popolo che ricorda non ripete gli errori del passato; al contrario, guarda fiducioso le sfide del presente e del futuro. La memoria salva l’anima di un popolo da tutto ciò o da tutti coloro che potrebbero tentare di dominarla o di utilizzarla per i loro interessi. Quando l’esercizio effettivo dei rispettivi diritti è garantito agli individui e alle comunità, essi non sono solamente liberi di realizzare le proprie potenzialità, ma, con queste capacità, con il loro lavoro contribuiscono anche al benessere e all’arricchimento di tutta la società.

In questo luogo, che è un simbolo del modello degli Stati Uniti d’America, vorrei riflettere con voi sul diritto alla libertà religiosa. È un diritto fondamentale che plasma il modo in cui noi interagiamo socialmente e personalmente con i nostri vicini, le cui visioni religiose sono diverse dalla nostra. L’ideale del dialogo interreligioso, in cui tutti gli uomini e le donne di diverse tradizioni religiose possono dialogare senza litigare. Questo lo consente la libertà religiosa.

La libertà religiosa implica certamente il diritto di adorare Dio, individualmente e comunitariamente, come la propria coscienza lo detta. Ma la libertà religiosa, per sua natura, trascende i luoghi di culto, come pure la sfera degli individui e delle famiglie. Perché il fatto religioso, la dimensione religiosa, non è una subcultura, è parte della cultura di qualunque popolo e qualunque nazione.

Le nostre diverse tradizioni religiose servono la società anzitutto mediante il messaggio che proclamano. Esse invitano gli individui e le comunità ad adorare Dio, fonte di ogni vita, della libertà e della bontà. Ci richiamano la dimensione trascendente dell’esistenza umana e la nostra irriducibile libertà di fronte ad ogni pretesa di qualsiasi potere assoluto. Dobbiamo accostarci alla storia – ci fa bene accostarci alla storia –, specialmente a quella del secolo scorso, per vedere le atrocità perpetrate dai sistemi che pretendevano di costruire questo o quel ‘‘paradiso terrestre’’ dominando i popoli, asservendoli a principi apparentemente indiscutibili e negando loro qualsiasi tipo di diritto. Le nostre ricche tradizioni religiose cercano di offrire significato e direzione, «posseggono una forza motivante che apre sempre nuovi orizzonti,  stimola il pensiero, allarga la mente e la sensibilità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 256). Esse chiamano alla conversione, alla riconciliazione, all’impegno per il futuro della società, al sacrificio di sé nel servizio al bene comune, e alla compassione per coloro che sono nel bisogno. Al cuore della loro missione spirituale, si trova la proclamazione della verità e della dignità della persona umana come pure dei diritti umani.

Le nostre tradizioni religiose ci ricordano che, come esseri umani, noi siamo chiamati a riconoscere l’altro/l’Altro che rivela la nostra identità relazionale di fronte ad ogni tentativo di instaurare una «uniformità che l’egoismo del forte, il conformismo del debole, o l’ideologia dell’utopista potrebbero cercare di imporci» (M. de Certeau).

In un mondo dove le diverse forme di tirannia moderna cercano di sopprimere la libertà religiosa, o – come ho detto prima – cercano di ridurla a una subcultura senza diritto di espressione nella sfera pubblica, o ancora cercano di utilizzare la religione come pretesto per l’odio e la brutalità, è doveroso che i seguaci delle diverse tradizioni religiose uniscano le loro voce per invocare la pace, la tolleranza e il rispetto della dignità e dei diritti degli altri.

Viviamo in un’epoca soggetta «alla globalizzazione del paradigma tecnocratico» (Enc. Laudato si’, 106), che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. Le religioni hanno quindi il diritto e il dovere di far comprendere che è possibile costruire una società in cui «un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 255) è un «prezioso alleato nell’impegno per la difesa della dignità umana […] una via di pace per il nostro mondo ferito» (ibid., 257) dalle guerre.

I Quaccheri che hanno fondato Filadelfia sono stati ispirati da un profondo senso evangelico della dignità di ogni persona e dall’ideale di una comunità unita dall’amore fraterno. Tale convinzione li ha condotti a fondare una colonia che sarebbe stata un paradiso di libertà religiosa e di tolleranza. Questo significato di impegno fraterno per la dignità di tutti, specialmente dei deboli e dei vulnerabili, è diventato parte essenziale dello spirito nordamericano. Durante la sua visita negli Stati Uniti nel 1987, san Giovanni Paolo II vi ha reso un tributo commovente, ricordando a tutti gli americani che «la prova decisiva della vostra grandezza è il modo con cui voi rispettate ogni persona umana, specialmente quelle più deboli e indifese» (Discorso nella cerimonia di congedo all’aereoporto di Detroit, 19 settembre 1987, 3).

Colgo ora l’occasione per ringraziare tutti coloro che, qualunque sia la loro religione, hanno cercato di servire Dio, il Dio della pace, costruendo città animate dall’amore fraterno, prendendosi cura del prossimo bisognoso, difendendo la dignità del dono divino, del dono della vita in ogni sua fase, difendendo la causa dei poveri e dei migranti. Troppo spesso quanti hanno bisogno del nostro aiuto, da tutte le parti, non sono ascoltati. Voi siete la loro voce, e molti tra voi – uomini e donne religiosi –avete permesso che il loro grido sia ascoltato. Con questa testimonianza, che spesso incontra forte resistenza, voi ricordate alla democrazia nordamericana gli ideali per i quali essa è stata fondata, e che la società si indebolisce ogni volta e dovunque l’ingiustizia prevale. Poco fa, ho parlato della tendenza alla globalizzazione. La globalizzazione non è cattiva. Anzi, la tendenza a globalizzarci è buona, ci unisce. Ciò che può essere negativo è il modo di realizzarla. Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo. Se una globalizzazione cerca di unire tutti, ma rispettando ogni persona, la sua ricchezza, la sua peculiarità, rispettando ogni popolo, con la sua ricchezza, la sua peculiarità, questa globalizzazione è buona e ci fa crescere tutti, e conduce alla pace. Mi piace a questo proposito usare un po’ la geometria. Se la globalizzazione è una sfera, dove ogni punto è uguale, equidistante dal centro, annulla, non è buona. Se la globalizzazione unisce come un poliedro, in cui tutti sono uniti, ma ognuno conserva la propria identità, è buona e fa crescere un popolo, e dà dignità a tutti gli uomini e concede loro diritti.

In mezzo a noi oggi ci sono membri della grande popolazione ispanica degli Stati Uniti, come pure rappresentanti di recenti immigrati negli Stati Uniti. Grazie per aver aperto le porte. Molti di voi – vi saluto con grande affetto – sono immigrati in questo Paese pagando personalmente un alto prezzo, ma con la speranza di costruire una nuova vita. Non scoraggiatevi per le difficoltà che dovete affrontare, quali che siano. Vi chiedo di non dimenticare che, come quelli che vi hanno preceduto, voi apportate molti talenti a questa nazione. Per favore, non vergognatevi delle vostre tradizioni! Non dimenticate le lezioni apprese, specialmente dai vostri anziani, che sono il contributo col quale potete arricchire la vita di questo Paese americano. Lo ripeto, non vergognatevi di ciò che fa parte di voi, il sangue della vostra vita. Voi siete anche chiamati ad essere cittadini responsabili e a contribuire – come hanno fatto con tanta forza quelli che sono venuti prima – a contribuire in maniera fruttuosa alla vita delle comunità in cui vivete. Penso in particolare alla fervida fede di molti di voi, al senso profondo della vita familiare e a tutti gli altri valori che avete ereditato. Portando i vostri contributi, non troverete soltanto il vostro posto qui, ma aiuterete a rinnovare la società dall’interno. Non perdere la memoria di ciò che è accaduto qui più di due secoli fa. Non perdere la memoria di quella Dichiarazione che ha proclamato che tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali, che sono dotati dal Creatore di diritti inalienabili, e che i governi esistono per tutelare e difendere questi diritti.

Cari amici, vi ringrazio della vostra calorosa accoglienza e per esservi radunati oggi con me. Conserviamo la libertà. Abbiamo cura della libertà. La libertà di coscienza, la libertà religiosa, la libertà di ogni persona, di ogni famiglia, di ogni popolo, che è quella che dà luogo ai diritti. Possano questa nazione e ciascuno di voi essere rinnovati nella gratitudine per le tante benedizioni e libertà di cui godete. E possiate difendere questi diritti, specialmente la vostra libertà religiosa, perché essa vi è stata data da Dio stesso. Che Egli vi benedica tutti. E per favore, vi chiedo di pregare un pochino per me. Grazie!

6/ «Un cristianesimo che “si fa” poco nella realtà e “si spiega” infinitamente nella formazione, sta in una sproporzione pericolosa. Direi in un vero e proprio circolo vizioso. Il pastore deve mostrare che il Vangelo della famiglia è davvero “buona notizia” in un mondo dove l’attenzione verso sé stessi sembra regnare sovrana!». Discorso ai vescovi ospiti dell'incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nell’Incontro con i vescovi ospiti dell'incontro mondiale delle famiglie, presso il Seminario San Carlo Borromeo, a Philadelphia, il 27/9/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Fratelli Vescovi buongiorno!

Porto impressi nel mio cuore le storie, la sofferenza e il dolore dei minori che sono stati abusati sessualmente da sacerdoti. Continua a opprimermi la vergogna per il fatto che persone che erano incaricate della tenera cura di questi piccoli li hanno violati e hanno causato loro gravi danni. Lo deploro profondamente. Dio piange. I crimini e i peccati di abuso sessuale di minori non possono essere tenuti ulteriormente nascosti. Mi impegno all’attenta vigilanza della Chiesa per proteggere i minori e prometto che tutti i responsabili renderanno conto. Le vittime di abuso sono diventate autentici araldi di speranza e ministri di misericordia; umilmente dobbiamo a ciascuno di loro e alle loro famiglie la nostra gratitudine per il loro immenso valore nel far brillare la luce di Cristo sopra il male dell’abuso sessuale dei minori. E questo lo dico perché ho appena incontrato un gruppo di persone abusate quando erano bambini, che sono aiutate e accompagnate con particolare affetto qui a Filadelfia dall’arcivescovo, mons. Chaput, e ci è sembrato che fosse bene comunicarvi questo.

Sono contento di avere l’opportunità di condividere questi momenti di riflessione pastorale con voi, nella gioiosa circostanza dell’Incontro Mondiale delle Famiglie.

La famiglia, infatti, per la Chiesa, non è prima di tutto un motivo di preoccupazione, ma la felice conferma della benedizione di Dio al capolavoro della creazione. Ogni giorno, in tutti gli angoli del pianeta, la Chiesa ha motivo di rallegrarsi con il Signore per il dono di quel popolo numeroso di famiglie che, anche nelle prove più dure, onorano le promesse e custodiscono la fede!

Ecco, direi che il primo slancio pastorale che questo impegnativo passaggio d’epoca ci chiede è proprio un passo deciso nella linea di questo riconoscimento. La stima e la gratitudine devono prevalere sul lamento, nonostante tutti gli ostacoli che abbiamo di fronte. La famiglia è il luogo fondamentale dell’alleanza della Chiesa con la creazione, con questa creazione di Dio, che Dio ha benedetto l’ultimo giorno con una famiglia. Senza la famiglia, anche la Chiesa non esisterebbe: non potrebbe essere quello che deve essere, ossia segno e strumento dell’unità del genere umano (cfr Lumen gentium, 1).

Naturalmente, la nostra comprensione, plasmata sull’integrazione della forma ecclesiale della fede e dell’esperienza coniugale della grazia, benedetta dal sacramento, non deve farci dimenticare la profonda trasformazione del quadro epocale, che incide sulla cultura sociale – e ormai purtroppo anche giuridica – dei legami familiari e che ci coinvolge tutti, credenti e non credenti. Il cristiano non è “immune” dai cambiamenti del suo tempo, e questo mondo concreto, con le sue molteplici problematiche e possibilità, è il luogo in cui dobbiamo vivere, credere e annunciare.

Tempo fa, vivevamo in un contesto sociale in cui le affinità dell’istituzione civile e del sacramento cristiano erano corpose e condivise: erano tra loro connesse e si sostenevano a vicenda. Ora non è più così. Per descrivere la situazione attuale sceglierei due immagini tipiche delle nostre società: da una parte, le note botteghe, piccoli negozi dei nostri quartieri, e dall’altra i grandi supermercati o centri commerciali.

Qualche tempo fa si poteva trovare in un medesimo negozio tutte le cose necessarie per la vita personale e familiare – certo esposte poveramente, con pochi prodotti e quindi con poca possibilità di scelta. Ma c’era un legame personale tra il negoziante e i clienti del vicinato. Si vendeva a credito, cioè c’era fiducia, c’era conoscenza, c’era vicinanza. Uno si fidava dell’altro. Trovava il coraggio di fidarsi. In molti luoghi lo si conosce come “la bottega del quartiere”.

In questi ultimi decenni si sono sviluppati e ampliati negozi di altro tipo: i centri commerciali. Il mondo pare che sia diventato un grande supermercato, dove la cultura ha acquisito una dinamica concorrenziale. Non si vende più a credito, non ci si può fidare degli altri. Non c’è legame personale, relazione di vicinanza. La cultura attuale sembra stimolare le persone a entrare nella dinamica di non legarsi a niente e a nessuno. A non dare fiducia e non fidarsi. Perché la cosa più importante oggi sembrerebbe essere andare dietro all’ultima tendenza all’ultima attività. E questo anche a livello religioso. Ciò che è importante oggi sembra determinarlo il consumo. Consumare relazioni, consumare amicizie, consumare religioni, consumare, consumare… Non importa il costo né le conseguenze. Un consumo che non genera legami, un consumo che va al di là delle relazioni umane. I legami sono un mero “tramite” nella soddisfazione delle “mie necessità”. Il prossimo con il suo volto, con la sua storia, con i suoi affetti cessa di essere importante.

E questo comportamento genera una cultura che scarta tutto ciò che “non serve” più o “non soddisfa” i gusti del consumatore. Abbiamo fatto della nostra società una vetrina multiculturale amplissima legata solamente ai gusti di alcuni “consumatori”, e, d’altro canto, sono tanti, tantissimi gli altri, quelli che «mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (Mt 15,27).

Questo produce una grande ferita, una ferita culturale molto grande. Oserei dire che una delle principali povertà o radici di tante situazioni contemporanee consiste nella solitudine radicale a cui si trovano costrette tante persone. Inseguendo un “mi piace”, inseguendo l’aumento del numero dei “followers” in una qualsiasi rete sociale, così le persone seguono – così seguiamo – la proposta offerta da questa società contemporanea. Una solitudine timorosa dell’impegno in una ricerca sfrenata di sentirsi riconosciuti.

Dobbiamo condannare i nostri giovani per essere cresciuti in questa società? Dobbiamo scomunicarli perché vivono in questo mondo? Essi devono sentirsi dire dai loro pastori frasi come: “una volta era meglio”; “il mondo è un disastro e, se continua così, non sappiamo dove andremo a finire”? Questo mi suona come un tango argentino! No, non credo, non credo che sia questa la strada. Noi pastori, sulle orme del Pastore, siamo invitati a cercare, accompagnare, sollevare, curare le ferite del nostro tempo. Guardare la realtà con gli occhi di chi sa di essere chiamato al movimento, alla conversione pastorale. Il mondo oggi ci chiede con insistenza questa conversione pastorale. «E’ vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugi,, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno» (Evangelii gaudium, 23). Il Vangelo non è un prodotto da consumare, non rientra in questa cultura del consumismo.

Sbaglieremmo se interpretassimo che questa “cultura” del mondo attuale è solo disaffezione per il matrimonio e la famiglia in termini di puro e semplice egoismo. I giovani di questo tempo sono forse diventati irrimediabilmente tutti pavidi, deboli, inconsistenti? Non cadiamo nella trappola. Molti giovani, nel quadro di questa cultura dissuasiva, hanno interiorizzato una specie di inconscia soggezione, hanno paura, una paura inconsapevole, e non seguono gli slanci più belli e più alti, e anche più necessari. Ci sono tanti che rimandano il matrimonio in attesa delle condizioni di benessere ideali. Intanto la vita si consuma, senza sapore. Perché la sapienza dei veri sapori della vita matura con il tempo, come frutto del generoso investimento della passione, dell’intelligenza, dell’entusiasmo.

Nel Congresso, alcuni giorni fa, dicevo che stiamo vivendo una cultura che spinge e convince i giovani a non formare una famiglia, alcuni per la mancanza di mezzi materiali per farlo, e altri perché hanno tanti mezzi che stanno molto comodi così, però questa è la tentazione, non formare una famiglia.

Come pastori, noi vescovi siamo chiamati a raccogliere le forze e a rilanciare l’entusiasmo per la nascita di famiglie più pienamente rispondenti alla benedizione di Dio, secondo la loro vocazione! Dobbiamo investire le nostre energie non tanto nello spiegare e rispiegare i difetti dell’attuale condizione odierna e i pregi del cristianesimo, quanto piuttosto nell’invitare con franchezza i giovani ad essere audaci nella scelta del matrimonio e della famiglia. A Buenos Aires, quante donne si lamentavano: “Ho mio figlio che ha 30, 32, 34 anni e non si sposa, non so che fare”. “Signora, non gli stiri più le camice!”. Bisogna entusiasmare i giovani perché corrano questo rischio, ma è un rischio di fecondità e di vita. Anche qui ci vuole una santa parresia dei vescovi. “Perché non ti sposi?” – “Sì, ho la fidanzata, però non sappiamo… sì, no,… mettiamo insieme i soldi per la festa, per questo…”. La santa parresia di accompagnarli e farli maturare fino all’impegno del matrimonio.

Un cristianesimo che “si fa” poco nella realtà e “si spiega” infinitamente nella formazione, sta in una sproporzione pericolosa. Direi in un vero e proprio circolo vizioso. Il pastore deve mostrare che il Vangelo della famiglia è davvero “buona notizia” in un mondo dove l’attenzione verso sé stessi sembra regnare sovrana! Non si tratta di fantasia romantica: la tenacia nel formare una famiglia e nel portarla avanti trasforma il mondo e la storia. Sono le famiglie che trasformano il mondo e la storia.

Il pastore annuncia serenamente e appassionatamente la Parola di Dio, incoraggia i credenti a puntare in alto. Egli renderà capaci i suoi fratelli e le sue sorelle dell’ascolto e della pratica della promessa di Dio, che allarga anche l’esperienza della maternità e della paternità nell’orizzonte di una nuova “familiarità” con Dio (cfr Mc 3,31-35). Il pastore vigila sul sogno, sulla vita, sulla crescita delle sue pecore. Questo “vigila” non nasce dal fare discorsi, ma dalla cura pastorale. È capace di vigilare solo chi sa stare “in mezzo”, chi non ha paura delle domande, chi non ha paura del contatto, dell’accompagnamento. Il pastore vigila prima di tutto con la preghiera, sostenendo la fede del suo popolo, trasmettendo fiducia nel Signore, nella sua presenza. Il pastore rimane sempre vigilante aiutando ad alzare lo sguardo quando compaiono lo scoraggiamento, la frustrazione o le cadute. Sarebbe bene chiederci se nel nostro ministero pastorale sappiamo “perdere” tempo con le famiglie. Sappiamo stare con loro, condividere le loro difficoltà e le loro gioie?

Naturalmente il tratto fondamentale dello stile di vita del Vescovo è in primo luogo vivere lo spirito di questa gioiosa familiarità con Dio, e in secondo luogo diffonderne l’emozionante fecondità evangelica, è in primo luogo: pregare e annunciare il Vangelo (cfr At 6,4). E sempre mi ha attirato l’attenzione e mi ha colpito quando all’inizio, ai primi tempi della Chiesa, gli ellenisti si lamentarono perché le loro vedove e i loro orfani non erano ben assistiti. Chiaro, gli apostoli non ce la facevano, e quindi li trascuravano; si riunirono e si “inventarono” i diaconi, cioè lo Spirito Santo li ispirò di costituire i diaconi; e quando Pietro annuncia la decisione spiega: sceglieremo sette uomini così e così perché si occupino di questa esigenza. E a noi spettano due cose: la preghiera e la predicazione. Qual è il primo lavoro del vescovo? Pregare. Il secondo lavoro che va insieme a quello: predicare. Ci aiuta questa definizione dogmatica. Se mi sbaglio, il cardinal Müller ci aiuta perché definisce qual è il ruolo del vescovo. Il vescovo è costituito per pascere, è pastore, ma pascere anzitutto con la preghiera e con l’annuncio, poi viene tutto il resto. Se rimane tempo.

Noi stessi, dunque, accettando umilmente l’apprendistato cristiano delle virtù familiari del popolo di Dio, assomiglieremo sempre di più a padri e madri (come Paolo, cfr 1 Ts 2,7.11), evitando di trasformarci in persone che hanno semplicemente imparato a vivere senza famiglia. Allontanarci dalla famiglia ci sta portando ad essere persone che impariamo a vivere senza famiglia: brutto, molto brutto. Il nostro ideale, in effetti, non è quello di essere senza affetti. Il buon Pastore rinuncia ad affetti familiari propri per destinare tutte le sue forze, e la grazia della sua speciale chiamata, alla benedizione evangelica degli affetti dell’uomo e della donna che danno vita al disegno della creazione di Dio, incominciando da quelli perduti, abbandonati, feriti, devastati, avviliti e privati delle loro dignità. Questa consegna totale all’agape di Dio non è certo una vocazione estranea alla tenerezza e al voler bene! Ci basterà guardare a Gesù, per capire questo (cfr Mt 19,12). La missione del buon Pastore nello stile di Dio – solo Dio può autorizzarlo, non la propria presunzione – imita in tutto e per tutto lo stile affettivo del Figlio nei confronti del Padre, che si riflette nella tenerezza della sua consegna: in favore, e per amore, degli uomini e delle donne della famiglia umana.

Nell’ottica della fede, questo è un argomento prezioso. Il nostro ministero ha bisogno di sviluppare l’alleanza della Chiesa e della famiglia. Lo sottolineo: sviluppare l’alleanza della Chiesa e della famiglia. Altrimenti marcisce, e la famiglia umana si farà irrimediabilmente distante, per nostra colpa, dalla Lieta Notizia donata da Dio, e andrà al supermercato di moda a comprare il prodotto che in quel momento le piace di più.

Se saremo capaci di questo rigore degli affetti di Dio, usando infinita pazienza, e senza risentimento, verso i solchi storti in cui dobbiamo seminarli – perché davvero dobbiamo tante volte seminare in solchi storti – anche una donna samaritana con cinque “non-mariti” si scoprirà capace di testimonianza. E per un giovane ricco che sente tristemente di doversi pensare ancora con calma, ci sarà un maturo pubblicano che si precipiterà giù dall’albero e si farà in quattro per i poveri ai quali – fino a quel momento – non aveva mai pensato.

Fratelli, Dio ci conceda il dono di questa nuova prossimità tra la famiglia e la Chiesa. Ne ha bisogno la famiglia, ne ha bisogno la Chiesa, ne abbiamo bisogno noi pastori. La famiglia è il nostro alleato, la nostra finestra sul mondo; la famiglia è l’evidenza di una benedizione irrevocabile di Dio destinata a tutti i figli di questa storia difficile e bellissima della creazione che Dio ci ha chiesto di servire! Tante grazie!

7/ «Dio è entrato nel mondo in una famiglia. E ha potuto farlo perché quella famiglia era una famiglia che aveva il cuore aperto all’amore, aveva le porta aperte». Discorso nella veglia di preghiera a Philadelphia

Riprendiamo sul nostro sito il discorso tenuto da papa Francesco nella Veglia di preghiera dell’VIII Incontro mondiale delle famiglie presso il B. Franklin Parkway, Philadelphia, il 26 settembre 2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Cari fratelli e sorelle, care famiglie!

Grazie a coloro che hanno dato testimonianza. Grazie a coloro che ci hanno rallegrato con l’arte, con la bellezza, che la via per arrivare a Dio. La bellezza ci porta a Dio. E una testimonianza vera ci porta a Dio perché Dio è anche la verità. È la bellezza ed è la verità. E una testimonianza data come servizio è buona, ci rende buoni, perché Dio è bontà. Ci porta a Dio. Tutto ciò che è buono, vero e bello ci porta a Dio. Perché Dio è buono, Dio è bello, Dio è verità.

Grazie a tutti. A quelli che ci hanno dato un messaggio qui e alla vostra presenza, che pure è una testimonianza. Una vera testimonianza che vale la pena la vita in famiglia. Che una società cresce forte, cresce buona, cresce bella e cresce vera se si edifica sulla base della famiglia.

Una volta, un bambino mi ha chiesto – voi sapete che i bambini chiedono cose difficili – mi ha chiesto: “Padre, che cosa faceva Dio prima di creare il mondo?”. Vi assicuro che ho fatto fatica a rispondere. E gli ho detto quello che dico adesso a voi: prima di creare il mondo Dio amava, perché Dio è amore; ma era tale l’amore che aveva in sé stesso, l’amore tra il Padre e il Figlio, nello Spirito Santo, era così grande, così traboccante – questo non so se è molto teologico, ma potete capirlo – era così grande che non poteva essere egoista; doveva uscire da sé stesso per avere qualcuno da amare fuori di sé. E allora Dio ha creato il mondo. Allora Dio ha creato questa meraviglia in cui viviamo; e che, dato che siamo un po’ stupidi, stiamo distruggendo. Ma la cosa più bella che ha fatto Dio – dice la Bibbia – è la famiglia. Ha creato l’uomo e la donna. E ha affidato loro tutto. Ha consegnato loro il mondo: “Crescete, moltiplicatevi, coltivate la terra, fatela produrre, fatela crescere”. Tutto l’amore che ha realizzato in questa creazione meravigliosa l’ha affidato a una famiglia.

Torniamo un po’ indietro. Tutto l’amore che Dio ha in sé, tutta la bellezza che Dio ha in sé, tutta la verità che Dio ha in sé, la consegna alla famiglia. E una famiglia è veramente famiglia quando è capace di aprire le braccia e accogliere tutto questo amore. Certamente il paradiso terrestre non sta più qui, la vita ha i suoi problemi, gli uomini, per l’astuzia del demonio, hanno imparato a dividersi. E tutto quell’amore che Dio ci ha dato, quasi si perde. E in poco tempo, al primo crimine, al primo fratricidio. Un fratello uccide l’altro fratello: la guerra. L’amore, la bellezza e la verità di Dio, e la distruzione della guerra. E tra queste due posizioni camminiamo noi oggi. Sta a noi scegliere, sta a noi decidere la strada da seguire.

Ma torniamo indietro. Quando l’uomo e sua moglie hanno sbagliato e si sono allontanati da Dio, Dio non li ha lasciati soli. Tanto era l’amore. Tanto era l’amore che ha incominciato a camminare con l’umanità, ha incominciato a camminare con il suo popolo, finché giunse il momento maturo e diede il segno più grande del suo amore: il suo Figlio. E suo Figlio dove lo ha mandato? In un palazzo? In una città? A fare un’impresa? L’ha mandato in una famiglia. Dio è entrato nel mondo in una famiglia. E ha potuto farlo perché quella famiglia era una famiglia che aveva il cuore aperto all’amore, aveva le porta aperte. Pensiamo a Maria ragazza. Non poteva crederci: “Come può accadere questo?”. E quando le spiegarono, obbedì. Pensiamo a Giuseppe, pieno di aspettative di formare una famiglia, e si trova con questa sorpresa che non capisce. Accetta, obbedisce. E nell’obbedienza d’amore di questa donna, Maria, e di quest’uomo, Giuseppe, si forma una famiglia in cui viene Dio. Dio bussa sempre alle porte dei cuori. Gli piace farlo. Gli viene da dentro. Ma sapete quello che gli piace di più? Bussare alle porte delle famiglie. E trovare le famiglie unite, trovare le famiglie che si vogliono bene, trovare le famiglie che fanno crescere i figli e li educano, e che li portano avanti, e che creano una società di bontà, di verità e di bellezza.

Siamo alla festa delle famiglie. La famiglia ha la carta di cittadinanza divina. È chiaro? La carta di cittadinanza che ha la famiglia l’ha data Dio perché nel suo seno crescessero sempre più la verità, l’amore e la bellezza. Certo, qualcuno di voi mi può dire: “Padre, Lei parla così perché non è sposato. In famiglia ci sono difficoltà. Nelle famiglie discutiamo. Nelle famiglie a volte volano i piatti. Nelle famiglie i figli fanno venire il mal di testa. Non parliamo delle suocere…”. Nelle famiglie sempre, sempre c’è la croce. Sempre. Perché l’amore di Dio, il Figlio di Dio ci ha aperto anche questa via. Ma nelle famiglie, dopo la croce, c’è anche la risurrezione, perché il Figlio di Dio ci ha aperto questa via. Per questo la famiglia è – scusate il termine – una fabbrica di speranza, di speranza di vita e di risurrezione, perché è Dio che ha aperto questa via.

E i figli, i figli danno da fare. Noi come figli abbiamo dato da fare. A volte, a casa, vedo alcuni dei miei collaboratori che vengono a lavorare con le occhiaie. Hanno un bimbo di un mese, due mesi. E gli domando: “Non hai dormito?” - “No, ha pianto tutta notte”. In famiglia ci sono le difficoltà. Ma queste difficoltà si superano con l’amore. L’odio non supera nessuna difficoltà. La divisione dei cuori non supera nessuna difficoltà. Solo l’amore è capace di superare la difficoltà. L’amore è festa, l’amore è gioia, l’amore è andare avanti.

E non voglio continuare a parlare perché si fa troppo tardi, ma vorrei sottolineare due piccoli punti sulla famiglia, sui quali vorrei che si avesse una cura speciale; non solo vorrei, dobbiamo avere una cura speciale: i bambini e i nonni. I bambini e i giovani sono il futuro, sono la forza, quelli che portano avanti. Sono quelli in cui riponiamo la speranza. I nonni sono la memoria della famiglia. Sono quelli che ci hanno dato la fede, ci hanno trasmesso la fede. Avere cura dei nonni e avere cura dei bambini è la prova di amore, non so se più grande, ma direi più promettente della famiglia, perché promette il futuro. Un popolo che non sa prendersi cura dei bambini e un popolo che non sa prendersi cura dei nonni è un popolo senza futuro, perché non ha la forza e non ha la memoria per andare avanti.

Dunque, la famiglia è bella, ma costa, dà problemi. Nella famiglia a volte ci sono ostilità. Il marito litiga con la moglie, o si guardano male, o i figli con il padre… Vi do un consiglio: non finite mai la giornata senza fare pace in famiglia. In una famiglia non si può finire la giornata in guerra.

Dio vi benedica. Dio vi dia le forze, Dio vi dia il coraggio per andare avanti. Prendiamoci cura della famiglia. Difendiamo la famiglia perché lì si gioca il nostro futuro. Grazie! Dio vi benedica e pregate per me. Per favore.

8/ «Dio conceda a tutti noi di essere profeti della gioia del Vangelo, del Vangelo della famiglia»: L’omelia della Messa a Philadelphia

Riprendiamo sul nostro sito l’omelia tenuta da papa Francesco nella Messa conclusiva dell’VIII Incontro mondiale delle famiglie presso il B. Franklin Parkway, Philadelphia, 27 settembre 2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (28/9/2015)

Oggi la Parola di Dio ci sorprende con un linguaggio allegorico forte, che ci fa pensare. immagini potenti, che interrogano le nostre riflessioni. Un linguaggio allegorico che ci interpella, ma che anima il nostro entusiasmo.

Nella prima Lettura, Giosuè dice a Mosè che due membri del popolo stanno profetizzando, e annunciano la parola di Dio senza alcun mandato. Nel Vangelo, Giovanni dice a Gesù che i discepoli hanno impedito a uno di scacciare gli spiriti maligni nel nome di Gesù. E qui viene la sorpresa: Mosè e Gesù rimproverano questi collaboratori per essere così chiusi di mente. Fossero tutti profeti della parola di Dio! Fosse capace ciascuno di fare miracoli nel nome del Signore!

Gesù, invece, trova ostilità nella gente che non aveva accettato ciò che faceva e diceva. Per loro, l’apertura di Gesù alla fede onesta e sincera di molte persone che non facevano parte del popolo eletto da Dio sembrava intollerabile. I discepoli, da parte loro, agivano in buona fede; ma la tentazione di essere scandalizzati dalla libertà di Dio, il Quale fa piovere sui giusti come sugli ingiusti (cfr Mt 5,45), oltrepassando la burocrazia, l’ufficialità e i circoli ristretti, minaccia l’autenticità della fede e, perciò, dev’essere respinta con forza.

Quando ci rendiamo conto di questo, possiamo capire perché le parole di Gesù sullo scandalo sono così dure. Per Gesù, lo scandalo intollerabile è tutto ciò che distrugge e corrompe la nostra fiducia nel modo di agire dello Spirito.

Dio nostro Padre non si lascia vincere in generosità e semina. Semina la sua presenza nel nostro mondo, poiché «in questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi» per primo (1 Gv 4,10). Amore che ci dà la certezza profonda: siamo cercati da Lui, siamo aspettati da Lui. È questa fiducia che porta il discepolo a stimolare, accompagnare e far crescere tutte le buone iniziative che esistono attorno a lui. Dio vuole che tutti i suoi figli prendano parte alla festa del Vangelo. Non ostacolate ciò che è buono – dice Gesù –, al contrario, aiutatelo a crescere. Mettere in dubbio l’opera dello Spirito, dare l’impressione che essa non ha nulla a che fare con quelli che non sono “del nostro gruppo”, che non sono “come noi”, è una tentazione pericolosa. Non solo blocca la conversione alla fede, ma costituisce una perversione della fede.

La fede apre la “finestra” alla presenza operante dello Spirito e ci dimostra che, come la felicità, la santità è sempre legata ai piccoli gesti. «Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome – dice Gesù, piccolo gesto – non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41). Sono gesti minimi, che uno impara a casa; gesti di famiglia che si perdono nell’anonimato della quotidianità, ma che rendono ogni giorno diverso dall’altro. Sono gesti di madre, di nonna, di padre, di nonno, di figlio, di fratello. Sono gesti di tenerezza, di affetto, di compassione. Gesti come il piatto caldo di chi aspetta a cenare, come la prima colazione presto di chi sa accompagnare nell’alzarsi all’alba. Sono gesti familiari. È la benedizione prima di dormire e l’abbraccio al ritorno da una lunga giornata di lavoro. L’amore si esprime in piccole cose, nell’attenzione ai dettagli di ogni giorno che fanno sì che la vita abbia sempre sapore di casa. La fede cresce quando è vissuta e plasmata dall’amore. Perciò le nostre famiglie, le nostre case sono autentiche Chiese domestiche: sono il luogo adatto in cui la fede diventa vita e la vita cresce nella fede.

Gesù ci invita a non ostacolare questi piccoli gesti miracolosi, anzi, vuole che li provochiamo, che li facciamo crescere, che accompagniamo la vita così come ci si presenta, aiutando a suscitare tutti i piccoli gesti di amore, segni della sua presenza viva e operante nel nostro mondo.

Questo atteggiamento a cui siamo invitati ci porta a domandarci, oggi, qui, al termine di questa festa: come stiamo lavorando per vivere questa logica nelle nostre famiglie e nelle nostre società?, che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli (cfr Laudato si’, 160)? Non possiamo rispondere noi da soli a queste domande. È lo Spirito che ci chiama e ci sfida a rispondere ad esse con la grande famiglia umana. La nostra casa comune non può più tollerare divisioni sterili. «La sfida urgente di proteggere la nostra casa […] comprende lo sforzo di unire l’intera famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare» (ibid., 13). Che i nostri figli trovino in noi dei punti di riferimento per la comunione, non per la divisione. Che i nostri figli trovino in noi persone capaci di associarsi ad altri per far fiorire tutto il bene che il Padre ha seminato.

In modo diretto, ma con affetto, Gesù ci dice: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11,13). Quanta saggezza c’è in queste parole! In effetti, quanto a bontà e purezza di cuore, noi esseri umani non abbiamo molto di cui vantarci! Ma Gesù sa che, per quanto riguarda i bambini, siamo capaci di una generosità senza limiti. Per questo ci incoraggia: se abbiamo fede, il Padre ci darà il suo Spirito.

Noi cristiani, discepoli del Signore, chiediamo alle famiglie del mondo che ci aiutino. Siamo tanti oggi a partecipare a questa celebrazione, e questo è già in sé stesso qualcosa di profetico, una specie di miracolo nel mondo di oggi, che è stanco di inventare nuove divisioni, nuove rotture, nuovi disastri. Magari fossimo tutti profeti! Magari ciascuno di noi si aprisse ai miracoli dell’amore per il bene della propria famiglia e di tutte le famiglie del mondo – e sto parlando di miracoli d’amore –, e per poter così superare lo scandalo di un amore meschino e sfiduciato, chiuso in sé stesso, senza pazienza con gli altri! Vi lascio come domanda, perché ciascuno risponda – perché ho detto la parola “impaziente”: a casa mia, si grida o si parla con amore e tenerezza? È un buon modo di misurare il nostro amore.

Come sarebbe bello se dappertutto, anche al di là dei nostri confini, potessimo incoraggiare e apprezzare questa profezia e questo miracolo! Rinnoviamo la nostra fede nella parola del Signore che invita le nostre famiglie a questa apertura; che invita tutti a partecipare alla profezia dell’alleanza tra un uomo e una donna, che genera vita e rivela Dio. Che ci aiuti a partecipare alla profezia della pace, della tenerezza e dell’affetto familiare. Che ci aiuti a partecipare al gesto profetico di prenderci cura con tenerezza, con pazienza e con amore dei nostri bambini e dei nostri nonni.

Ogni persona che desideri formare in questo mondo una famiglia che insegni ai figli a gioire per ogni azione che si proponga di vincere il male – una famiglia che mostri che lo Spirito è vivo e operante –, troverà la gratitudine e la stima, a qualunque popolo, religione o regione appartenga.

Dio conceda a tutti noi di essere profeti della gioia del Vangelo, del Vangelo della famiglia, dell’amore della famiglia, essere profeti come discepoli del Signore, e ci conceda la grazia di essere degni di questa purezza di cuore che non si scandalizza del Vangelo. Così sia.