Giacomo Leopardi al culmine del suo genio profetico, di don Luigi Giussani

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /06 /2015 - 15:09 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo un brano da Giussani L., Le mie letture, BUR, Milano 1996, pp. 9-31: il brano è la trascrizione di una lettura tenuta agli universitari dei Politecnico di Milano nel 1985. I testi di Leopardi sono tratti dall'antologia Cara beltà..., BUR, Milano 1996.Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (22/6/2015)

Avendo io, nella mia tenera età, "incontrato" Giacomo Leopardi e avendo studiato a memoria tutti i suoi Canti,e da allora, credo, non passando mai giorno della mia vita senza citarmi qualche brano delle sue poesie, ed essendo tutto ciò noto agli amici, essi hanno premuto perché io venissi qui oggi a raccontare non un'indagine esauriente dal punto di vista letterario, storico o esegetico della sua opera, ma semplicemente la testimonianza di quello che la poesia di Leopardi ha suscitato e suscita nel mio animo, di uomo e di credente. Questo, perciò, è il limite della mia offerta, che dunque vuole esprimersi come un gesto familiare e amichevole.

Per descrivere quello che la poesia di Leopardi suscita, da tanti anni, quotidianamente in me, non posso non partire dalla scoperta che a un certo punto ne ho fatto, dalla quale proviene il mio grande amore per lui. Come ho detto, ho studiato Leopardi quando avevo dodici-tredici anni; essendone stato allora molto ferito, in certi mesi leggevo solo sue poesie, col capo reclinato, e non studiavo altro. Inprima liceo, quando avevo quindici anni, ho scoperto che la negazione in Leopardi, quella negazione che mi aveva così psicologicamente ferito prima, era posticcia, era come un manifesto incollato a viva forza e male su un grido così umanamente vero che del grido umano non poteva non testimoniare la promessa strutturale. Ho compreso allora - e ne sono sempre stato confermato fino ad oggi - che la negazione, la risposta negativa ai problemi ultimi della vita che strutturava il sensismo - la filosofia a cui Leopardi si era legato perché dominava il mondo culturale di allora - non era parola di Leopardi, ma era un vestito sopraggiunto a un cuore così autenticamente umano che non poteva non riaffermare la positività del destino. È, infatti, così forte il grido dell'esigenza che costituisce il cuore dell'uomo, è così forte e potente e bello che, come per natura, non ci si può non sentire trascinati e dire: "Già, è vero", cioè non ci si può non mettere almeno in tensione di attesa per quel che deve venire come possibile risposta positiva.

Vorrei partire, appoggiando la mia reazione sui testi del poeta e sulle sue tematiche, dal primo fattore dell'antropologia leopardiana, ovvero dal primo fattore della modalità con cui l'uomo osserva se stesso vivere: quello che egli chiama «la sublimità del sentire». La formula indica la densità di emozione, di struggimento e di timore enigmatico, causata dalla sproporzione tra l'uomo e la realtà; una sproporzione tragica perché, da una parte, alla grandezza dell'uomo la realtà sembra cinicamente obiettare un limite che dissolve quella grandezza; dall'altra parte, alla vastità del creato, all'imponenza della realtà, corrisponde invece la minuta piccolezza, l'effimera banalità dell'uomo. La sublimità del sentire è dunque generata dalla constatata sproporzione tra l'io e la realtà, nel duplice senso detto.

Forse, l'inno leopardiano che meglio, e anche più plasticamente, dice di questa sproporzione che desta nell'uomo una statura di sentimento che supera la banale quotidianità dei suoi sentimenti, è Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. Qui Leopardi sottolinea, dice, grida, comunica in modo così potente l'interrogativo che costituisce il contenuto di questa sproporzione, o meglio, di questa sublimità del sentire, che tutta la negatività sensistica appare, come prima dicevo, appiccicaticcia e cerebrale. Essa, infatti, lascia indenne il suo modo di esplicitare questa sproporzione e questa sublimità del sentire dell'animo, non spegne quell'interrogativo che ci fa alzare ogni mattina come «spron [che] quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar pace o loco» (da Canto notturno di un pastore errante dell'Asia,vv 119-121).

Voglio, dunque, leggervi questa che è tra le sue più belle poesie:

Tal fosti [così bella sei stata]: or qui sotterra
polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango
immobilmente collocato invano,
muto, mirando dell'etadi il volo,
sta, di memoria solo
e di dolor custode, il simulacro
della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,
che tremar
fe', se, come or sembra, immoto
in altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto
par, come d'urna piena,
traboccare il piacer; quel collo, cinto
già di desio; quell'amorosa mano,
che spesso, ove fu porta,
sentì gelida far la man che strinse;
e il seno, onde la gente
visibilmente di pallor si tinse,
furo alcun tempo: or fango
ed ossa sei: la vista
vituperosa e trista un sasso asconde.

Così riduce il fato
qual sembianza fra noi parve più viva
immagine del ciel. Misterio eterno
dell'esser nostro.
[ecco la sublimità del sentire, che scaturisce dalla sproporzione]

Oggi d'eccelsi, immensi
pensieri e sensi inenarrabil fonte,
beltà grandeggia, e pare,
quale splender vibrato
da natura immortal su queste arene,
di sovrumani fati,
di fortunati regni e d'aurei mondi
segno e sicura spene
dare al mortale stato:
diman, per lieve forza,
sozzo a vedere, abominoso, abbietto
divien quel che fu dianzi
quasi angelico aspetto,
e dalle menti insieme
quel che da lui moveva
ammirabil concetto,
si dilegua.
[«ammirabil concetto»: immagine dell'essere, della vita. Ecco la strofa della sproporzione
. Ma la più bella è quella che viene dopo, che per me è la più bella strofa della letteratura italiana:]

Desiderii infiniti
e visioni altere
crea nel vago pensiere,
per natural virtù, dotto concento;
[«dotto concento»: una bellezza complessa, costituita da tanti fattori; la bellezza, «dotto concento», crea nel «vago pensiere», in un pensiero che è vago, i «desiderii infiniti». Ciò richiama all'Ulisse dantesco, come indica l'immagine successiva: «vago», come dire pellegrinante, ricercatore:]

onde per mar delizioso, arcano
erra lo spirto umano,
quasi come a diporto
ardito notator per l'Oceano:
[ecco l'Ulisse]

ma se un discorde accento
fere l'orecchio, in nulla
torna quel paradiso in un momento.

Natura umana, or come,
se
frale in tutto e vile,
[se fragile totalmente, se sei totalmente e soltanto ignobile]

se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
Se in parte anco gentile,
[cioè se anche in qualche parte nobile]
come
i più degni tuoi moti e pensieri
son così di leggeri
da sì basse cagioni e desti e spenti?

Si tratta, dunque, dell'esperienza di sproporzione tra fattori che ci costituiscono. La realtà, infatti, è un fattore che ci costituisce, così come il nostro animo, che è grande come sorgente di emozione, e pur è così fragile di fronte all'imperterrito andare delle cose. La verità di Leopardi non può essere una negazione, ma è in quel «Misterio eterno / dell'esser nostro», nella domanda finale rivolta alla natura umana: «or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed / ombra sei, tant'alto senti?».

Si tratta, in definitiva, di quel che io chiamo il gioco della penombra.

Se tu volti le spalle alla luce, guardando la penombra dici: "Introduce all'oscurità totale", cioè l'ultima parola è l'oscurità totale; ma se tu volti le spalle all'oscuro, dici: "è il vestibolo della luce", cioè l'ultima parola è la luce. Delle due posizioni, quella più adeguata, come ipotesi, al fenomeno è la seconda, in quanto la prima non spiega neanche la possibilità della penombra. L'ombra non spiega la penombra. E questo il vero messaggio che, a mio avviso, Leopardi porta sull'esperienza dell'uomo.

Il genio, infatti, è sempre profeta, è così inesorabilmente espressore di ciò a cui l'uomo è destinato che il suo grido non può che confermare l'attesa per cui l'uomo è fatto.

Certo, ognuno di noi conosce il «Vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo, / con gravissimo fascio in su le spalle» (Canto notturno...,vv 21-23) che va a finire dove va a finire, nel nulla: «Abisso orrido, immenso, / ov'ei precipitando, il tutto obblia» (vv 35-36). Ma, vedremo dopo, l'uomo non riesce a fermarsi lì; subito il velivolo umano risale: «Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi» (vv 61-62), e, subito dopo alcune righe: «E tu certo comprendi» (v 69). Si tratta dello stesso potente e aperto interrogativo posto alla fine della bellissima poesia che abbiamo letto: «Come i più degni tuoi moti e pensieri / son così di leggeri / da sì basse cagioni e desti e spenti?» (Sopra il ritratto...,vv 54-56).

E ognuno di noi forse ricorda - perché è una delle poesie che almeno una volta si studiavano più facilmente oltre a Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta e a A Silvia - La sera del dì di festa,quando il poeta va al ritrovo serale perché vuole ottenere l'attenzione della donna in quel momento amata, la quale non lo degna d'un guardo, e allora se ne ritorna a casa disperato:

[...] e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate!
[e poi improvvisamente:]
Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell'artigian, che riede a tarda notte,
dopo
i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov'è il suono
di que' popoli antichi? or dov'è il grido
de' nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
eh'egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s'udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.

La grande realtà umana che s'annulla nel tempo, la coscienza d'esser il piccolo punto che esalta, così a dismisura, il sentire dell'uomo, la sublimità del sentire, costituiscono dunque il primo fattore della concezione e del sentimento della propria umanità che Leopardi esprime.

Ma già nelle poesie citate sta anche il secondo fattore di tale sentimento dell'umano: potrei usare la parola sogno,ma uso la parola esaltazione.È un fattore connesso col primo. Infatti, la sproporzione che l'uomo vive tra sé e la realtà, questo sentimento tragico, sublime-tragico, che la sproporzione desta, agisce riconoscendo nella realtà come una sollecitazione al "sogno umano".

Perché nasce questo sentimento tragico? Perché la realtà, dice Leopardi, fa sognare l'uomo, lo esalta, nel senso latino della parola, prende l'uomo e lo estrae in tutta la sua statura. A contatto con la realtà, l'uomo, che è come accovacciato e dormiente, si tira su, si innalza secondo tutta la sua statura. La realtà esalta l'anima dell'uomo, e dà, in tale esaltazione, un "respiro sognante", che è l'anima della vita: infatti, ciò che fa vivere, nonostante la sproporzione sofferta e la tragicità del sentimento, è questo respiro sognante a cui la realtà esalta l'anima dell'uomo.

La sproporzione diventa, in questa evocazione della vita come sogno, sorgente di meditazioni vaste, a cui il genio di Leopardi sa dare spazi di immagini e di parole e di musicalità che non hanno paragone in tutta la letteratura italiana. Credo che l'inno più tipico sia: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia; un respiro sognante, dicevo, che esala dalla stessa negazione. Infatti, dopo aver descritto il vecchierello che col grave fascio sulle spalle,

per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.
[Leopardi mette in luce l'esaltazione che immediatamente ne consegue:]                     

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
[peregrina del cielo]
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia
;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia              
seguirmi viaggiando a mano a mano,
e quando miro in cielo arder le stelle:
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?

È un'esaltazione nel sentimento di sé, che rende la vita dell’uomo dominata da una tensione ultima, dalla tensione a una risposta ultima, a un ultimo risolutivo. È «il pensiero dominante», che può prendere, ovviamente, identità nella donna di cui è innamorato, o nella contemplazione della natura, o nel pensare «al volo delle etadi», al volo del tempo e della storia, e che acquista in ogni uomo un'immagine definita che è proprio l'immagine che lo fa vivere.

Anche senza accorgersene, uno ha dentro di sé un'immagine che lo fa vivere.

 

Dolcissimo, possente
dominator di mia profonda mente;
terribile, ma caro
dono del ciel; consorte
ai lugubri miei giorni,
pensier che innanzi a me sì spesso torni.

Di tua natura arcana
chi non favella? il suo poter fra noi
chi non sentì?
Pur sempre
che in dir gli effetti suoi
le umane lingue il sentir proprio sprona,
par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.
[questa immagine in cui uno colloca la risposta alla sua attesa, cosciente o incosciente che sia, è come una sorgente sempre nuova, essendo «dominator di mia profonda mente»]

Come solinga è fatta
la mente mia d'allora
che tu quivi prendesti a far dimora!
Ratto d'intorno intorno al par del lampo
gli altri pensieri miei
tutti si dileguàr. Siccome torre
in solitario campo,
tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.
[...]
(da Il pensiero dominante,vv 1-20)

Per ogni uomo c'è questa identificazione della felicità o del destino, del ciò per cui vale la pena vivere.Così si vive ed esiste.

La tensione di Leopardi è, dal punto di vista estetico, il contrario di quella di Jacopone da Todi; Jacopone ha il suo vertice nell'inizio, la sua arsi musicale più acuta all'inizio, mentre Leopardi l'ha sempre alla fine, come nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia:

Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
[forse, si chiede il poeta, se io fossi più evoluto, sarei più felice. Ma dopo centocinquant'anni dalla sua morte, noi osserviamo l'uomo che «erra di giogo in giogo», come tuono, con i jet, e «novera le stelle ad una ad una» sopra le nubi, coi missili, e si può forse dire che è un briciolo più felice? No!]

O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

Questo finale è una caduta che non è redenta dal «forse»: esso indica l'improvvisa caduta.

Questo sogno e questa esaltazione sono, dunque, realmente un sogno, nonostante certi momenti in cui riappare l'immagine nella quale coscientemente o incoscientemente l'uomo ripone l'identità di ciò che attende e di ciò che spera, destando un'esperienza di felicità e di gioia immensa. Come si dice ancora ne Il pensiero dominante (vv 100-111):

[...] Che mondo mai, che nova
immensità, che paradiso è quello
là dove spesso il tuo stupendo incanto
parmi innalzar! dov'io,
sott'altra luce che l'usata errando,
il mio terreno stato
e tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo,
i sogni
degl'immortali.
[ci sono momenti in cui l'uomo sembra un dio]

Ahi finalmente un sogno
in molta parte onde s'abbella il vero
sei tu, dolce pensiero;
[un sogno per abbellire la crudità del vero, cioè della realtà]
sogno e palese error.
[...]

«Ahi finalmente un sogno.» Dunque, tutto quello che di attraente e di esaltante nello scontro io-realtà sorge ha l'inconsistenza del sogno, e allora veramente il contenuto della coscienza di vita che ha l'uomo è, come Leopardi la chiama, la rimembranza acerba.Questo è il terzo fattore che voglio sottolineare. Si tratta di un dolore che richiama, in fondo, un antico brano di un poeta pagano: proprio nel centro, nel cuore della sorgente del piacere, scaturisce qualcosa di amaro, una vena d'amaro, che stringa, o che strugga, che strugga il cuore della stessa gioia, nei momenti della gioia, anche nei momenti della gioia[1].

Come Leopardi scrive ne Le ricordanze (vv 170-174), anche nelle esperienze nuove e più appassionanti c'è questa acerba rimembranza:

[...] e fia compagna
d'ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

Non si dà coscienza umana se non ha dentro questa rimembranza acerba. L'inno più bello, documentativo di quello che Leopardi significa con queste parole, è proprio Le ricordanze.Non lo leggo, ma voglio sottolinearne un particolare circa il contenuto normale della coscienza dell'uomo. Leopardi dice che il termine di paragone continuo dell'uomo è la sua giovinezza. In qualunque età, in qualunque momento, l'uomo, senza accorgersene, fa il paragone con la sua giovinezza; è nella giovinezza che tutto sembra un sogno. Nella giovinezza, «dell'arida vita unico fiore», sta il momento più illusivo, ma nello stesso tempo più corrispondente al desiderio e all'attesa che ha l'uomo.

A questo proposito, ne La vita solitaria Leopardi ha qualche pagina di rilievo (vv 39-55):

[...] Amore, amore, assai lungi volasti
dal petto mio, che fu si caldo un giorno,
anzi rovente. Con sua fredda mano
lo stringe la sciaura, e in ghiaccio è volto
nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
che mi scendesti in seno. Era quel dolce
e irrevocabil tempo, allor che s'apre
al guardo giovanil questa infelice
scena del mondo, e gli sorride in vista
di paradiso. Al garzoncello il core
di vergine speranza e di desio
balza nel petto; e già s'accinge all'opra
di questa vita come a danza o gioco
il misero mortal. Ma non sì tosto,
amor, di te m'accorsi, e il viver mio
fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
non altro convenia che il pianger sempre.
[...]

Questa nota d'acerba rimembranza fa emergere, per così dire, la configurazione morale e sociale dell'immagine che Leopardi ha della vita dell'uomo, vale a dire il mondo come ingiustizia: «gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro /in freddo orror [la vita] dissolve» (da Alla primavera o delle favole antiche, vv 84-85), i petti iniqui o innocenti la vita li prova allo stesso modo. Così come dice nell'inno Alla primavera o, più gravemente, in Bruto minore («dunque degli empi / siedi, Giove, a tutela?»), ove sembra che la forza della realtà sia a tutela degli empi.

Ma la parola più sconsolante è quella che egli dice ancora in Bruto minore:«né scolorò le stelle umana cura». Qualsiasi dolore umano non scolora le stelle: quel sentimento di indissolubilità della natura che si potrebbe afferrare come simbolo o estremo richiamo positivo, qui è affermato come suprema accusa al cinismo della natura. E le stelle stanno a guardare di A. Joseph Cronin contiene la stessa accusa. Così è anche in uno dei più significativi Primi poemetti di Pascoli, Il libro.Sempre la natura, laddove il genio non mantiene desta la dimensione religiosa, fa da quinta imperterrita di fronte al dolore e alla tragedia dell'uomo, mentre, laddove l'artista o il poeta ha vivo un tratto religioso, la natura diventa parte del pathos umano, parte della tragedia o della gioia dell'uomo. Infatti, la struttura poetica più compiuta e più vissuta, che è la Liturgia della Chiesa cattolica, indica profondamente l'unità fra il dolore e la gioia, l'attesa e la delusione dell'uomo, il peccato e il bene, il male e il bene, con la natura e i suoi ritmi.

Proprio per questa ingiustizia che il potere della realtà realizza nei confronti dell'uomo, innocente o no, il mondo risulta normalmente ripugnante: «questa età superba», dice Leopardi della propria epoca ne Il pensiero dominante (vv 60-64):

[...]
che di vote speranze si nutrica,
[si nutre di speranze vuote]

vaga di ciance, e di virtù nemica;
stolta, che l'util chiede,
e inutile la vita
quindi più sempre divenir non vede;
[...]

È una descrizione che può andare benissimo anche per la nostra cara epoca: «Di questa età superba, / che di vote speranze si nutrica», le ideologie, «vaga di ciance», tutti parlano, «e di virtù nemica; / stolta, che l'util chiede», l'utile come unico criterio del nostro mondo, «e inutile la vita / quindi più sempre divenir non vede».

Eppure, se oggi ho accettato di parlare, è per compiere insieme a Leopardi altri due passi oltre il "no", oltre la negazione.

Il primo passo è ben evidente nell'inno ad Aspasia,che è rivolto a una delle tante donne di cui si è innamorato:

[...]
Raggio divino al mio pensiero apparve,
donna, la tua beltà. Simile effetto
fan la bellezza e
i musicali accordi,
ch'alto mistero d'ignorati Elisi
paion sovente rivelar.
[la tua bellezza, o donna, mi richiama qualcosa di "oltre", «Raggio divino», così come la musica, che sembra custodire un «mistero d'ignorati Elisi». Un mistero di felicità, qualcosa d'oltre, di più felice: la bellezza della donna richiama a tutto ciò]

Vagheggia
il piagato mortal quindi la figlia
della sua mente, l'amorosa idea,
che gran parte d'Olimpo in sé racchiude,
[...]
[l'uomo, allora, «vagheggia», s'innamora di questa immagine che sta dietro la figura della donna, s'innamora di questa sorgente di emozione che pesca oltre il viso della donna, come oltre l'apparato della musica. «Vagheggia / il piagato mortal quindi la figlia / della sua mente»: della sua mente, perché questa emozione, o questo richiamo, avviene dentro la coscienza]

Vagheggia
il piagato mortal quindi la figlia
della sua mente, l'amorosa idea,
che gran parte d'Olimpo
[la felicità] in sé racchiude,
tutta al volto ai costumi alla favella
pari alla donna che il rapito amante
vagheggiare ed amar confuso estima.
[l'uomo crede di amare e di vagheggiare, confondendo la donna che ha davanti con quell'altra cosa, che però è proprio quella precisa donna a suscitargli]

Or questa egli non già, ma quella, ancora
nei corporali amplessi, inchina ed ama.
[non la donna che ha davanti, ma ciò che lei gli richiama]
Alfin l'errore e gli scambiati oggetti
conoscendo, s'adira;
[a un certo punto, la donna si rivela ìmpari a sostenere il paragone con l'immagine che ha suscitato, e allora l'uomo «s'adira», cioè si spompa]
e spesso incolpa
la donna a torto. A quella eccelsa imago
[a quella immagine che lei stessa desta]
sorge di rado il femminile ingegno;
e ciò che inspira ai generosi amanti
la sua stessa beltà, donna non pensa,
né comprender potria. Non cape in quelle
anguste fronti ugual concetto.
[...]

Leopardi, nell'inno ad Aspasia,afferma che c'è dunque qualcosa d'altro che lo richiama e che ad esso presta il suo omaggio l'uomo. Infatti, «Alfin l'errore e gli scambiati oggetti / conoscendo, s'adira»: l'uomo si accorge che la donna che ha innanzi è sproporzionata all'immagine che la donna stessa gli ha destato. Il suo entusiasmo era per quello che gli era stato destato dentro.

Ma se il limite delle cose, il limite della donna non definisce quello che l'uomo è suscitato ad essere dalla sua presenza, se il limite delle cose che Leopardi incontrava, il limite dello stesso universo che contemplava, non lo definiva, allora è necessario a questo punto il secondo passo oltre la negazione. Vale a dire l'introduzione di una parola estremamente importante, anzi "la parola suprema" per la ragione dell'uomo, che è la parola "segno". Nell'esperienza testimoniata in Aspasia e in altri luoghi, la donna è segno di qualcosa d'altro; criticamente cosciente o no, l'uomo di Leopardi subisce il dinamismo con cui questo segno lo percuote. E quando un uomo non è definito dalla situazione di limite in cui è, significa che afferma una presenza che lo richiama e lo suscita, significa che l'uomo grida e afferma la presenza di qualcos'altro.

Questo passaggio, a mio avviso, è chiaro nella poesia di Leopardi: l'affermazione della realtà come segno. Quella sproporzione, quella sublimità del sentire, quella esaltazione o sogno, quella rimembranza acerba che resta anche nei momenti più buoni, sì, tutto ciò può essere reso oggetto di un giudizio negativo; ma tale giudizio di negatività sull'esistenza è un'opzione. Il "no" è una scelta, non è una ragione. Infatti, l'esperienza di un uomo che vive contiene qualcosa che supera il suo stesso rapporto con la realtà: la realtà di cui egli vive non lo definisce, fa sorgere in lui un mondo, un interrogativo, che è messo in crisi dalla stessa realtà nell'impatto con la quale l'interrogativo è suscitato. Perciò, insisto, se un uomo non è definito dal proprio limite, se non è definito da quello che è, se un'attrattiva nella realtà rimane aperta, questo significa l'inevitabile affermazione di una presenza, di una risposta ultima. Tale affermazione di una presenza positiva ultima è così implicita nella ragione, intesa come coscienza del reale, che Leopardi ha finito perfino per riconoscerla.

C'è stato un istante della sua vita in cui Leopardi ha riconosciuto questa presenza. Critici e studiosi delle sue opere, come Giulio Augusto Levi, hanno normalmente identificato questo momento come quello più vero della sua coscienza e della sua vita interiore. Dunque, Leopardi non solo riconosce, come nell'inno ad Aspasia,che la realtà tocca l'uomo e lo rende cosciente di non essere definito dai suoi limiti e dai limiti del rapporto con il reale, con la donna o con la natura, e perciò gli appare come segno di qualcosa d'altro, ma arriva anche ad ammettere e a riconoscere questo qualcosa d'altro. Egli vi arriva in una poesia che i migliori critici pongono come il clou di tutto il suo itinerario. È una poesia mirabile, con cui io concludo quello che oggi sono stato capace o incapace di dire.

A un certo punto della sua vita, in un momento equilibrato e potente, Leopardi, sulla scia di quanto abbiamo detto commentando l'inno ad Aspasia, ha un'intuizione più chiara. Nell'inno ad Aspasia egli dice, in sintesi: "Tu, o donna, mi susciti qualcosa dentro, ed io amando quello che tu mi susciti dentro finisco per non amar più te, perché sei sproporzionata a quello che mi desti dentro"; ma a un certo punto, come dicevo, in un momento di equilibrio e di intensità particolari, Leopardi stende il suo inno non a questa o a quella donna, non a una delle tante donne di cui si era innamorato, ma alla Donna, col D maiuscolo, alla Bellezza, col B maiuscolo. È l'inno a quella amorosa idea che ogni donna gli suscitava dentro: idea amorosa che è intuita come una presenza reale.Credo che basti leggere questo canto per sentirsene conquistati. È intitolato Alla sua donna.

Cara beltà che amore
lunge m'inspiri
o nascondendo il viso,
fuor se nel sonno il core
ombra diva mi scuoti,
o ne' campi ove splenda               
[o bellezza che ti nascondi dietro il volto di una donna, o che «nascondendo il viso», mi appari nel sogno notturno, che mi desti l'attrattiva attraverso l'ombra della notte, oppure che ti nascondi dietro uno spettacolo della natura]

più vago il giorno e di natura il riso;
forse tu l'innocente
secol beasti che dall'oro ha nome,
or leve intra la gente
anima voli? o te la sorte avara
ch'a noi t'ascende, agli avvenir prepara?              
[dove sei Bellezza, Bellezza col B maiuscolo, che ti nascondi dietro il volto di una donna, dietro il fascino di un sogno notturno, o dietro uno spettacolo della natura? Forse tu sei vissuta nell'età dell'oro, di cui le fiabe narrano, o forse tu verrai nelle età future]

Viva mirarti omai
nulla spene m'avanza;
s'allor non fosse, allor che ignudo e solo
per novo calle a peregrina stanza
verrà lo sputo mio
.
[altro che negazione! Di vederti viva in quest’arido suolo non c'è più nessuna speranza, né d’incontrarti, o Bellezza, a meno che io t'incontri quando, per uno strano «novo calle», per uno strano sentiero, «a peregrina stanza», a una dimora ignota, il mio spirito verrà]

Già sul novello
aprir di mia giornata incerta e bruna,
[già quando ero piccolo, da ragazzo]
te viatrice in questo arido suolo
io mi pensai.
[da ragazzo io credevo di trovarti un giorno o l'altro fra le strade del mondo]

Ma non è cosa in terra
che ti somigli; e s'anco pari alcuna
ti fosse al volto, agli atti, alla favella,
saria, così conforme, assai men bella.

Fra cotanto dolore
quanto all'umana età propose il fato,
se vera e quale il mio pensier ti pinge,
alcun t'amasse in terra, a lui pur fora
questo viver beato:
[se io, che cerco di immaginarti, riuscissi a trattenere questa immagine che nella mia fantasia avviene, se io riuscissi a trattenerla sempre, sarei già felice anche in questo tentativo di immaginazione]

e ben chiaro vegg'io siccome ancora
seguir loda e virtù qual ne' prim'anni
l'amor tuo mi farebbe.
[se io tenessi desto l'amore a te, seguirei ancora lode e virtù e come quando ero ragazzo cercherei ancora la nobiltà della vita]

Or non aggiunse
il ciel nullo conforto ai nostri affanni;
e teco la mortal vita saria
simile a quella che nel cielo india.
[ma il destino, il cielo, non ci permette, in mezzo ai nostri affanni, di tener desta e viva questa immagine]

Per le valli, ove suona
del faticoso agricoltore il canto,
ed io seggo e mi lagno

del giovanile error che m'abbandona;
e per li poggi, ov'io rimembro e piagno
i perduti desiri, e la perduta
speme de' giorni miei; di te pensando,
a palpitar mi sveglio. E potess'io,
nel secol tetro e in questo aer nefando,
l'alta specie serbar; che dell'imago,
poi che del ver m'è tolto, assai m'appago.

Se dell'eterne idee
l'una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l'eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
[se tu, o Bellezza, sei una degli abitanti dell'iperuranio di Platone, del mondo ideale dove tutte le cose sono perfette, se sdegni che l'eterno senno sia rivestito di carne, se sdegni di portare gli affanni della nostra vita mortale e perciò te ne stai nel tuo limbo lassù]

o s'altra terra ne' superni giri
fra' mondi innumerabili t'accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t'irraggia, e più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d'ignoto amante inno ricevi.

È stato rileggendo questo brano che, quando avevo quindici anni, mi si è illuminato improvvisamente tutto Leopardi, perché questa è una sublime preghiera. Mi sono detto: che cosa è questa Bellezza col B maiuscolo, la Donna col D maiuscolo? È quel che il cristianesimo chiama Verbo, cioè Dio, Dio come espressione, Verbo appunto. La Bellezza col B maiuscolo, la Giustizia col G maiuscolo, la Bontà col B maiuscolo, è Dio.

Allora, non solo questa Bellezza non ha sdegnato rivestire l'«eterno senno» di carne umana, non solo non ha sdegnato di «provar gli affanni di funerea vita», ma è diventato Uomo ed è morto per l'uomo. Non l'uomo «ignoto amante» di lei, ma lei presente, ignota amante dell'uomo.

Il genio, come ho detto, è profeta, e infatti questa è una profezia dell'Incarnazione, nel senso letterale della parola.

Viva mirarti omai
nulla spene m'avanza;
[...] Già sul novello
aprir di mia giornata incerta e bruna,
te viatrice in quest'arido suolo
io mi pensai.

Questo è anche il messaggio cristiano: la Bellezza è diventata carne e ha provato «fra caduche spoglie / [...] gli affanni di funerea vita». «Venne fra i suoi e i suoi non l'hanno accolto»[2], dice il Vangelo di Giovanni: ignoto amante fra i suoi, venne a casa sua e i suoi non l'hanno riconosciuto.

«Se dell'eterne idee / l'una sei tu»: questo è il grido naturale dell'uomo, è il grido dell'uomo che la natura ispira, è il grido, la preghiera dell'uomo a che Dio gli diventi compagno ed esperienza, milleottocento anni dopo che ciò era accaduto.

Se dell'eterne idee
l'una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l'eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s'altra terra ne' superni giri
fra' mondi innumerabili t'accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t'irraggia, e più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d'ignoto amante inno ricevi.

In effetti, il messaggio cristiano è proprio in questa strofa di Leopardi. Il messaggio di Leopardi è, dunque, potentemente positivo, obiettivamente e non per una forzatura di me credente. È, infatti, esaltante, perché, essendo espressione del genio, non può essere che profezia.

Note al testo

[1] Cfr. Lucrezio, De rerum natura,vv 1133-1134 («... quoniam medio de fonte leporum surgit aliquid quod in ipsis floribus angat»).

[2] Cfr. Gv 1,11.