Poeti e scrittori in trincea durante la Grande Guerra. «Compagno, io non ti volevo uccidere», di Giovanni Fighera
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Giovanni Fighera pubblicato il 25/5/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (6/9/2015)
Partito volontario per la grande guerra, Ungaretti la affronta come soldato semplice, non in audaci operazioni o imprese militari come D’Annunzio, ma nell’esperienza traumatica della trincea, al fronte, prima quello italiano, poi quello francese. A Mariano, nel 1916, vede la sua stessa fragilità e il suo stesso ardore di vita e di amore nel nemico, suo fratello («Fratelli»). Nel bosco di Courton, nel 1918, le mitragliatrici tedesche abbattono i soldati nemici che cadono come le foglie in autunno dagli alberi («Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie»). La guerra porta ad uccidere l’altro uomo.
Ungaretti si ribella a questa violenza che distrugge i paesi lasciandone solo «qualche brandello di muro» e che ha trasformato il suo cuore in un cimitero, «il paese più straziato» («San Martino del Carso»).
Durante la Grande guerra l’esperienza della precarietà non annienta, anzi accentua il desiderio di infinito e di eternità del poeta. Ancora non credente, Ungaretti scrive: «Chiuso fra cose mortali// (anche il cielo stellato finirà)// perché bramo Dio?» («Dannazione» in L’allegria). L’uomo non si può accontentare soltanto di soddisfare il bisogno fisico, altrimenti sarebbe come la bestia. In «Perché?» (1916) Ungaretti scrive: «Ha bisogno di qualche ristoro/ il mio buio cuore disperso». E ancora nella poesia «Sereno» (1918) il poeta scrive: «Dopo tanta/ nebbia/ a una/ a una/ si svelano/ le stelle».
L’esperienza della morte nella prima raccolta porta Ungaretti ad amare ancora di più la vita. Così, nella notte trascorsa in trincea a fianco di un compagno morto, il poeta scrive «lettere piene d’amore», perché non è mai stato «tanto/ attaccato alla vita». (Veglia).
Pubblicata in ottanta copie nel 1916, la silloge viene, poi, ripubblicata prima con il titolo L’allegria di naufragi (1919) e poi L’allegria (1931). Nel passaggio da una raccolta all’altra la scrittura di Ungaretti è sempre più orientata nella direzione della scarnificazione del verso, dell’abolizione della punteggiatura, dell’espressione lapidaria, dell’uso del blanchissement (lo spazio bianco) per scolpire la poesia. Il verso, reso sempre più essenziale, si riduce talvolta ad una sola parola e diventa rivelatore del tentativo del poeta di andare al cuore delle cose e della vita, senza orpelli retorici e paludamenti che nascondano l’evidenza della realtà. Il titolo delle poesie è accompagnato dal riferimento al luogo e alla data di composizione (come in un diario).
Il senso religioso di Ungaretti è accentuato dall’esperienza della sofferenza, del dolore e della morte, più in generale dall’esperienza viva della guerra.
In Niente di nuovo sul fronte occidentale (1929) lo scrittore tedesco Erich Maria Remarque (1898-1970) documenta l’esperienza di un giovane soldato in trincea durante la Grande Guerra: «Compagno, io non ti volevo uccidere. Se tu saltassi un’altra volta qua dentro, io non ti ucciderei, purché anche tu fossi ragionevole. Ma prima tu eri per me solo un’idea, una formula di concetti nel mio cervello, che determinava quella risoluzione. Io ho pugnalato codesta formula. Soltanto ora vedo che sei un uomo come me. Allora pensai alle tue bombe a mano, alla tua baionetta, alle tue armi; ora vedo la tua donna, il tuo volto, e quanto ci somigliamo. Perdonami, compagno! Noi vediamo queste cose sempre troppo tardi. Perché non ci hanno mai detto che voi siete poveri cani al par di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire… Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi e queste uniformi, potresti essere mio fratello».
Come Ungaretti, Clemente Rebora è soldato sul Carso nel 1915. La sua esperienza durerà poco, perché sarà presto riformato in seguito ad un’esplosione ravvicinata. Nella poesia «Viatico» Rebora racconta forse la vicenda più tragica che sia mai stata descritta riguardo alla Grande Guerra: un soldato ferito è rimasto senza gambe, nella terra di nessuno. Tre soldati corrono in suo soccorso per portarlo in salvo e muoiono sotto il fuoco nemico. Ora il soldato non potrà che morire, lontano dall’abbraccio fraterno, in silenzio per evitare che altri diano la vita per lui. Il poeta scrive: «O ferito laggiù nel valloncello,/tanto invocasti/ se tre compagni interi/ cadder per te che quasi più non eri./ Tra melma e sangue/ tronco senza gambe/ e il tuo lamento ancora,/ pietà di noi rimasti/ a rantolarci e non ha fine l’ora,/affretta l’agonia,/ tu puoi finire,/ e nel conforto ti sia/ nella demenza che non sa impazzire,/ mentre sosta il momento/ il sonno sul cervello,/ lasciaci in silenzio/ grazie, fratello». In una lettera del 1925 in relazione ai suoi versi di guerra Rebora rivela che «quel tempo fu» per lui «un soccombere sotto la croce […]. E da allora cominciò» la sua conversione. La conversione vera e propria al cattolicesimo avviene nel 1929, fatto curioso perché in quello stesso periodo matura anche la conversione di Giuseppe Ungaretti. Ricevuta la prima comunione e poi la cresima, nel 1931 Rebora diventa novizio e nel 1936 è nominato sacerdote.