Morire di nulla si può. Ma vivere?, di Alessandro D’Avenia
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Riprendiamo da La stampa del 24/5/2015 un articolo di Alessandro D’Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (26/5/2015)
Il corpo di Domenico, fotografato, analizzato, dissezionato, con estrema freddezza, dovrebbe dirci perché non c’è più Domenico, in quel corpo. Si cerca di quantificare tutte le anomalie di quel cadavere: tasso alcolemico, tracce di feci, una canottiera come unico corredo funebre, pantaloncini e mutande accanto al corpo, non indossati (che ci fanno lì? come ci sono finiti?), lividi sulle braccia. Un corpo senza pace, proprio perché solo a quel corpo si può chiedere con freddezza la verità, che non riesce ad emergere da altri corpi, caldi. Una settimana dopo i funerali affollati dai compagni di scuola e straziati dalle richieste di verità di genitori e insegnanti, alla veglia per ricordare Domenico, i compagni di classe sono assenti. La solitudine fredda di questo corpo si rinnova e si aggiunge a quella dei minuti in cui non era ancora il corpo freddo, rinvenuto nelle prime luci dell’amaro mattino milanese.
Con la lente di ingrandimento analizziamo ogni centimetro di questa solitudine di pelle, ogni grammo di intestino e millilitro di sangue, perché la verità, che più spesso si annida tra i vivi piuttosto che nei frammenti dei morti, non ce la fa a spaccare lo strato di paura, omertà, confusione che la copre. La verità è sempre calda: quella che i genitori invocano per cominciare ad elaborare la loro perdita; quella che noi indaghiamo perché, senza colpevoli, aumenta il nostro smarrimento di fronte alla morte senza senso di un giovane; quella che altri provano a dimenticare sperando si possa riprendere a vivere come prima lasciando che i morti seppelliscano i loro morti.
Sangue, pelle, feci: a questo si riduce la vita di un ragazzo, caldissima sulla soglia della maturità, della patente, del voto, dell’università e di tutti i progetti che cominciava appena a disegnare. Di tutta questa vita sprecata rimangono grumi di sangue, carne e feci. Per uno scherzo finito male? Un malore? Un comportamento anomalo? Tutte queste cose insieme? Ipotesi che non bastano a ridare calore ad un corpo. Non bastano soprattutto a giustificare quello che temiamo di più: che si possa morire «per nulla».
Il nulla di uno scherzo, il nulla di un bicchiere di troppo, il nulla di un abbandono. Non si può morire di nulla. E se fosse proprio questo il senso di quel corpo abbandonato al vuoto e alla notte? Ricordarci che quando ci si affida al nulla, il nulla poi freddamente rapisce tutto: vita e verità, che siamo costretti a cercare, accanendoci su frammenti dal tasso troppo basso di vita e verità, per potercele restituire. L’autopsia di un corpo giovane, morto di nulla, restituisce ai vivi un referto paradossale: di nulla si può morire. Ma vivere?