«Con l’applicazione della pena capitale, si nega al condannato la possibilità della riparazione o correzione del danno causato; la possibilità della confessione, con la quale l’uomo esprime la sua conversione interiore; e della contrizione, portico del pentimento e dell’espiazione, per giungere all’incontro con l’amore misericordioso». Lettera del Santo Padre Francesco al Presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /03 /2015 - 14:16 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la Lettera del Santo Padre Francesco al Presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte, inviata il 20/3/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Magistratura, malavita ed educazione alla giustizia nella sezione Carità, giustizia e annunzio.

Il Centro culturale Gli scritti (22/3/2015)

Eccellentissimo Signore
Federico Mayor
Presidente della Commissione Internazionale contro la Pena di Morte

Signor Presidente,

Con queste parole, desidero far giungere il mio saluto a tutti i membri della Commissione Internazionale contro la Pena di Morte, al gruppo di paesi che la sostengono e a quanti collaborano con l’organismo che lei presiede. Desidero inoltre esprimere il mio ringraziamento personale, e anche quello degli uomini di buona volontà, per il loro impegno con un mondo libero dalla pena di morte e per il loro contributo volto a stabilire una moratoria universale delle esecuzioni in tutto il mondo, al fine di abolire la pena capitale.

Ho condiviso alcune idee su questo tema nella mia lettera all’Associazione Internazionale di Diritto Penale e all’Associazione Latinoamericana di Diritto Penale e Criminologia, del 30 maggio 2014. Ho avuto l’opportunità di approfondirle nel mio discorso di fronte alle cinque grandi associazioni mondiali dedite allo studio del diritto penale, della criminologia, e della vittimologia e le questioni penitenziarie, del 23 ottobre 2014. In questa occasione, desidero condividere con voi alcune riflessioni con cui la Chiesa possa contribuire allo sforzo umanistico della Commissione.

Il Magistero della Chiesa, a partire dalla Sacra Scrittura e dall’esperienza millenaria del Popolo di Dio, difende la vita dal concepimento alla morte naturale, e sostiene la piena dignità umana in quanto immagine di Dio (cfr. Gn 1, 26). La vita umana è sacra perché fin dal suo inizio, dal primo istante del concepimento, è frutto dell’azione creatrice di Dio (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2258), e da quel momento, l’uomo, la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, è oggetto di un amore personale da parte di Dio (cfr. Gaudium et spes, n. 24).

Gli Stati possono uccidere per azione quando applicano la pena di morte, quando portano i loro popoli alla guerra o quando compiono esecuzioni extragiudiziali o sommarie. Possono uccidere anche per omissione, quando non garantiscono ai loro popoli l’accesso ai mezzi essenziali per la vita. «Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”» (Evangelii gaudium, n. 53).

La vita, soprattutto quella umana, appartiene solo a Dio. Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Come insegna sant’Ambrogio, Dio non volle punire Caino con l’omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua morte (cfr. Evangelium vitae, n. 9).

In certe occasioni è necessario respingere proporzionalmente un’aggressione in corso per evitare che un aggressore causi un danno, e la necessità di neutralizzarlo può comportare la sua eliminazione; è il caso della legittima difesa (cfr. Evangelium vitae, n. 55). Tuttavia, i presupposti della legittima difesa personale non sono applicabili all’ambito sociale, senza rischio di travisamento. Di fatto, quando si applica la pena di morte, si uccidono persone non per aggressioni attuali, ma per danni commessi nel passato. Si applica inoltre a persone la cui capacità di recare danno non è attuale, ma che è già stata neutralizzata e che si trovano private della propria libertà.

Oggigiorno la pena di morte è inammissibile, per quanto grave sia stato il delitto del condannato. È un’offesa all’inviolabilità della vita e alla dignità della persona umana che contraddice il disegno di Dio sull’uomo e sulla società e la sua giustizia misericordiosa, e impedisce di conformarsi a qualsiasi finalità giusta delle pene. Non rende giustizia alle vittime, ma fomenta la vendetta.

Per uno Stato di diritto, la pena di morte rappresenta un fallimento, perché lo obbliga a uccidere in nome della giustizia. Dostoevskij scrisse: «Uccidere chi ha ucciso è un castigo incomparabilmente più grande del crimine stesso. L’assassinio in virtù di una sentenza è più spaventoso dell’assassinio che commette un criminale». Non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere umano.

La pena di morte perde ogni legittimità a motivo della difettosa selettività del sistema penale e di fronte alla possibilità dell’errore giudiziario. La giustizia umana è imperfetta, e il non riconoscere la sua fallibilità può trasformarla in fonte di ingiustizie. Con l’applicazione della pena capitale, si nega al condannato la possibilità della riparazione o correzione del danno causato; la possibilità della confessione, con la quale l’uomo esprime la sua conversione interiore; e della contrizione, portico del pentimento e dell’espiazione, per giungere all’incontro con l’amore misericordioso e risanatore di Dio.

La pena capitale è inoltre una pratica frequente a cui ricorrono alcuni regimi totalitari e gruppi di fanatici, per lo sterminio di dissidenti politici, di minoranze, e di ogni soggetto etichettato come «pericoloso» o che può essere percepito come una minaccia per il loro potere o per il conseguimento dei loro fini. Come nei primi secoli, anche in quello presente la Chiesa subisce l’applicazione di questa pena ai suoi nuovi martiri.

La pena di morte è contraria al significato dell’humanitas e alla misericordia divina, che devono essere modello per la giustizia degli uomini. Implica un trattamento crudele, disumano e degradante, come lo sono anche l’angoscia previa al momento dell’esecuzione e la terribile attesa tra l’emissione della sentenza e l’applicazione della pena, una «tortura» che, in nome del dovuto processo, suole durare molti anni, e che nell’anticamera della morte non poche volte porta alla malattia e alla follia.

In alcuni ambiti si dibatte sul modo di uccidere, come se si trattasse di trovare il modo di «farlo bene». Nel corso della storia, diversi meccanismi di morte sono stati difesi perché riducevano la sofferenza e l’agonia dei condannati. Ma non esiste una forma umana di uccidere un’altra persona.

Oggigiorno non solo esistono mezzi per reprimere il crimine in modo efficace senza privare definitivamente della possibilità di redimersi chi lo ha commesso (cfr. Evangelium vitae, n. 27), ma si è anche sviluppata una maggiore sensibilità morale rispetto al valore della vita umana, suscitando una crescente avversione alla pena di morte e il sostegno dell’opinione pubblica alle diverse disposizioni che mirano alla sua abolizione o alla sospensione della sua applicazione (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 405).

D’altro canto, la pena dell’ergastolo, come pure quelle che per la loro durata comportano l’impossibilità per il condannato di progettare un futuro in libertà, possono essere considerate pene di morte occulte, poiché con esse non si priva il colpevole della sua libertà, ma si cerca di privarlo della speranza. Ma, sebbene il sistema penale possa prendersi il tempo dei colpevoli, non potrà mai prendersi la loro speranza.

Come ho detto nel mio discorso del 23 ottobre scorso, la pena di morte implica la negazione dell’amore per i nemici, predicata nel Vangelo. «Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà».

Cari amici, vi incoraggio a continuare con l’opera che state realizzando, poiché il mondo ha bisogno di testimoni della misericordia e della tenerezza di Dio.

Mi congedo affidandovi al Signore Gesù, che nei giorni della sua vita terrena non volle che ferissero i suoi persecutori in sua difesa, — «Rimetti la spada nel fodero» (Mt 26, 52) — fu catturato e condannato ingiustamente a morte, e s’identificò con tutti i carcerati, colpevoli o meno: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 36). Lui, che di fronte alla donna adultera non s’interrogò sulla sua colpevolezza, ma invitò gli accusatori a esaminare la propria coscienza prima di lapidarla (cfr. Gv 8, 1-11), vi conceda il dono della saggezza, affinché le azioni che intraprenderete a favore dell’abolizione di questa pena crudele, siano opportune e feconde.

Vi chiedo di pregare per me.

Cordialmente.

Dal Vaticano, 20 marzo 2015
Francesco