Il marxismo e la Chiesa. File audio ed antologia di testi di una lezione tenuta da Andrea Lonardo presso la chiesa di Santa Bibiana

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /02 /2015 - 14:19 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito il file audio di una lezione di Andrea Lonardo su Il marxismo e la Chiesa tenuta presso la chiesa di Santa Bibiana il 14/2/2015. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Il novecento: il comunismo nella sezione Storia e filosofia. Per ulteriori file audio vedi la sezione Audio e video. Gli audio dei precedenti incontri sono disponibili ai link:

Il Centro culturale Gli scritti (22/2/2015)

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Riproducendo "201502 marxismo chiesa".


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1/ Madeleine Delbrêl a Roma, il luogo in cui ci troviamo

1952 2° viaggio
5 maggio Lunedì, partenza per Roma, 2° pellegrinaggio (lampo), da sola, arrivata martedì mattina del 6 maggio alla stazione Termini, tragitto di 24 h. Père Guéguen non riesce a incontrarla alla stazione.
6 maggio dalle 8h45: preghiera per l’unità della Chiesa alla basilica di San Pietro fino a sera, 22h40 (orario del treno) [AMD IIIc 520510_Gueguen pubblicato OC t. II p. 298-300]
7 maggio Ritorno a Parigi alla fine della giornata
8 maggio Nota sul suo viaggio lampo: «Ho pregato a cuore perso… e soprattutto a perdita di cuore». 4 pagine dattilografa recto-verso [AMD I 24] Edito in NAGR, ed 1966, p. 137-139; 2° éd. tascabile 1971, p. 126-128.

Da A. Sicari, in “Madeleine Delbrêl (1904-1964)”, in Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano, 2000 Nel 1952, sorprendendo tutti, Madeleine decide un viaggio lampo a Roma che per lei è “una specie di sacramento di Cristo-Chiesa”. È un vero pellegrinaggio, volutamente faticoso, che ella intraprende perché “certe grazie non si chiedono né si ottengono, per la Chiesa, se non a Roma”. Due giorni e due notti in treno, tra andata e ritorno, per fermarsi nella città eterna dodici ore soltanto: le passa quasi tutte a san Pietro, pregando “a perdita di cuore”. Racconterà poi: “Mi è apparso fino a che punto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse riconosciuta da tutti gli uomini come colei che li ama. Pietro: una pietra alla quale è chiesto di amare. Ho compreso quanto amore bisognerebbe far passare nei segni della Chiesa”. Quando torna a Ivry viene a sapere che un amico prete, residente a Roma, venuto a conoscenza del suo viaggio, le aveva addirittura ottenuto una udienza dal papa, ma poi non era riuscito a contattarla e il papa aveva atteso invano.

da Madeleine Delbrêl, Insieme a Cristo per le strade del mondo. Corrispondenza 1942-1952, Gribaudi, Milano 2008.
Padre Jean Guéguen, Oblato di Maria Immacolata, aspettava Madeleine il 6 mattina alla stazione Termini, a Roma, con un biglietto per l’udienza con Pio XII. Di ritorno a Ivry, Madeleine troverà una sua lettera. Francette Rodary, componente delle Équipe, lo conosceva e aveva avviato i contatti fra i due.

Lettera del 10 maggio 1952 a padre J. Guéguen
Ivry, 10 maggio 1952
Reverendo Padre,
La sua lettera è arrivata questo pomeriggio. La mia riconoscenza per lei è pari solo alla confusione nella quale mi trovo. La cosa migliore è senza dubbio farle la cronaca del mio pellegrinaggio.
Vivo da 18 anni in un gruppo femminile, laico, anche se ciascuna di noi si è donata completamente a Cristo per cercare di viverlo e di essere insieme a lui in mezzo a coloro che non lo conoscono.
Abbiamo creato in questo modo diverse Équipe di vita comune. Non essendo specializzate per un ambiente determinato, e poiché cerchiamo di essere dei punti di incontro, siamo in contatto non solamente con dei non credenti ma anche con molti cristiani impegnati in maniera diversa. Questo ci permette di toccare il cuore delle difficoltà degli uni e degli altri, le loro grazie e i loro punti critici, i loro contrasti e le loro complementarietà.
In seguito a un certo numero di fatti avvenuti negli ultimi mesi, ho provato il grande desiderio di recarmi a Roma. Roma rappresenta per me una sorta di sacramento del Cristo-Chiesa e mi sembrava che certe grazie per la Chiesa non potessero essere chieste né ottenute se non a Roma. Desideravo compiere questo passo in totale spirito di fede: passare una giornata in San Pietro e semplicemente fermarmi lì a pregare.
Dato che il denaro per un’andata e ritorno mi era capitato tra le mani in un modo più che strano, ho fatto immediatamente il biglietto. È stato allora che Francette le ha scritto. Non pensavo di dover chiedere un’udienza perché non vedevo quale diritto potessi averne! Ero già contenta di poter ottenere grazie a lei le indicazioni per una messa all’ora abbastanza tarda del mio arrivo.
Quando sono partita, la sua lettera non era ancora arrivata.
Sono proprio arrivata il 6 maggio alle 8.45... ma non pensavo che qualcuno mi stesse aspettando alla stazione! Sono andata direttamente a San Pietro. Ne sono uscita due o tre volte per mangiare e fare due passi lì vicino. A parte questo, sono rimasta in quello che mi sembrava essere il miglior luogo di preghiera: l’altare del Papa e la tomba di San Pietro.
Ho ripreso il treno alle 22.40, non sospettando minimamente dei problemi che le avevo causato... e del fatto che avrei fatto «aspettare il Santo Padre», cosa che mi sembrava semplicemente impensabile.
Non sapendo quale sia il comportamento da tenere con lui in condizioni normali, ancora meno lo so in questo frangente. Mi sembra che la cosa migliore sia di credere che egli sia prima di tutto il Padre e agire secondo la semplicità di questa fede. Per questo motivo le invio una lettera per lui, di riconoscenza e di scuse: se non fosse opportuno fargliela pervenire, non la faccia pervenire. Mi rimetto completamente a lei.
Voglia credere, Reverendo Padre, a tutta la mia più profonda gratitudine e a tutto il mio rispetto in Cristo.
Madeleine Delbrêl
Le invio la lettera in altro plico. 

Lettera del 10 maggio 1952 a papa Pio XIICopia manoscritta conservata da Madeleine.
Signorina Madeleine DELBRÊL
11, rue Raspail
Ivry, Senna
Santo Padre,
Condividendo da diciotto anni la vita di una popolazione non solo senza fede, ma senza memoria cristiana; legata in modo profondo a quello che la Chiesa, in Francia, porta di «nova» e di «vetera», persuasa che la nostra fedeltà esiga uno slancio missionario sempre più ardente e allo stesso tempo un radicamento sempre più forte nell’obbedienza, ho sentito il desiderio di recarmi a Roma, a nome di tutti noi, per domandare a Cristo-Chiesa questa duplice grazia.
Affinché si trattasse di un atto di fede e nient’altro, sono arrivata a Roma al mattino, sono andata dritta alla Tomba di San Pietro, davanti all’altare dal quale celebra le sue Messe; là mi sono trattenuta tutta la giornata per ripartire la sera alla volta di Parigi.
Non pensavo di avere qualche diritto di chiedere un’udienza a Vostra Santità.
Alcuni amici che sapevano del mio viaggio hanno avuto la grandissima bontà di chiederla per me.
A causa di complicazioni pratiche, solamente ieri sera ho saputo, tramite una lettera alla quale era stato accluso il biglietto d’udienza, che tale udienza Lei l’aveva accordata,... e che io, io non c’ero.
Non so quale sentimento sia più forte in me: la riconoscenza o il dispiacere. Quello che non mi sembrava possibile era di non esprimere a lei né l’una né l’altra.
Forse non è molto normale scrivere in questa maniera al Sommo Pontefice, ma quando un Padre ha aspettato suo figlio e questo figlio non è arrivato, questi non sarebbe un figlio se non scrivesse a suo Padre esprimendogli la sua gratitudine e le sue scuse.
Ed è presentando le mie scuse, Santo Padre, che chiedo a Vostra Santità di volermi benedire insieme a tutti coloro di cui è pieno il mio cuore.
Madeleine Delbrêl 

da 30giorni (n. 3/2005), cardinale Paul Poupard ed intitolato “Pietro e le pietre della Città eterna”
[...] Più vicina a noi, Madeleine Delbrêl, convertita dall’ateismo e testimone dell’amore di Dio nel cuore della città di Ivry, pagana e marxista, un giorno del maggio 1952 sente il bisogno imperioso di venire a Roma a pregare sulla tomba di san Pietro.
Le si obietta che la cosa costa un po’ di più di un’ora di preghiera. E lei dichiara al suo gruppo scettico che ci andrà, se il prezzo del viaggio le fosse arrivato in maniera inattesa…, cosa che avviene, sotto forma di un biglietto vincente della lotteria nazionale offertole da un’amica latinoamericana!
A prezzo di due giorni e due notti di treno, trascorre la sua giornata di dodici ore in preghiera a San Pietro: «Davanti all’altare papale e sulla tomba di san Pietro, ho pregato col cuore perduto… e soprattutto per perdere il cuore. Non ho riflettuto né chiesto “lumi”, non ero là per quello. Eppure tante cose mi si sono imposte e restano in me. Innanzitutto: Gesù ha detto a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra costruirò la mia Chiesa”. Lui doveva diventare una pietra e la Chiesa doveva essere costruita. Gesù che ha parlato tanto della potenza dello Spirito, della sua vitalità, quando ha parlato della Chiesa ha detto che l’avrebbe costruita su quell’uomo che sarebbe diventato come una pietra. È Cristo che ha pensato che la Chiesa non sia solo qualcosa di vivente, ma qualcosa di costruito.
Secondo: ho scoperto i vescovi… Ho scoperto durante il mio viaggio, e a Roma, l’immensa importanza dei vescovi nella fede e nella vita della Chiesa. “Vi renderò pescatori di uomini”. Mi è sembrato che di fronte a quella che chiamiamo autorità noi agiamo a volte come dei feticisti, a volte come dei liberali. Noi siamo sotto il regime delle autorizzazioni, non dell’autorità. Quando si parla dell’obbedienza dei santi non si capisce, credo, quanto essa sia vicina, nel corpo della Chiesa, a quella lotta interna degli organismi viventi, nei quali l’unità si realizza attraverso delle attività, delle opposizioni.
Infine ho anche pensato che, se Giovanni era “il discepolo che Gesù amava”, è a Pietro che Gesù ha chiesto: “Tu mi ami?”, ed è stato dopo le sue affermazioni d’amore che gli ha affidato il gregge. Ha detto anche tutto ciò che c’era da amare: “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.
Mi è stato evidente quanto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse conosciuta dagli uomini, da tutti gli uomini, come uno che li ama. Pietro: una pietra a cui si chiede di amare. Ho capito quanto amore bisognerebbe far passare in tutti i segni della Chiesa». [...] 

-11 viaggi pellegrinaggi a Roma dormendo presso la casa dell’ospedale San Carlo di Nancy, presso la casa OMi che gli è di fronte,  presso l’Hôtel Clodio via Santa Lucia, presso l’ hôtel Alicorni in via Alberigo. Incontri con Pio XII, con mons. Pierre Veuillot, a quell’epoca assistente del Sostituto per Gli affari straordinari della Segreteria di Stato mons. Giovanni Battista Montini con il quale lavora a lungo, e con mons. Montini stesso

2/ Madeleine Delbrêl

Liturgia laica di Madeleine Delbrêl, da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990

Tu ci hai condotto stanotte in questo bar che ha nome "chiaro di luna".
Volevi esserci Tu, in noi,
per qualche ora, stanotte. Tu hai voluto incontrare,
attraverso le nostre povere sembianze,
attraverso il nostro miope sguardo,
attraverso i nostri cuori che non sanno amare,
tutte queste persone venute ad ammazzare il tempo.

E poiché i Tuoi occhi si svegliano nei nostri
E il tuo Cuore si apre nel nostro cuore,
noi sentiamo il nostro labile amore aprirsi in noi
come una rosa espansa,
approfondirsi come un rifugio immenso e dolce
per tutte queste persone,
la cui vita palpita intorno a noi.

Allora il bar non è più un luogo profano,
quell'angolo di mondo che sembrava voltarti le spalle.
Sappiamo che, per mezzo di Te, noi siamo diventati
la cerniera di carne,
la cerniera di grazia,
che lo costringe a ruotare su di sé ,
a orientarsi suo malgrado
e in piena notte
verso il Padre di ogni vita.

In noi si realizza il sacramento del Tuo amore.
Ci leghiamo a Te
Con tutta la forza della nostra fede oscura,
ci leghiamo a loro
con la forza di questo cuore che batte per Te,
Ti amiamo,
li amiamo,
perché si faccia di noi tutti una cosa sola.

In noi, attira tutto a Te…
Attira il vecchio pianista,
dimentico del posto in cui si trova,
che suona soltanto per la gioia di suonare;
la violinista che ci disprezza e offre in vendita
ogni colpo d'archetto,
il chitarrista e il filarmonicista
che fan della musica senza saperci amare.
Attira quest'uomo triste, che ci racconta storie cosiddette gaie.
Attira il bevitore che scende barcollando
la scala del primo piano;
attira questi esseri accasciati, isolati dietro un tavolo
e che son qui soltanto per non essere altrove;
attirali in noi perché incontrino Te,
Te cui solo è il diritto di aver pietà.
Dilataci il cuore, perché vi stiano tutti;
incidili in questo cuore,
perché vi rimangano scritti per sempre.

Tu fra poco ci condurrai
Sulla piazza ingombra di baracconi da fiera.
Sarà mezzanotte o più tardi.
Soli resteranno sul marciapiede
Quelli per cui la strada è il focolare,
quelli per cui la strada è la bottega.
Che i sussulti del Tuo cuore affondino i nostri
Più a fondo dei marciapiedi,
perché i loro tristi passi
camminino sul nostro amore
e il nostro amore
gl'impedisca di sprofondare più a fondo
nello spessore del male.

Resteranno, intorno alla piazza,
tutti i mercanti di illusioni,
venditori di false paure, di falsi sports,
di false acrobazie, di false mostruosità.
Venderanno i loro falsi mezzi di uccidere la noia,
quella vera, che rende simili tutti i volti scuri.
Facci esultare nella Tua verità e sorridere loro
Un sorriso sincero di carità.
Più tardi saliremo sull'ultimo metrò.
Delle persone vi dormiranno.
Porteranno impresso su di sé
Un mistero di pena e di peccato.
Sulle banchine delle stazioni quasi deserte,
anziani operai,
deboli, disfatti, aspetteranno che i treni si fermino
per lavorare e riparare le vie sotterranee.

E i nostri cuori andranno sempre dilatandosi,
sempre più pesanti
del peso di molteplici incontri,
sempre più grevi del Tuo amore,
impastati di Te,
popolati dai nostri fratelli, gli uomini.
Perché il mondo
Non sempre è un ostacolo a pregare per il mondo.
Se certuni lo devono lasciare per trovarlo
E sollevarlo verso il cielo,
altri visi devono immergere
per levarsi
con lui
verso il medesimo cielo.
Nel cavo dei peccati del mondo
Tu fissi loro un appuntamento:
incollati al peccato,
con Te essi vivono
un cielo che li respinge e li attira.
Mentre Tu continui
A visitare in loro la nostra scura terra,
con Te essi scalano il cielo,
votati a un'assunzione pesante,
inguaiati nel fango, bruciati dal Tuo spirito,
legati a tutti,
legati a Te,
incaricati di respirare nella vita eterna,
come alberi con radici che affondano.

Madeleine Delbrêl (1904-1964), da Antonio Maria Sicari, Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano, 2000, pp. 127-145
Il secolo XX, appena trascorso, si aprì con uno slogan molto triste: «Dio è morto», aveva lasciato detto Nietzsche, credendo di annunciare la nascita di un uomo finalmente «superiore».
Ma, già nei primi vent'anni, due terribili sventure (la prima guerra mondiale che provocò nove milioni di morti e un'epidemia che ne uccise altri ventidue milioni) mostravano che era l'uomo che continuava a morire, e spesso in maniera assurda.
Nel 1921 Madeleine Delbrêl ha diciassette anni, e scrive un tema di un impressionante radicalismo che inizia così: «Dio è morto. Ma, se ciò è vero, bisogna avere la lucidità di non vivere più come se Dio esistesse ancora». La ragazza è spietata: se Dio è morto, allora a dominare è la morte e bisogna prenderne atto coraggiosamente. Scrive: «Io sono stupita dalla generale mancanza di buon senso». Secondo lei, i rivoluzionari «sono interessanti, ma hanno capito male il problema», perché vogliono un mondo nuovo senza pensare che, poi, bisogna comunque abbandonarlo. Gli scienziati «sono un po' bambini», perché sperano, con le loro ricerche e i loro ritrovati, di riuscire a debellare la morte, e invece riescono ad uccidere soltanto alcuni modi di morire: «la morte, per quanto la riguarda, sta benissimo». I pacifisti «sono simpatici, ma sono deboli nel calcolo» perché, se anche fossero riusciti ad impedire la prima guerra mondiale del 1915-1918, tutti i morti allora risparmiati sarebbero poi deceduti infallibilmente entro il 1998. La gente perbene «manca di modestia», perché vuol migliorare la vita senza accorgersi che «più la vita è buona, più diventa duro morire». Gli innamorati «sono radicalmente illogici e restii a ragionare»: si promettono amore eterno, ma diventano «sempre più infedeli» perché, ad ogni giorno che passa, si avvicinano sempre di più all'estremo abbandono. E annota: «Io non vorrei restare vicino, da vecchia, all'uomo che dovessi amare: vedrebbe cadere i miei denti, raggrinzirsi la mia pelle, e il mio corpo mutarsi in un otre o in un fico secco». Le mamme poi «sarebbero pronte ad inventare la felicità», pur di assicurarla ai loro figli, i quali, però, se anche non diventeranno «carne da cannone», diventeranno pur sempre «carne da morte». Perciò conclude: «Io non voglio avere bambini. È già abbastanza che segua tutti i giorni in anticipo i funerali dei miei genitori».
Per Madeleine insomma le uniche persone serie sono gli artigiani e gli artisti, che fanno cose che durano come le sedie, i quadri, le poesie... Poi ci sono quelli «che ammazzano il tempo, aspettando che il tempo ammazzi loro...». «Io sono una di queste...», conclude. Così si presenta dunque Madeleine a diciassette anni: il componimento, che abbiamo dovuto sintetizzare, è scritto magnificamente: meriterebbe una lettura integrale, tanto è ricco di annotazioni geniali, di sorrisi addolorati, di lucida disperazione. S'intuisce una sconfinata voglia di vivere e una inesauribile voglia di amare, ma in un cuore che ha imparato di non dover attendere nulla, di non aver nemmeno il diritto di dire «addio!», dato che la parola contiene già quel Nome di un morto («Dio!») che ha trascinato via tutto con sé.
«Anche le parole Dio si è portato via», dice proclamando l'ultima evidenza, come se scoppiasse a piangere. E conclude il suo tema: «Si può dire a un morente, senza mancare di tatto, “buongiorno” o “buonasera”? Allora gli si dice: arrivederci” o “addio”, ... finché non si sarà imparato a dire: “a non vederci più in alcun luogo...”, “al nulla assoluto”». Che ne sarà di una ragazza così? Madeleine ha una vitalità prorompente e non pensa certo a lasciarsi andare.
Con le amiche più care, in un bel giorno di primavera, sceglie «la sua vocazione»: «restare sempre giovani, qualunque cosa accada, per quanti anni passino!...». A diciott'anni s'innamora: lui, Jean, è alto, sportivo, serio, pieno di interessi, intellettualmente e politicamente impegnato ed evidentemente dotato di una profonda vita spirituale. Fanno coppia fissa e tutti dicono che sembrano nati l'uno per l'altra... Improvvisamente il ragazzo scompare: sconvolta, Madeleine viene a sapere che Jean è entrato nel noviziato dei domenicani, ed è una separazione assoluta. Non capisce. Il suo anticlericalismo si riaccende violento, e per di più anche in famiglia la sofferenza dilaga: il papà di Madeleine — ferroviere e poeta mancato — diventa cieco e va gridando la sua angoscia perfino per le strade, per le quali si trascina disperato come un barbone. «In quel momento», confessa, «avrei dato tutto l'universo, pur di sapere che cosa ci facevo dentro!». Il problema della fede si pone, ma non perché ella sia in cerca di conforto. Scrive: «Cento mondi, ancora più disperati di quello in cui vivevo, non mi avrebbero fatto vacillare, se mi avessero proposto la fede come consolazione». A perseguitarla è, invece, il ricordo della bella umanità di Jean e di altri amici conosciuti in quel periodo felice: «Mi era accaduto l'incontro con parecchi cristiani né più vecchi, né più stupidi, né più idealisti di me, che vivevano la mia stessa vita, discutevano quanto me, danzavano quanto me. Anzi, avevano al loro attivo alcune superiorità: lavoravano più di me, avevano una formazione scientifica e tecnica che io non avevo, convinzioni politiche che io non avevo... Parlavano di tutto, ma anche di Dio che pareva essere a loro indispensabile come l'aria. Erano a loro agio con tutti, ma – con una impertinenza che arrivava fino a scusarsene – mescolavano in tutte le discussioni, nei progetti e nei ricordi, parole, idee, messe a punto di Gesù Cristo. Cristo avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe sembrato più vivo...». E tra tutti quei cristiani che l'hanno costretta a pensare, un posto di rilievo l'ha certamente quel Jean che ha considerato Dio talmente reale da lasciare lei. La ragazza diciassettenne che aveva formulato in maniera durissima e consequenziale il suo ateismo è ora una ventenne costretta a compiere un percorso inaspettato. Prima guardava il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio e, se si faceva qualche domanda, essa suonava così: «Come si conferma l'inesistenza di Dio?»; ora la domanda diventa: «Dio potrebbe forse esistere?». Ma capisce di conseguenza che, se cambia la domanda, deve cambiare anche il suo atteggiamento interiore.
Ricorda allora che «in occasione di un baccano qualsiasi, era stata ricordata Teresa d'Avila che consigliava di pensare in silenzio a Dio cinque minuti ogni giorno». Ed ecco la conclusione: «Scelsi quel che mi sembrava tradurre meglio il mio cambiamento di prospettiva: decisi di pregare!». Un simile racconto di conversione tocca delle notevoli profondità pedagogiche. Madeleine non prega perché si è convertita, prega perché quello è l'unico atteggiamento possibile ed onesto, una volta accettata l'ipotesi che Dio potrebbe esistere. Il suo  non è il risultato di una convinzione acquisita (e quindi, in qualche modo, necessitato), ma il regalo anticipato a un Dio che, se esiste, è Tutto. Il Tutto merita tutto, anche se si ha soltanto il presentimento del suo esistere. E Madeleine non prega solo cinque minuti, ma affonda nella preghiera. E lo fa in ginocchio perché vuole essere sicura di farlo realmente, anche col corpo e non soltanto con le idee. Ecco la sua conversione: si è gettata di colpo nel centro della fede; ha abbracciato impetuosamente Dio e si è lasciata abbracciare, senza nemmeno esser certa che le braccia di Lui, nel buio, fossero protese. Si è gettata e si è trovata immersa nella luce, nel fuoco. Più tardi userà volentieri il termine: «abbagliamento», e dirà: «poi, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando “ho creduto” che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può amare come si ama una persona». Quasi echeggiando sant'Agostino, dialogherà con l'Altissimo, colma di stupore: «Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo. Ma, quando ho saputo che vivevi, t'ho ringraziato d'avermi fatto vivere, t'ho ringraziato per la vita del mondo intero». Dopo una simile esperienza, sembra esserci una sola vocazione possibile: vivere in modo che la preghiera diventi tutta la vita. E infatti Madeleine pensa subito di entrare al Carmelo. Ma si accorge che è lo stesso Dio a tenerla legata a una situazione familiare irrisolvibile, dato che il papà sprofonda sempre più nelle sue angosce e la mamma è al limite della resistenza. Ma se il Carmelo non è possibile, allora ne segue inevitabilmente che il mondo dovrà diventare il suo Carmelo, il suo monastero. Comincia imbevendosi degli scritti di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, poi frequenta la sua parrocchia come una cristiana qualsiasi, e qui le viene incontro, come un dono, un prete straordinario: Padre Lorenzo, «un prete che voleva essere soltanto prete» e che «insegnava a vivere il Vangelo dappertutto» facendolo diventare «una chiamata attuale, una chiamata personale» per ogni ascoltatore. Madeleine lo definiva: «il Buon Samaritano della Parola», perché la donava come guarigione e salvezza a tutti coloro che incontrava per strada. Si faceva compagno a tutti, ma poi li educava, uno per uno, a saper «restare soli col Signore Gesù» per lasciare Dio libero di agire a suo piacimento. In quei primi anni di “vita cristiana” ella è appassionata di letteratura: pubblica saggi e libri di poesie (ottenendo anche un prestigioso premio letterario), che hanno a tema ciò che è “umilmente doloroso”, ciò che si muove a fatica nelle strade desolate della città. Ma ecco che padre Lorenzo le propone di impegnarsi nel movimento scout, quanto di più lontano ella poteva immaginare dalle sue passate preoccupazioni intellettuali e artistiche.
Deve imparare giochi, canti, esercizi fisici per guidare la sua squadriglia e dimostra una vivacità instancabile e un'intelligenza pedagogica così sicura che ben presto le affidano l'educazione delle ragazze più grandi, destinate ad essere responsabili, e la sua parola d'ordine è «gioia».
Dallo scoutismo, con una ventina di ragazze, passa poi a formare un gruppo detto «Carità», nel ricordo dell'impresa di san Vincenzo de' Paoli che aveva dato questo nome alle comunità di donne che si prendevano cura dei malati e degli emarginati.
Ha un solo progetto chiaro: «Essere volontariamente di Dio, quanto una creatura umana può volere appartenere a colui che ama. Essere volontariamente proprietà di Dio, nella stessa maniera totale, esclusiva, definitiva, pubblica con cui lo diviene una religiosa che si consacra a Dio». In altre parole: ciò che di più profondo c'è nel sacramento del matrimonio e ciò che di più totale c'è nella vocazione religiosa, ella vuole viverlo nel mondo.
A tale scopo, la scelta della verginità è indiscutibile (e ciò rende necessario anche un orientamento contemplativo), ma ella vivrà tutto ciò senza allontanarsi dal mondo
. Il suo progetto è di «far calare i consigli evangelici nella vita laica». Siamo in un tempo in cui l'accostamento di questi termini sembra ancora strano; non esistono ancora i moderni «istituti secolari» e non si immagina nemmeno la possibilità di una vita comune tra cristiani laici. Madeleine sceglie perciò un lavoro che la possa tenere a stretto contatto con i poveri, assoggettandosi agli studi necessari per divenire assistente sociale. Nel 1930 ciò significa essere destinate ai bassifondi delle città dove si ammassano poveri e operai, il vero proletariato, soggetto a sfruttamento, che pone nel marxismo le proprie speranze di riscatto. Così una decina di ragazze - senza voti religiosi, senza abito particolare e senza difese istituzionali - decidono di partire per la periferia di Parigi con l'intento di vivere assieme, lavorando in mezzo alla gente più povera, mettendo tutto in comune, senza avere alcuna proprietà (né personalmente né assieme). Formano una comunità «casta, povera e obbediente» che ha come unica regola l'approfondimento comunitario del Vangelo, e come unica struttura stabile il riferimento ad una responsabile. Secondo Madeleine, il gruppo deve essere così semplice e umile, nel normale tessuto della Chiesa, che quasi non bisognerebbe nemmeno vederlo.
Con un paragone dolcissimo, scrive: «Il mio sogno è che il nostro gruppo sia nella Chiesa come il filo di un vestito. Il filo tiene assieme i pezzi e nessuno lo vede, se non il sarto che ce l'ha messo. Se il filo si vede, allora il vestito è riuscito male». Prima che si riesca a realizzare l'impresa, il gruppetto si assottiglia molto: di dieci ragazze, ne restano tre. A Ivry (una cittadina vicino Parigi) offrono loro un «Centro di azione sociale» e le tre coraggiose fissano la loro partenza per il 15 ottobre 1933. La festa di santa Teresa d'Avila è stata scelta appositamente, perché è un monastero «nuovo» quello che vanno a fondare: è una vita contemplativa «nuova» quella che le attende. Partono con poche suppellettili e una statua della Madonna tra le braccia. Certi resoconti sulla situazione a Ivry, risalenti a quegli anni, ci fanno capire bene a cosa vanno incontro. Gli operai lavorano circa dodici ore al giorno, privi di ogni sicurezza sociale e sanitaria, oltreché di ogni previdenza; sono mal pagati, ammassati in alloggi fatiscenti. Le donne sono costrette anch'esse ad andare in fabbrica perché la famiglia possa sopravvivere. La salute è un lusso. Negli anni '40, nel quartiere più industrializzato della città, su quindicimila abitanti, se ne conteranno ancora 2000 ammalati di tubercolosi. L'alcoolismo diffuso è assieme una piaga e un rifugio. La Chiesa serve solo agli anziani; gli altri la frequentano soltanto per battesimi, matrimoni e funerali.
Di fatto Ivry è diventata “la capitale politica del Partito Comunista Francese”, sede del segretario generale del partito. Sugli edifici pubblici non c'è il tricolore, ma la bandiera rossa. I muri sono tappezzati di manifesti che invitano a film sovietici, conferenze ideologiche, battesimi civili, pasque rosse, e simili. L'amministrazione comunale - in fatto di alloggi e impieghi - privilegia gli iscritti al partito. Ci si saluta col pugno alzato, e i preti non si meravigliano troppo se per strada i monelli li prendono a sassate. Perfino i ragazzi nel gioco o nelle sassaiole - per marcare con chiarezza il solito antagonismo di squadra - attribuiscono agli avversari il nome di «preti», mentre tutti vorrebbero appartenere alla squadra dei «compagni». Madeleine è talmente estranea a un tale ambiente da ignorare perfino il significato della bandiera rossa. L'unica cosa che sa è che ha, davanti a sé, persone «non credenti e povere». Ciò che le tre ragazze desiderano - nella loro estrema e volontaria povertà - è «vivere gomito a gomito» con la gente, senza dissociarsi in nulla, se non nell'amore e nella fede. Rinunciano alla loro divisa da scout, quando s'accorgono che infastidisce e allontana gli altri, e poi fanno ciò che sanno fare. Madeleine è assistente sociale (o meglio: sta ancora studiando per diventarlo), una delle due compagne è infermiera, l'altra è maestra d'asilo. Cominciano a partecipare alle attività parrocchiali, ma s'accorgono che questo le emargina. Perciò vanno in mezzo alla gente, sfidando le ostilità. Fanno quello che possono, ma con fantasia tutta femminile. Un giorno che una famiglia povera le ha restituito in malo modo il pacco-dono (di scarso valore, del resto), Madeleine, per farsi perdonare, si presenta con un mazzo di rose e lo mette in braccio a una povera donna che non ne ha mai ricevute in vita sua... E il capo famiglia, arrabbiato militante comunista, le dice commosso: «Se la carità è questa, allora voglio proprio parlare di carità…”. Ed ecco che padre Lorenzo viene fortunatamente nominato parroco a Ivry e i cristiani, prima asserragliati in difesa, si mobilitano. La questione dei rapporti tra cattolici e comunisti non è teorizzata o discussa da Madeleine, ma risolta di schianto in base a un semplicissimo principio: «Dio non ha mai detto: Amerai il prossimo tuo come te stesso, eccetto i comunisti», perciò c'è solo da accogliere l'evidenza: i comunisti sono di fatto «il suo prossimo» più immediato. Perciò non li evita, come raccomandano i benpensanti, ed è pronta a riconoscere quel che c'è di buono - come aspirazione alla giustizia e dedizione reciproca - in quei rudi militanti della prima ora. E perfino pronta a un dialogo con loro quando si tratta di assistere i disoccupati. Si ferma soltanto quando si scontra col problema della violenza. I comunisti le spiegano che ci sono violenze così terribili e solidificate che non possono essere estirpate se non passando attraverso una violenza di segno contrario. Il Vangelo invece le dice di amare ogni uomo e tutti gli uomini senza alcuna eccezione. Madeleine legge e rilegge il Vangelo, e la contraddizione le appare sempre più evidente e irrisolvibile, ma è solo il primo colpo assestato alla sua istintiva generosità e voglia di giustizia. L'altro colpo è ancora più grave: i testi-guida del partito - che ella legge attentamente - insegnano che l'ateismo è essenziale alla lotta operaia, e che inculcarlo nelle anime dei giovani è lo scopo primario dell'educazione. «In quel tempo», racconta, «sussultai di paura per Dio, mio bene». E fu così che tra lei e il marxismo si scavò «un abisso incolmabile»: con il marxismo, non con i marxisti. La tentazione di cedere anche all'ideologia era stata però fortissima, perché le si era presentata ammantata d'amore per gli uomini. Ma il suo cuore, votato in profondità all'amore per Dio, aveva subito intuito l'inganno e aveva reagito. Con questi travagli, l'identità del gruppo si precisa. Nel 1938 Madeleine scrive un testo programmatico che resterà celebre (e che ella pubblica significativamente sulla rivista «Etudes Carmélitaines»). È intitolato: «Noi, gente della strada» e proclama che ci sono cristiani per i quali «la strada» - cioè: il pezzo di mondo in cui Dio, di volta in volta, li manda - «è il luogo della santità», come lo è il monastero per le persone consacrate. E' la vocazione specifica della «gente qualunque», in un «luogo qualunque», che svolge «un lavoro qualunque», assieme ad altri «uomini qualunque» e che, tuttavia, «si tuffa in Dio» con lo stesso movimento con cui «si immerge nel mondo». Ma dove trovare il silenzio che le claustrali custodiscono nei loro monasteri? Madeleine spiega che nel mondo non è certo difficile trovare «ammassi umani dove l'odio, la cupidigia, l'alcool segnano il peccato», ma proprio qui diventa possibile esperimentare «un silenzio di deserto nel quale il nostro cuore si raccoglie con facilità estrema». E dove trovare la solitudine? Risponde: «La nostra solitudine non è essere soli... La nostra solitudine è incontrare Dio dovunque». Insomma, a Madeleine Gesù non dice soltanto: «Seguimi!», ma: «Seguimi in strada!», e le chiede di camminare con Lui, a fianco di tutti i poveri della terra, soprattutto di quelli che non sanno più dove portino i sentieri dell'esistenza. Se, dunque, il monastero è per lei semplicemente il mondo - senza distinzione tra spazi sacri e profani -, nemmeno la preghiera deve più distinguersi dall'azione, non perché si dimentichino i tempi dell'orazione, ma perché anche l'azione diventi preghiera. A chi le obietta, secondo una mentalità assai diffusa, che non è possibile essere tutti di Dio quando si è chiamati a vivere da laici, in mezzo al mondo, Madeleine ribatte: «Non è concepibile che un Dio onnipotente, mentre vuole essere amato, dia ai suoi figli una vita nella quale non possano amarLo». Ritrovando i più begli insegnamenti di santa Teresa di Lisieux, ma compresi da laica, scrive: «Ogni piccola azione è un avvenimento immenso in cui ci è dato il paradiso e in cui possiamo dare il paradiso. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto questo non è che la scorza di una realtà splendida: l'incontro dell'anima con Dio, incontro ogni minuto rinnovato, ogni minuto che diventa, nella grazia, sempre più bello per il proprio Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Una informazione?... Eccola: è Dio che viene ad amarci. È l'ora di mettersi a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare».
Anche Madeleine era affascinata dalla vocazione missionaria. Ma alla tradizionale descrizione del missionario vestito di bianco che sbarca su rive lontane e contempla la lunga distesa delle «terre non ancora battezzate», ella sostituisce un'altra immagine: “Il missionario, in abito o giacca o in impermeabile, dall'alto di una scalinata del metrò, vede di gradino in gradino, nell'ora di punta, una distesa di teste, distesa che freme aspettando l'apertura dei cancelli: una distesa di baschi, berretti, cappelli, copricapo di tutti i colori. Centinaia di teste, centinaia di anime. E noi lì in alto. E, più in alto, dappertutto, Dio...». E quando diceva che si poteva pregare ed essere missionari anche accalcati nel metrò, intendeva questo: «Signore, i miei occhi, le mie mani, la mia bocca sono tuoi. / Questa donna così triste davanti a me: ecco la mia bocca perché tu le sorrida. / Questo bambino quasi grigio, tanto è pallido: ecco i miei occhi perché tu lo guardi. / Quest'uomo così stanco: ecco tutto il mio corpo perché tu gli lasci il mio posto, ed ecco la mia bocca perché tu gli dica dolcemente: “Sedetevi”. / Questo ragazzo così fatuo, così sciocco, così duro, ecco il mio cuore perché tu lo ami, più di quanto non lo sia mai stato...». E, citando san Giovanni della Croce, spiegava: «Si semina Dio all'interno del mondo, sicuri che germoglierà da qualche parte, perché: “Dove non c'è amore, mettete amore e raccoglierete amore».
E venne il tempo della lotta, quando la Francia dovette reagire all'aggressione nazista e subire poi la sconfitta e l'occupazione...: la nazione sembrava distrutta e le città sembravano sfaldarsi. Perfino le più naturali appartenenze, sociali e familiari, sembravano essersi dissolte. Già nel corso della guerra, Madeleine diventa, a Ivry, un punto naturale di aggregazione nella lotta contro la miseria e il disfacimento, tanto che la città si tramuta in un geniale laboratorio di ricostruzione (soprattutto a favore delle famiglie) al quale si guarda da tutta la Francia. Perfino il «Soccorso Nazionale» guarda alla Delbrêl e alla sua équipe, e le chiede di preparare personale ausiliario per le assistenti sociali. Ella accetta, ma chiede di educare le giovani “sul campo”, cioè mettendole al lavoro. Si tratta di una “Veglia d'Armi” - così intitola un testo destinato alla loro formazione - in cui spiega che si tratta di imparare ad avvicinare «gente che è stata scorticata viva» e che perciò soffre solo a sfiorarla; gente che dev'essere incontrata «con dolcezza». Ma che cos'è la dolcezza? Spiega: «È ciò che riesce a toccare senza ferire», e vuole che le sue assistenti siano «esseri dolci che passano senza scalfire». Quando manda le sue giovani a «visitare le famiglie», le avverte che queste non hanno bisogno di essere visitate «come si ispeziona una valigia alla dogana»: bisogna andare a loro come genitori che visitano i figli, e fratelli che visitano i fratelli. È un lavoro stressante che esige coraggio a ritmo continuo (di coraggio «se ne consuma in un'ora quanto in altri tempi ne bastava per un anno») e che dura ininterrottamente fino alla Liberazione, che per altro non impedisce l'ultima atrocità: il bombardamento di Ivry accade dopo che le truppe tedesche sono già partite. Quando i comunisti tornano al potere, Madeleine spiega loro che è disposta a lavorare ancora, ma che il suo programma non cambierà, anche perché esso è assolutamente semplice e completo: «Quel che mi propongo è la diminuzione delle sofferenze e un accrescimento di felicità». Dopo due anni, lascia tuttavia il servizio sociale in municipio, sorprendendo tutti. Si è accorta che la sua piccola comunità risente della sua eccessiva attività. Ella conosce bene le urgenze sociali che premono da ogni lato e sente salire, da ogni parte, l'invocazione dei poveri... Ma la comunità - quella comunità ormai composta di una decina di donne che guardano a lei come a una guida e a una madre - è per lei «un sacramento della Presenza di Gesù». Il mondo non deve guardare a lei e alla sua personale bravura, ma alla piccola comunità di Cristo. Riconsegnandosi alla sua comunità, Madeleine vuole garantirsi di obbedire al Signore Gesù e non ai propri successi. La comunità vive in rue Raspail ed è «un enigma scientifico», come dice un'amica di passaggio. L'unica regola e l'unico ideale è la carità fraterna, come segno dell'amore di ciascuna a Cristo: ognuna poi lavora nel quartiere accanto ai più poveri, e la casa è un porto di mare perché la porta è sempre aperta ad ogni incontro, ad ogni dialogo, disponibile per ogni sostegno. E c'è perfino chi si aggiusta per riuscire a vivere nei dintorni di quella casa straordinaria: nel giardino, ad esempio, o nell'appartamentino vicino, o in una mansarda. Così la comunità si allarga a una congrega variopinta di «amici» e di «fratelli» che chiedono e danno solidarietà nei campi più disparati. Madeleine considera quella casa come una persona viva. La chiama «il signor Raspail» (dal nome della via) e la descrive così: «Il signor Raspail è un personaggio assai difficile da presentare... è un uomo di mezza età, né bene né male, piuttosto simpatico, piuttosto malvestito, dall'aria soddisfatta della sua sorte. Le persone lo giudicano rivoluzionario, i pettegoli pensano che sia un ex seminarista, i maldicenti suppongono che abbia costumi equivoci... Tanta gente va da lui e cerca la sua compagnia...». In tale strana compagnia, il compito proprio di Madeleine sembra quello di far sentire a ciascuno/a d'essere preferito/a: ella, infatti, sembra possedere una inesauribile tenerezza per tutti. «Madeleine è il solo essere al mondo che mi abbia amato in speranza», spiegava un ragazzo disadattato dopo averla incontrata, e illustrava così la sua splendida formula: «Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto perfino a me stesso, un io che io stesso odiavo perché mi sentivo incatenato... Grazie a lei io sono esistito, prima di esistere nella mia coscienza, quando ancora tutti gli altri mi ignoravano...». Non c'è nulla che Madeleine trascuri: può inventare un regalo, o una canzone o una scenetta comica, se ciò serve agli amici. Può immergersi nella preghiera, scrivere un articolo o una poesia, o dare una conferenza, o battersi per i diritti di qualche perseguitato politico: il tutto con la stessa foga e la stessa lucida intelligenza; il tutto con l'evidente «gioia di credere».
Intanto la Francia ha un doloroso sussulto: scopre di essere diventata «una terra di missione» e il cardinale di Parigi pensa di affrontare il problema della scristianizzazione delle masse operaie come lo si affronta nei paesi di missione. Così a Lisieux viene aperto un seminario particolare - posto sotto la protezione di santa Teresa - che dovrà preparare un nuovo tipo di prete, capace di andare là dove la fede sembra non solo scomparsa, ma divenuta impossibile: nelle periferie più abbandonate, nei quartieri operai, nelle fabbriche. Madeleine esulta perché sembra che la sua originaria intuizione stia quasi per diventare un progetto che la Chiesa assume in proprio. La nuova esperienza si dilata, cresce vertiginosamente e dà origine al fenomeno dei preti che tentano di portare il Vangelo nelle fabbriche, facendosi essi stessi operai, condividendo le pene, le fatiche, le lotte dei lavoratori. Ma non è facile farlo senza schierarsi, senza condividere le lotte sociali e politiche, senza aderire al partito che rappresenta i lavoratori, senza cedere prima o poi all'ideologia marxista che impera, senza accettare la logica dello scontro e della violenza... Madeleine vede molti preti - ministri di quel Cristo che ella ama con tutta se stessa - cedere alla tentazione che ella ben conosce per averla già subita: quella di mettere a rischio la loro stessa vocazione, lasciandosi trascinare dagli «ingranaggi accecanti» della lotta di classe. Roma interviene e, con pronunciamenti successivi, sconfessa l'esperienza dei preti-operai, così come veniva allora condotta. Madeleine soffre fino in fondo all'anima: da un lato vorrebbe che quello sforzo generoso di preti generosi - che ella conosce personalmente ed ammira - venisse compreso e valorizzato, e non accetta i giudizi superficiali dei troppi benpensanti; dall'altro comprende ancor più le preoccupazioni della Chiesa che vede ideologizzato e reso di parte il suo ministero sacerdotale, e teme ormai per la fede dei suoi preti. Per conto suo ella ha maturato una convinzione: a quella esperienza straordinaria è mancato il sostegno della preghiera di tutti i cristiani. L'errore è stato di esporre così i preti, nella trincea più avanzata, senza che tutti i cristiani si stringessero assieme in una preghiera corale e intensissima per sostenerli. E un altro problema ancora ella vede: troppo scarso è l'amore alla Chiesa. Troppo poco gli uomini capiscono che «la Chiesa li ama» - anche la Chiesa considerata nei suoi aspetti istituzionali e gerarchici - e troppo poco questa Chiesa si preoccupa di far capire il suo amore per gli uomini. Nel 1952, sorprendendo tutti, Madeleine decide un viaggio lampo a Roma che per lei è «una specie di sacramento di Cristo-Chiesa». E' un vero pellegrinaggio, volutamente faticoso, che ella intraprende perché «certe grazie non si chiedono né si ottengono, per la Chiesa, se non a Roma». Due giorni e due notti in treno, tra andata e ritorno, per fermarsi nella città eterna dodici ore soltanto: le passa quasi tutte a san Pietro, pregando «a perdita di cuore». Racconterà poi: «Mi è apparso fino a che punto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse riconosciuta da tutti gli uomini come colei che li ama. Pietro: una pietra alla quale è chiesto di amare. Ho compreso quanto amore bisognerebbe far passare nei segni della Chiesa». Quando torna a Ivry viene a sapere che un amico prete, residente a Roma, venuto a conoscenza del suo viaggio, le aveva addirittura ottenuto una udienza dal papa, ma poi non era riuscito a contattarla e il papa aveva atteso invano. L'attaccamento di Madeleine alla Chiesa è indistruttibile. Ella ne parla sempre come del «Cristo-di-ora». Nel corpo della Chiesa si deve essere soltanto «cellule viventi e amanti». «Quando si hanno ragioni per non capire», scrive, «bisogna pregare due volte, riflettere due volte, scusare due volte quel che non si capisce. Dove la nostra carità è messa in tentazione, bisogna volere due volte la carità». L'anno successivo, la tempesta si aggrava ancora; ella torna a Roma e questa volta può parlare al papa per qualche minuto. Nella breve risposta, il papa le ripete per tre volte la parola: «Apostolato». e Madeleine se ne torna via molto colpita da quella strana parola. In Francia la parola d'ordine è «missione», nessuno usa più il termine «apostolato», e Madeleine intuisce che c'è qualcosa di profetico nell'insistenza del pontefice. Si accorge che nel progetto di «missione», a cui anch'ella si è appassionata, c'è in primo piano l'annuncio della Buona Novella e la preoccupazione della salvezza degli uomini, ma che ne è della preoccupazione «per la gloria di Dio»? Che ne è della preoccupazione perché Dio sia adorato e amato, perché Dio «cessi di essere morto» per i marxisti?
Capisce così che una vera missione, condotta alla maniera degli apostoli, dovrà muoversi su due direttive: risvegliare in sé e nei credenti il senso dell'adorazione di Dio che vuole essere conosciuto e amato come una persona viva, e poi testimoniare questo attaccamento a Lui, occupandosi della salvezza del prossimo. In fondo si tratta ancora dell'essenziale unità dei due più grandi comandamenti e delle necessarie priorità nell'amore. Per Madeleine è come scoprire in sé lo stesso amore di prima ai fratelli più poveri e a quelli che lottano - e agli stessi marxisti - ma rigenerato da una nuova maternità ecclesiale. In un suo celebre testo intitolato: «Città marxista, terra di missione», arriva a scrivere: «Se ti amo, comunista, non è malgrado la Chiesa, è grazie a lei e in lei!». Intanto il suo gruppo, la sua piccola comunità, è alla ricerca di una identità: tutti cominciano a chiedersi quale sia il «posto» che essa occupa nella Chiesa. C'è chi vorrebbe che Madeleine aggregasse la sua comunità a qualche ordine religioso già esistente o a qualche organizzazione ecclesiale. Come si può lasciare una comunità di vergini, protese all'amore di Cristo e al servizio ecclesiale, senza nessuna regola e nessuna salvaguardia giuridica? Per fortuna, a Roma, un monsignore francese che ha una qualche influenza protegge la comunità con la sua amicizia e la sua guida. Si chiama mons. Veuillot. In seguito diventerà Cardinale Segretario di Stato di Paolo VI. Nel 1956 costui pone a Madeleine la domanda decisiva: che cosa pensa «lei stessa, per lei stessa?». Di getto Madeleine scrive un testo in cui le frasi si susseguono tutte ritmate da un appassionato: «Avrei voluto...». «Avrei voluto unicamente, appartenere interamente ed esclusivamente a Gesù, Nostro Signore e nostro Dio; avrei voluto provare a vivere il suo Vangelo, essere completamente disponibile alla sua volontà, nel più intimo della Chiesa e per la salvezza dell'uomo... Avrei voluto che ciò bastasse a spiegare tutto». Senza saperlo, però, Madeleine non sta soltanto offrendo alla Chiesa un fedele in più che prende sul serio la vocazione alla santità: sta descrivendo un «nuovo tipo di cristiano» tutto appartenente a Gesù e tutto innestato nel mondo. Oggi, perfino i Dizionari di Teologia già citano tale nuova «tipologia» offerta da Madeleine e sintetizzano il suo insegnamento in questo testo: «Quando teniamo il Vangelo tra le mani, dobbiamo pensare che lì abiti il Verbo che vuole farsi carne in noi, impadronirsi di noi, perché con il Suo cuore innestato nel nostro cuore e con il Suo Spirito comunicante col nostro spirito, noi diamo nuovo inizio alla Sua vita in un altro luogo, in un altro tempo, in un'altra società». E fu vivendo in prima persona questo ideale che ella divenne una maestra di preghiera: di una preghiera che poteva essere fatta dovunque e che poteva accompagnare il credente in ogni attimo della giornata. Hans Urs von Balthasar - uno tra i più grandi teologi del nostro tempo - diceva che la personalità e gli scritti della Delbrêl manifestano qualità contrastanti e paradossali: da un lato una profonda serietà e dall'altro uno humour sorridente; da un lato un infantile «sapersi di Dio» e dall'altro uno forte realismo nelle analisi sociali e psicologiche; da un lato l'appartenenza ecclesiale vissuta fin nel midollo delle ossa e dall'altro un'assoluta libertà dai consueti clichés ecclesiastici. Ma spiegava che ella riusciva a tener uniti questi aspetti contrastanti in forza della qualità straordinaria della sua preghiera. Quando qualcuno domandava un colloquio a Madeleine, l'incontro cominciava sempre con qualche minuto di silenzio, il tempo che le occorreva per accendersi accuratamente una sigaretta. Solo i più intimi sapevano che quello era il tempo che ella si concedeva per pregare per la persona che aveva di fronte, prima di cominciare il dialogo. E se l'episodio fa sorridere, esso appartiene - dal vivo - allo stesso mondo che Madeleine ha descritto in un libretto di massime da lei attribuite ad Alcide, piccolo monaco che scopre ogni giorno l'incredibile saggezza che si acquista quando si vive in familiarità con Dio. «Per chi cerca Dio come lo cercava Mosè», spiega Alcide, «anche una scala può trasformarsi in Monte Sinai».
E il fatto di poter trovare Dio sempre, anche fumando una sigaretta, dipendeva dalla certezza che il piccolo monaco esprimeva così: «Se credi davvero che il Signore vive con te, dovunque hai un posto per vivere, hai un posto per pregare». L'importante era saper vincere l'errore più strano che noi commettiamo, quello che lo stesso Alcide indicava con la invocazione-domanda: «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?». Madeleine non voleva «essere altrove», nemmeno quando fumava una sigaretta. Negli ultimi anni di vita, ella ebbe la gioia di intravedere i tempi nuovi, anche se la questione dei «preti operai» - che si concludeva in quegli anni con la definitiva interdizione dell'esperienza - la faceva nuovamente soffrire. Dapprima la rallegrò l'avvento di papa Giovanni XXIII, così caritatevole e semplice che la faceva sentire - disse - «come una analfabeta del Vangelo». Poi la riempì d'entusiasmo la celebrazione del Concilio Vaticano II, riflettendo sul quale trova una delle sue espressioni più belle: «Il cristiano è “in stato di Chiesa” come è “in stato di grazia”».
Aveva solo sessant'anni e già si sentiva stanca, ma continuava a provare un'estrema ripugnanza al pensiero della morte. Diceva, sentendosi un po' in colpa: «Probabilmente sono stata battezzata a metà...», ma si consolava al pensiero che «anche Gesù provava una specie di indignazione ogni volta che si trovava davanti alla morte». Ma la sua capacità di immedesimazione amorosa negli altri era intatta. Una foto del luglio 1964 (tre mesi prima della morte) la mostra accoccolata a terra di fronte a una bambinetta, e tra loro c'è una trottola che gira. Il 13 ottobre 1964, a Roma - per la prima volta nella storia della Chiesa - un laico prendeva la parola nell'aula conciliare, per parlare a tutti i Vescovi del mondo sul tema dell'Apostolato dei laici... In quello stesso pomeriggio, a Ivry, Madeleine si accasciava sul suo tavolo da lavoro: se ne era andata senza disturbare nessuno...
Nel suo messale, le compagne trovarono alcune parole risalenti a dieci anni prima, e da lei scritte per commemorare il trentesimo anniversario della propria “conversione”.
Per segnare il proprio radicale abbandono a Dio, maturato in quegli anni, aveva scritto: “IO VOGLIO CIO' CHE TU VUOI/SENZA CHIEDERMI se lo posso/SENZA CHIEDERMI se lo desidero/SENZA CHIEDERMI se lo voglio”.
Il programma che lasciava alle sue figlie e a innumerevoli amici - per giungere a tanta assolutezza - poteva essere espresso con una frase soltanto: “Leggere il vangelo – tenuto dalle mani della Chiesa – come si mangia il pane”. 

3/ Madeleine Delbrêl e il comunismo

Marxismo e “Mission de France”
da Madeleine Delbrêl, È stato il mondo a farci così timidi? Editrice Berti, Piacenza, 1999, pp. 55-59. Marxismo e “Mission de France”, scritto nel 1953, è una prima riflessione della Delbrêl, quando cominciano a manifestarsi le prime perplessità della Santa Sede sulla Mission de France (le radicali proibizioni arriveranno nel 1959). La Mission de France era nata in pieno periodo bellico, fra il 1939 ed il 1945, a partire dalla fondazione a Lisieux di uno speciale seminario per la formazione di giovani sacerdoti da inviare “in missione” presso i non credenti di Francia.
Che si faccia indossare ai preti la talare oppure la tuta, che si lascino in fabbrica o che li si richiami, che vengano saldati strettamente a una parrocchia o legati a un quartiere, che ci si spinga magari fino a sacrificare alle misure disciplinari un completo e dettagliato progetto di evangelizzazione, il pericolo incomberà sempre tutto intero finché ci saranno dei cristiani che guarderanno al marxismo come a una condizione di buona salute sociale e che si rivolgeranno ai marxisti non tanto per ciò che i marxisti non hanno, ma proprio per ciò che hanno.
E, viceversa, si potrà anche “salvare” la Mission de France” nella sua struttura esteriore, si potrà lasciarla ripartire senza cambiare nulla; ma, se non verrà individuato quel punto preciso dello “scambio deviatore”, la Mission” resterà internamente minata, non porterà Gesù ai marxisti; e non farà che ripetere con loro, fornendo per giunta i relativi riferimenti evangelici, ciò che essi già stavano dicendo senza di lei.
Il marxismo non è affatto un passaggio del proletariato dalla malattia alla buona salute, ma è il peccato sociale di cui la miseria proletaria ha favorito l'insorgere. Quanto poi alla coscienza o all'incoscienza di quelli che aderiscono al marxismo, ci troviamo davanti a una gamma variabile all'infinito.
Col marxismo noi diventiamo solidali nel momento in cui smettiamo di definirlo un male. In quel preciso momento, noi veniamo traditi da false forme di pazienza, con la prospettiva di “battezzare” un processo di civilizzazione. Dimentichiamo gli uomini d'oggi in nome di una civiltà del domani. Confondiamo la civiltà proletaria - che, questa sì, può anche essere battezzata - con un ateismo di forma quasi religiosa. Un ateismo che, una civiltà, può magari anche trascinarsela dietro, ma che, rispetto a questa civiltà, rimarrà sempre tutt'altra cosa.
È assolutamente necessario mettersi saldamente nella giusta prospettiva, ben più necessario del lavoro in comune coi marxisti o dei dosati equilibri negli impegni sindacali. Se infatti è vero che da questa netta presa di posizione dipende la fedeltà della “Mission de France” alla sua vocazione specifica, ne dipende anche la nostra fede.
Quando, faccia a faccia coi nostri “compagni” dal cuore magnifico, noi ripetiamo loro che l'anima della Chiesa supera i confini della sua corporeità visibile, non dovremmo dimenticare che c'è un corollario: la corporeità del marxismo supera i confini dello spirito che lo anima. Per corporeità del marxismo io intendo l'azione marxista, quella che sboccia dalle sue due opzioni di fondo. Due opzioni congiunte da una logica talmente “evangelica”, che c'è voluto S. Giovanni a farci capire quanto siano strettamente legate fra di loro: la lotta contro Dio e la lotta fra gli uomini.
Sostanzialmente, l'azione programmatica dei marxisti non è che questo. Ma ciò che noi come cristiani dobbiamo guardare in faccia è che praticare l'azione marxista significa introdurre di fatto dentro di noi qualcosa che è anti-Dio, qualcosa che scalza nel nostro intimo la vita di Dio e che ci espone allo sgretolamento di interi settori della nostra vita soprannaturale. Se ci restasse in proposito qualche dubbio, alcuni passi assolutamente espliciti di Lenin ce lo possono confermare: vi potremmo anche leggere, scritta in anticipo, la “cartella clinica” delle catastrofi, di cui noi abbiamo potuto vedere la preparazione e la realizzazione.
Davanti a catastrofi di questa portata ci si dovrebbe pur persuadere che, invece di fermarsi a questioni di circostanze e di temperamenti, sarebbe forse più utile verificare se per caso non vi sia stata in noi un'infiltrazione di quell'elemento “pratico” del marxismo, ossia la “pratica” abituale dell'azione marxista. Senza riferirmi a questo o a quel movimento in particolare, qui intendo proprio la lotta fra uomo e uomo così come il marxismo la definisce.
La “tendenza di alleanza” nei confronti del marxismo mi sembra dunque l'unico vero pericolo per la “Mission de France”. E penso che se fosse lei stessa a riconoscerlo, avrebbe trovato la sua tavola di salvezza. Ed ecco che invece (cosa per me quanto mai dolorosa) il biasimo per gli scivoloni reali o possibili è venuto da fuori; e da parte di chi, collocato in una prospettiva totalmente diversa, ha finito per incappare in un pericolo analogo, e per giunta senza uscirne indenne.
Ma qui mi devo spiegare.
Il proletariato si trova come in croce in mezzo a due peccati del mondo:

-del primo il proletariato stesso è il frutto;
-l'altro, è un frutto suo.

-Il primo è il capitalismo materialista,
-l'altro è il marxismo materialista.

-Il primo è condannato nelle sue opere e non nella sua dottrina, dato che di dottrina non ne ha
-l'altro è condannato nella sua dottrina, perché in questo caso si tratta veramente di una dottrina e di una dottrina d'azione. 

Lettera a Jacques Loew del 18/4/1951 (N.B. Lalande era il delegato generale di Pax Christi, Mons. Feltin l'arcivescovo di Parigi, HBM voleva dire Habitations à Bon Marché, alloggi sociali dell'epoca; la lettera è la prima sintesi delle riflessioni di Madeleine su fede cristiana e marxismo dopo 18 anni di prossimità vissuti ad Ivry)

Caro Padre-Fratello,
Grazie per la sua lettera.
Continuo a sperare che lei veda il Santo Padre.
Penso che la verità che deve essere comunicata sia ora matura in lei, e la verità deve essere comunicata a chi «ha orecchie per intendere».
Dire la verità con fede a colui che ha per noi, nella fede, le migliori orecchie per intendere, non può fare del male. Don Lalande mi ha consigliato di preparare un lavoro su Ivry per Mons. Feltin.
Ricevendo la sua lettera, ho pensato di inviarle una copia di questo lavoro, nel quale lei potrebbe trovare quello che credo essere allo stato attuale delle cose la mia parte di verità. Non è ancora concluso. Le invio alla rinfusa i «nova et vetera» che mi assillano in questo momento. Per me non possono nascere altro che da Ivry: lascio a lei il compito di controllare se altrove le cose coincidano. L'impegno essenziale di Cristo e di ogni cristiano che vive di Lui è dare la Vita eterna a persone che non l'hanno ancora o che non l'hanno più. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e Colui che hai mandato».
Il lavoro del cristiano è diffondere la salvezza. Per moltissime persone, la condizione per questa salvezza è la loro evangelizzazione: «Che conoscano te ... ».
Ma se anche i cristiani devono ricevere la Grazia in se stessi, pregare e soffrire affinché l'evangelizzazione del mondo sia efficace, affinché i peccatori siano salvati, questo non può dispensarli dall'essere, ciascuno sulla frontiera con il non credente con il quale confina = breccia per il Vangelo.
A Ivry non è possibile percepire l'evangelizzazione ufficiale della Chiesa costituita in parrocchie:
- [?] Perché questa Chiesa raggruppa in sé delle persone che a causa della loro origine sociale, del loro credo politico, della loro cultura si trovano a essere o gli avversari politici degli ambienti non credenti comunisti, o «scissi» dagli ambienti proletari non credenti non comunisti.
- Perché questa Chiesa, per rispondere ai bisogni di coloro che la costituiscono, deve fornire loro una vita di comunità cristiana adulta, cioè tradotta in una liturgia, in predicazioni, in organizzazioni fatte per cristiani dalla nascita la cui vita personale, familiare e sociale si trova in uno stadio nel quale può essere completamente modellata dalla Fede.
- Perché, inoltre, questa Chiesa è composta da cristiani che si sentono della stessa età adulta della società nella quale vivono, che si sentono discendenti di tutta una tradizione sociale, morale, culturale più cristiana, e che per essere al passo con loro questa Chiesa deve mantenersi, in un certo senso, all'interno di questa linea di tradizione umana.
- Perché alcuni ambienti minoritari della città, anch'essi non credenti, commercianti, liberi professionisti, impiegati, appartengono alla stessa età sociale di questo ambiente cristiano, e la loro evangelizzazione è possibile attraverso la Parrocchia così com'è stata progettata.

(Che le Parrocchie siano quello che dovrebbero essere, anche solo su questo piano limitato, sicuramente no, ma si tratterebbe ancora di un adattamento, non di una metamorfosi).

Tra i non credenti, non in contatto con la Chiesa, esistono due gruppi assolutamente distinti:

- Coloro che hanno avuto un passato cristiano, nei quali la Chiesa si traduce nella memoria di ciò che hanno vissuto.

- Coloro che non possiedono una memoria cristiana, e per i quali la Chiesa è indecifrabile.

Per questi ultimi il fatto di essere nati atei, di essere separati dalla Chiesa, è aggravato ancora di più dalla loro mancanza di cultura umana. Conosco una ragazza di 16 anni, prima per voti al diploma professionale in tutta Ivry, che ignorava l'esistenza di un Popolo Ebraico, il significato della parola Messia e che ha scoperto con stupore che il calcolo dei nostri anni parte da Cristo.
Per questi non credenti non esiste quell'incontro forzato con il cristianesimo sul piano culturale, storico, filosofico o artistico, che lo studente o il liceale sono obbligati a fare.
Ci sono poi, a intersecare questi due gruppi atei ma senza coincidere per forza con essi, il gruppo dei comunisti e di coloro che non lo sono.

Comunismo

Ivry è retta da 26 anni da una giunta comunista. Prima di questa vi era una giunta socialista. Ciò significa che la vita pubblica a Ivry è intessuta di organizzazioni allo stesso tempo ufficiali e comuniste:
- servizi municipali,
- servizi sanitari.

Anche la vita sociale:
- Borsa del Lavoro
- Cine Club,
- Gruppi sportivi,
- Numerose HBM,
- Stampa locale.

Tagliare i contatti con le organizzazioni comuniste o para comuniste di Ivry significa tagliare i contatti con la vita pratica della città.
Significa di conseguenza eliminare i 2/3 dei normali contatti fra cristiani e non cristiani. Il clima generale che si respira nella città non è un clima di lotta aperta contro il cristianesimo, ma un clima fermamente e tranquillamente ateo.
Nonostante la percentuale di comunisti attivi non sia a mio parere più grande di quella dei cristiani sinceri, la maggioranza della popolazione si trova in accordo con il comunismo

- sulle domande che pone,
- sui motivi della sua lotta.

E se anche questa maggioranza non è d'accordo per quel che riguarda ciò che il comunismo propone, è tendenzialmente simpatizzante nei confronti del comunismo.
La maggioranza rappresentata dai «votanti» comunisti è notevolmente più ampia del numero degli aderenti al Partito, ma molto più bassa rispetto ai simpatizzanti coscienti o non coscienti.
Questa massa simpatizzante racchiude «i piccoli», «i poveri», di ragioni di vita, di cultura umana, di «spiritualismo».
E’ la condizione operaia, così come loro la vivono, a renderli progressivamente incapaci di esercitare le loro facoltà spirituali e pronti ad accogliere il materialismo.
E’ stato detto loro che sono solo materia, ed è facile che ci credano, perché vengono resi «materia».
L’ambiente comunista propriamente detto è composto a Ivry per la maggior parte

- di comunisti dalla nascita.

Si può ritrovare in loro un parallelismo con l'ambiente cristiano locale:
- affinati da uno o due generazioni di cultura politica,
- dogmatici più che mistici,
- tradizionalisti che non hanno scoperto la «fede» da soli,
- alcuni pronti a ogni sacrificio, altri già «sistemati».

- di comunisti recenti:
- «ex» cristiani che non hanno trovato nel loro cristianesimo abbastanza amore verso gli altri,
- battezzati senza una vita cristiana reale, sedotti dal dinamismo del Partito,
- ribelli di ogni origine,
- animi di buona volontà che cercavano una loro valorizzazione;

- si dividono tra loro

- in militanti con una formazione piena,
- responsabili di funzioni importanti: deputati, sindaco, membri permanenti di organizzazioni nazionali
(molti abitano a Ivry);
- marxisti coscienti che applicano una dottrina che conoscono bene.

- in militanti di base,
- formati all'azione piuttosto che alla dottrina;
- che non conoscono gli scopi ultimi e lavorano con tutte le proprie forze per degli scopi immediati,
spesso in parte coincidenti con certi scopi cristiani.

- in simpatizzanti;
- di valore morale spesso mediocre, costituiscono un ambiente impenetrabile alla Chiesa ufficiale:

-la Chiesa e Cristo sono per loro degli avversari sociali,
- a differenza di alcuni ambienti comunisti di provincia, non tollerano nessun compromesso: battesimi, matrimoni religiosi.
- impenetrabili anche perché soddisfatti, ricchi di una dottrina o di un ideale, capaci di dare un senso alla propria vita.

Sono un deserto senza Dio dove non c'è voce che possa gridare.
Sono solamente di Cristo.

Condizioni di evangelizzazione

Per gli ambienti proletari di Ivry e per l'ambiente comunista, far vivere in mezzo a loro dei cristiani che vivano Cristo apertamente e che vivano una vita di Chiesa completa nei suoi elementi essenziali, libera dall'età sociale che in questo momento essa sta vivendo in Francia.

In mezzo a loro

Forse in certi casi come loro: stesso lavoro, stesse condizioni economiche, stesso tipo di abitazioni ... ecc.

Forse in maniera diversa: commercio, libere professioni ... ecc.

Ma sempre in una posizione di rottura nei confronti delle superstizioni sociali di privilegio, di ingiustizia, di complicità, di abitudine, sempre rifiutando quello che nelle abitudini, tendenze, superstizioni del proletariato non è secondo Cristo.

Vita [?]

Una vita interamente cristiana dalla testa ai piedi, che sia una traduzione di Cristo nel vero senso della parola, non un adattamento,

non un estratto, che. si rifaccia a voce alta tanto a Cristo Figlio di Dio, vivente e resuscitato, intercessore,salvatore,

quanto a Cristo maestro e dottore dell'amore fraterno.

All'interno dell'ambiente comunista

Il lavoro di evangelizzazione deve tenere conto di condizioni particolari.

Si tratta di un compito di salvezza di eccezionale difficoltà.

I comunisti rappresentano un po' il corpo politico di un peccato sociale che pesa su gran parte del mondo.

Che ne siano coscienti o no, sono il corpo fisico di un atto di aggressione nei confronti di Dio.

Ma così come nella Chiesa corpo mistico di Cristo ci sono delle cellule morte alla Grazia, o malate o inanimate, anche nel corpo politico comunista ci sono delle cellule che non partecipano alla sua vita malvagia, ce ne sono che vi partecipano molto poco, e ce ne sono che vi partecipano pienamente.

Anche fra quelli che vi partecipano pienamente, non bisogna confondere la loro condizione di peccato e il peccato oggettivo rappresentato dal comunismo.

Di quale Dio si tratta per loro quando si battono contro di Lui?

 E tuttavia partecipano in gradi diversi alla più grande miseria che un essere umano possa conoscere, una miseria la cui definizione è esattamente quella del peccato: una condizione di odio contro Dio.

Se è vero che l'amore di Cristo è esattamente il contrario del nostro, se è diretto non verso quello che è buono - e che già fa parte di Lui - ma verso ciò che è malvagio, perduto, malato, chi più dei comunisti può essere oggetto dell'amore salvifico di Cristo e dei cristiani che sono essi stessi Lui nella Chiesa?

Ma vivere in mezzo a loro è un'impresa difficile.

Molti cristiani di Ivry vivono in un ambiente comunista ma non vivono in mezzo al comunisti.

Ne soffrono il contatto.

Lo riducono al minimo.

Rifiutano la loro amicizia.

Maltrattati per anni all'inizio dell'era comunista, conservano spesso uno spirito rancoroso, un atteggiamento da perseguitati.

Quando sfuggono a questo atteggiamento evitano lo scambio di idee: sono troppo insicuri per dire quello che pensano. Un complesso di inferiorità li riduce spesso al silenzio.

Quando sentono il dovere di parlare della loro Fede, manca loro la conoscenza del punto di vista ateo, non riescono a staccare l'essenziale da quello che non lo è, non riescono a intuire quello che la loro Fede possiede di insolito per un non credente.

Queste difficoltà vengono accresciute sul versante comunista nel caso in cui il cristiano faccia parte di un movimento ufficialmente cattolico, «clericale», secondo la loro traduzione.

L'apparenza esteriore delle organizzazioni cristiane è, credo, interpretata a Ivry in una maniera molto particolare.

Si tratta di un effetto di quello che dicevo poco fa a proposito della presenza di lunga data della rete di organizzazioni pubbliche e parapubbliche della città.

Dato che tutto esiste già, tutto quello che di nuovo viene creato appare subito in opposizione.

Inoltre, la politicizzazione delle organizzazioni pubbliche porta a giudicare come politicizzata ogni altra organizzazione.

Un gruppo di cristiani che si riunisca regolarmente in una HBM sarà considerato come l'equivalente di una cellula. Non dico che le organizzazioni debbano essere bandite: dico che creano a coloro che ne fanno parte un ulteriore elemento di diffidenza, un ostacolo aggiuntivo al contatto.

Dall'altra parte, la vitalità politica che spesso gioca un ruolo importante nel comportamento dei comunisti e può modificare dall'oggi al domani il loro atteggiamento, i loro impegni, indigna molto facilmente i cristiani che gridano alla menzogna o all'inganno.

A un cristiano che abbia dei contatti con loro serve un'ottima conoscenza della loro dottrina. Una conoscenza che tenga conto in partenza del rischio di queste manovre e di questi voltafaccia e permetta di separare il fatto oggettivo e il valore morale di coloro che lo attuano.

Una menzogna rimane sempre una menzogna.

Lo stato di coscienza di un cristiano che mente o di un comunista che mente sono due realtà distinte.

È un compito pericoloso.

Nella misura in cui si vive in mezzo a loro, condividendo con loro le condizioni di vita, o rompendo con l'ottica abituale, si prende coscienza di tutto quello che nella società attuale urla contro la Legge di Cristo.

Si stabiliscono rapidamente delle coincidenze fra l'oggetto delle loro rivendicazioni e ciò che stride con la coscienza cristiana.

Il cuore dell'uomo non è molto grande.

Quando una preoccupazione cresce al suo interno, è raro che non soffochi le altre.

L’ingiustizia sociale diventa allucinante, la giustizia di Dio diventa meno percettibile; il male materiale affascina; il male morale tende a scomparire.

La misericordia rischia di ridursi alla giustizia distributiva e il regno di Dio di limitarsi a una sola classe sociale.

Il Vangelo non è più guardato dall'alto nel suo insieme, ma in prospettiva: i poveri sul piano economico appaiono in primo piano insieme alla fraternità; la mitezza, il perdono, la croce scompaiano [?][1]. dall' orizzonte.

Più si cerca di misurare il fossato che li separa dalla Chiesa, più si cerca di fare ponte fra l'una e gli altri sopra questo fossato, più si è tentati di smettere di essere tutt'uno con la Chiesa, per poter camminare meno faticosamente in mezzo a loro.

La tentazione di piacere, di essere accettati, in modo che un cristiano «sia presente», fa correre il rischio di essere presenti ma di non essere più cristiani.

Invece di essere in mezzo a loro per «annunciare Cristo», si rischia di riannunciargli loro stessi.

Ma si tratta di un compito di salvezza.

Non so se sia la volontà di Dio che esista una lotta temporale contro il comunismo.

Quello che è certo è che colui che è venuto a salvare tutti gli uomini vuole la salvezza di ciascuno di quegli uomini che costituiscono il comunismo.

Non so se le armi degli uomini possano distruggere il comunismo, quello che so è che difficilmente gli uomini contro cui si combatte accolgono il messaggio di quelli che sparano loro addosso.

L'ateismo che il comunismo si porta dietro è un male, e come ogni male si tratta di un'assenza di essere; è più efficace picchiare un morto o rendergli la vita?

In pratica, quando ho davanti i comunisti di Ivry, mi trovo davanti a una parte di quel corpo mistico marxista di cui parlavo prima.

In quanto cristiana, pur lasciando ad altri cristiani la possibilità o il dovere di avere opinioni differenti, io sento una doppia esigenza.

La prima:

- non partecipare a un tale corpo, così da non rendersi complici della sua aggressività nei confronti di Dio, cioè non partecipare ad attività che siano soggette anche solo in maniera ufficiosa a una delle sue discipline;

- non favorire la diffusione di parti della sua dottrina anche coincidenti con il punto di vista cristiano senza averle prima completate con il pensiero di Cristo.

La seconda:

- vivere in mezzo a loro per dar loro una possibilità di «conoscere l'unico vero Dio e colui che Egli ha mandato: Gesù Cristo».

- Vivere in mezzo ad essi:

Nell'ambiente lavorativo o attraverso una professione, nel quartiere, negli incontri, essere coscienti di rappresentare una parola vivente del Vangelo, di non essere liberi né di modificarla né di ridurla, essere prigionieri del Vangelo.

- Vivere coraggiosamente ciò che è soprannaturale.

Il fatto di un cristiano che si riferisca a Cristo vivente come a una persona viva rappresenta, per delle persone la cui dottrina è una dottrina legata ai fatti, un incontro con un Cristo possibile.

- Accettare ogni tipo di amicizia che Dio propone nei loro confronti, e portarla fino alla realtà della fraternità secondo Cristo.

- Diventare per loro come uno di famiglia.

In una famiglia, la madre o la sorella di un comunista restano sua madre o sua sorella, anche se non hanno la tessera del Partito.

- Accettare di collaborare ad attività locali limitate per quanto riguarda scopi e tempi.

Dissociarsi da tutto ciò che può prestarsi a fraintendimenti. Riaffermare spesso e in maniera chiara i motivi della propria presenza.

Evitare le tattiche:

- personali per accattivarsi la simpatia o la popolarità: Cristo non si pubblicizza: si annuncia;

- impersonali: strategie di accettazione progressiva della Chiesa, per portarle vantaggi ... ecc., la Chiesa nasce dalla vita di Cristo e non dalle strategie, non recita la salvezza, sanguina salvezza.

Rinforzare i legami con i cristiani quanto più si vive insieme ai comunisti.

Vivere maggiormente quello che più manca nella loro vita: l'adorazione, la preghiera, la mitezza.

Essere tanto più Chiesa quanto più loro non lo sono: attraverso i Sacramenti, l'obbedienza, l'interessamento nei suoi confronti.

Essere coscienti del fatto che l'evangelizzazione dipende da noi ma che la Fede è data da Dio: non cercare di fabbricarla.

Discernere in ogni persona ciò che è luce, anche frammentaria, anche distorta. Essere coscienti del fatto che è difficile strappare la zizzania senza strappare il buon grano. Cercare di mettere in ogni persona sempre più buon grano senza occuparsi della zizzania.

Rispettare ciascuno: non sporcare il suo ideale a causa delle sue disillusioni o dei suoi rancori.

Non combattere il male ma seminare un po' di vita dove esso si trova, giacché il male è assenza di bene.

Penso che lei finirà per prendersi gioco di me e ne avrà anche delle buone ragioni. È più facile scrivere a lei che scrivere a Mons. Feltin: a lui spedirò una. copia della sua lettera fiume.

Se un giorno ci incontreremo le racconterò in che modo ... ma non voglio appesantire questo messaggio così breve con le mie memorie!

Assieme a lei in Cristo con tutto il cuore,

Madeleine

4/ Una filosofia, una visione del mondo: il marxismo

4.1/ Marx, un pensatore “hegeliano”, che vede nello Stato, nella società la realizzazione della storia

-religione, arte, filosofia, l’ultima triade della fenomenologia dello spirito

-una filosofia progressiva della storia basata su di un’idea di progresso “inarrestabile”

4.2/ Riletta, però, in chiave materialista: struttura e sovrastruttura

Da K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Bari, 1987, p. 82

La storia è storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi.

-anche la borghesia è stata una classe rivoluzionaria

4.2.1 La grande questione interpretativa di oggi… persiste questa visione!

Qual è la vera causa del fondamentalismo islamico? E ancora: sono poveri perseguitati o persecutori (cfr. Hamas)?

da Paul Ricoeur, Dell'interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano, 2002 (originale 1965), pp. 46-49

Più che la scuola della reminescenza, questo fatto è indubbiamente vero per la scuola del sospetto. La dominano tre maestri che in apparenza si escludono a vicenda, Marx, Nietzsche e Freud. [...]

Se risaliamo alla loro intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza nel suo insieme come coscienza «falsa». Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza. [...]

Ciò che distingue quindi Marx, Freud e Nietzsche è l’ipotesi generale riguardante insieme il processo della «falsa» coscienza e il metodo di decifrazione. Le due cose vanno insieme, in quanto l’uomo che sospetta compie in senso inverso il lavoro di falsificazione dell’uomo che giuoca d’astuzia. Freud è penetrato nel problema della falsa coscienza attraverso il doppio atrio del sogno e del sintomo nevrotico; la sua ipotesi di lavoro implica gli stessi limiti dell’angolatura di attacco: si tratterà [...] di una economica degli istinti. Marx affronta il problema delle ideologie nei limiti dell’alienazione economica, nel senso questa volta dell’economia politica. Nietzsche, il cui interesse è imperniato sul problema del «valore» - della valutazione e della transvalutazione -, cerca nell’aspetto della forza e della debolezza della Volontà di potenza la chiave delle menzogne e delle maschere.

In fondo, la Genealogia della morale nel senso di Nietzsche, la teoria delle ideologie nel senso marxiano, la teoria degli ideali e delle illusioni nel senso di Freud, rappresentano altrettante convergenti procedure della demistificazione.

Questo forse non è ancora la cosa più forte che hanno in comune; la loro parentela sotterranea procede più lontano; tutti e tre iniziano col sospetto sulle illusioni della coscienza e continuano con l’astuzia della decifrazione, e, infine, anziché essere dei detrattori della «coscienza», mirano a una sua estensione. Ciò che Marx vuole è liberare la praxis mediante la conoscenza della necessità; ma questa liberazione è inseparabile da una «presa di coscienza» che replichi vittoriosamente alle mistificazioni della falsa coscienza. Ciò che Nietzsche vuole è l’aumento della potenza dell’uomo, la restaurazione della sua forza; ma quel che vuol dire Volontà di potenza deve essere ricuperato dalla meditazione delle cifre del «superuomo», dell’«eterno ritorno» e di «Dioniso», senza di che quella potenza sarebbe solo la violenza del di qua. Ciò che Freud vuole e che l’analizzato, appropriandosi del senso che gli era estraneo, allarghi il proprio campo di coscienza, viva in migliori condizioni e sia infine un po’ più libero e, se possibile, un po’ più felice. Uno dei primi omaggi resi alla psicoanalisi parla di «guarigione ad opera della coscienza». L’espressione è esatta.

4.3/ Questa prospettiva conosce una evoluzione, ma solo parziale, nel concetto di “egemonia culturale” in Antonio Gramsci (ma anche in altri pensatori marxisti)

Le citazioni dei Quaderni dal carcere sono relative all’edizione critica pubblicata da Einaudi.

Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens. Ogni uomo infine, all'infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un "filosofo", un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare (Quaderni dal carcere, p. 1550).

Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un' affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi [...] non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale (Quaderni dal carcere, p. 1523).

L'innovazione non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite (Quaderni dal carcere p. 1387).

Si può dire che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico-politica, ma che anzi la fase più recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell'egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella "valorizzazione" del fatto culturale, dell'attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici (Quaderni dal carcere, p. 1224).

Il Partito comunista è, nell'attuale periodo, la sola istituzione che possa seriamente raffrontarsi alle comunità religiose del cristianesimo primitivo (A. Gramsci, L'Ordine Nuovo 1919-1920, Torino 1954, p. 156).
[Il comunismo era] la religione che doveva ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che anch'esso è una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realtà spirituale (A. Gramsci, Sotto la mole, Torino 1960, p. 228).

Ci può e ci deve essere una "egemonia politica" anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso [il governo] dà per esercitare la direzione o egemonia politica (Quaderni del carcere, p. 41).

I bolscevichi non erano riusciti a diventare "dirigenti", oltre che "dominanti". Gli altri partiti comunisti del mondo non avrebbero dovuto quindi prenderli a modello, perché: "Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, [quel gruppo sociale] diventa dominante ma deve continuare ad essere anche "dirigente" (Quaderni del carcere, pp. 2010-11).

Tra i tanti significati di democrazia quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell'economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente (Quaderni del carcere, p. 1056).

4.4/ Un paradosso mai risolto del marxismo: scienza o messianismo?

Cfr. L. Colletti, Prefazione a K. Marx – F. Engels, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Bari, 1987, pp. 18-19
Il materialismo storico è una scienza, non potrà che andare così, eppure è una “scienza emancipatrice”, affermazione che è contraddittoria. Nella scienza non esiste in concetto di “bene” o “male” o di “progresso” (cfr. la Delbrêl 17enne)

Idea di “uomo nuovo” che sarà generato dalla società comunista

E prima ancora di esso un’idea di giustizia, di libertà, di beni condivisi, cioè un’idea morale, un’idea della dignità dell’uomo

Per quale di questi 2 aspetti il comunismo è stato amato?

In un’epoca di declino della morale il marxismo è stata la “morale” e tuttora lo è!

4.5/ Dall’ateismo di L. Feuerbach a quello di K. Marx

L. Feuerbach, 1841 L’essenza del cristianesimo

L. Feuerbach, 1845 L’essenza della religione

da Ludwig Feuerbach, L’essenza della religione, in L. Casini (a cura di), La filosofia dell’avvenire e la critica della religione, 54. […] Dio presuppone dunque uomini che lo onorino e lo preghino; Dio è un ente il cui concetto o rappresentazione non dipende dalla natura, ma dall'uomo, e dall'uomo religioso; [...] Credere significa immaginarsi che esista ciò che non è, significa, per es., immaginarsi che questa immagine sia un ente vivente, che questo pane sia carne e questo vino sangue, cioè che sia ciò che non è. 55. "Il tuo Dio è tale qual è il tuo cuore". Quali i desideri degli uomini tali sono i loro dèi. I greci avevano dèi limitati il che vuoi dire che avevano desideri limitati. E anche quando, mediante la filosofia, essi raffinarono e spiritualizzarono i loro dèi, i loro desideri rimasero sempre sul terreno della realtà, sul terreno della natura umana. […] I cristiani vogliono essere infinitamente di più, vogliono essere infinitamente più felici degli dèi dell'Olimpo;[...] beatitudine e divinità sono la stessa cosa. [...] Chi non ha più desideri soprannaturali, non avrà più nemmeno essenze soprannaturali.

Le Monnier, Firenze, 1982, pp. 166 – 170)

Da K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845, all’età di 27 anni)

6/ Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza umana. Ma l'essenza umana non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, essa è l'insieme dei rapporti sociali. Feuerbach, che non s'addentra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto: 1) a fare astrazione dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé e a presupporre un individuo umano astratto, isolato; 2) per lui, perciò, l'essenza umana può essere concepita solo come genere, come universalità interna, muta, che leghi molti individui naturalmente.

7/ Perciò Feuerbach non vede che il 'sentimento religioso' è anch'esso un prodotto sociale e che l'individuo astratto, che egli analizza, in realtà appartiene a una determinata forma sociale.

9/ Il punto più alto cui giunge il materialismo intuitivo, cioè il materialismo che non concepisce la sensibilità come attività pratica, è l'intuizione dei singoli individui nella società borghese.

10/ Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese; il punto di vista del nuovo materialismo è la società umana, o l'umanità sociale.

11/ I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo.

da Il mistero dell’eterna generazione del Figlio, di Massimo Serretti

In virtù del disegno divino è dunque la paternità e la figliolanza umana a rappresentare esperienzialmente e quindi vitalmente il tramite con il mistero della generazione in tutta la sua portata ed estensione. Il “generare” e l’ “essere generati” fanno parte, per decreto divino, dell’ordinarietà dell’ “essere uomini”. Anzi, l’“essere generati” costituisce la premessa ineludibile e incontrovertibile di ogni “essere uomini” ed è quindi ad esso coessenziale. Il discorso sull’uomo resta irrimediabilmente monco di un suo presupposto fondamentale quando salta o trascura di soffermarsi sul mistero dell’essere come essere generati. A Karl Marx non era sfuggita questa verità quando annotava che l’interrogativo metafisico sulla propria origine rinvia necessariamente alla coppia genitoriale [1]. Analogamente la domanda sulla natura rinvia a quella sull’origine della natura e fin quando l’uomo non potrà concepire la natura stessa come esito della sua opera trasformatrice, sostiene Marx, si porrà sempre la domanda metafisica e religiosa del principio di tutto ciò [2]. […] Già alcuni decenni fa Gabriel Marcel notava che “alla radice di questa crisi palese della paternità [dell’uomo] e dell’autorità paterna, sta un crollo d’ordine metafisico, la rottura del vincolo nuziale tra l’uomo e la vita” [3].

[1] “Un ente si stima indipendente solo appena sta sui suoi piedi, e sta sui suoi piedi appena deve la propria esistenza a se stesso. Un uomo che vive per grazia di un altro si considera un essere dipendente. Ma io vivo completamente per grazia di un altro quando non solo gli sono debitore del mantenimento della mia vita, bensì anche quando è esso che ha creato la mia vita, quando esso è la fonte della mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale fondamento fuori di sé quando essa non è mia propria creazione. La creazione è quindi una rappresentazione molto difficile da scacciare dalla coscienza popolare. La sussistenza per opera propria (Durchsichselbstein) della natura e dell’uomo le è inconcepibile perché contraddice tutte le evidenze della vita pratica” (Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, tr.it., Roma 1971, p. 234). Le sottolineature sono di Marx stesso. La logica che si afferma in questo brano del giovane Marx è quella che è diventata di dominio comune ed assioma fatto proprio da gran parte della coscienza occidentale contemporanea. Il problema che Marx pone è quello della relatio: è possibile ammettere una relazione di dipendenza che non solo non comporti una alienazione, ma un incremento di identità del soggetto? Il nostro studio pretende rispondere a questo interrogativo radicale e fondamentale per tutto il pensiero moderno mostrando tra l’altro come la coppia dialettica ‘dipendenza/indipendenza’ non possa essere assunta come sufficientemente comprensiva.
[2] “Ora è facile, in verità, dire al singolo individuo ciò che dice già Aristotele: tu sei generato da tuo padre e tua madre, dunque l’accoppiamento di due esseri umani, un atto generatore di uomini, ha prodotto l’uomo in te. Vedi dunque che l’uomo è debitore, anche fisicamente, della sua esistenza all’uomo. Tu non devi, perciò tener d’occhio soltanto uno dei due aspetti, il progresso all’infinito, per cui poi chiedi di chi abbia generato mio padre, e chi suo nonno, ecc. Tu devi anche ritenere il movimento circolare ch’è visibile in quel progresso, e secondo cui l’uomo nella generazione ripete se stesso, e dunque l’uomo resta sempre il soggetto. Ma tu mi risponderai: concessoti questo movimento circolare, concedimi il progresso che mi porta sempre più oltre, fino a che mi domando: chi ha generato il primo uomo e la natura in genere? Io posso soltanto risponderti: che la tua domanda stessa è un prodotto dell’astrazione. Domanda a te stesso come tu sia giunto a quella domanda; domandati se la tua domanda non provenga da un punto di vista a cui non posso rispondere perché assurdo. Domandati se quel progresso come tale sussista per un pensiero razionale. Quando tu t’interroghi sulla creazione della natura e dell’uomo, tu fai astrazione, dunque, dall’uomo e dalla natura. Tu li poni come non-esistenti, e tuttavia esigi che io te li dimostri esistenti. Io ora ti dico: rinuncia alla tua astrazione, e rinuncia così alla tua domanda...” (K.Marx, op.cit., pp.234-235). Marx non ammette che una domanda formulata in termini razionali possa avere la sua motivazione in un livello dell’essere personale che non sia quello della ragione stessa. In secondo luogo, conseguentemente, egli non vede come la domanda sull’origine non sia esterna alla relazione reale con un padre e una madre reali, ma interna alla realtà di quella relazione e come sorga da un impulso ad un inveramento di quel che già in quella relazione è obiettivamente dato e quindi non vada in direzione dell’astrazione ma della realtà umana. Qui si palesa il tratto surrettiziamente antiumanistico del pensiero marxiano.
[3] Il voto creatore come essenza della paternità, in Homo viator, tr.it., Roma 1980, p. 139. E’ la conclusione cui giunge coerentemente la riflessione marxista: “Tu puoi replicare: io non voglio l’annullamento della natura ecc.; io t’interrogo circa il suo atto d’origine, come interrogo l’anatomico sulla formazione delle ossa, ecc. Ma poiché, per l’uomo socialista, tutta la cosiddetta storia universale non è che la generazione dell’uomo dal lavoro umano, il divenire della natura per l’uomo, così esso ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita da se stesso, del suo processo d’origine. Poiché è divenuto praticamente sensibile e visibile l’uomo per l’uomo come esistenza naturale e la natura per l’uomo come esistenza umana, risulta praticamente impossibile la questione di un ente estraneo, di un ente al di sopra della natura e dell’uomo; questione che implica l’ammissione dell’inessenzialità della natura e dell’uomo. L’ateismo, come negazione di questa inessenzialità, non ha più senso, perché esso è una negazione di Dio e pone l’esistenza dell’uomo mediante questa negazione. Ma il socialismo come tale non abbisogna più di questa mediazione; esso parte dalla coscienza sensibile teorica e pratica dell’uomo e della natura come l’essenziale. Esso è la positiva coscienza di sé, non più mediata dalla soppressione della religione...” (K.Marx, op.cit., p.235). Marx ha ben compreso che l’ateismo avrebbe perso senso per l’uomo integralmente emancipato, ma non poteva prevedere che proprio questo tipo d’uomo è quello che oggi più facilmente si presta all’inganno spiritistico e settario. La domanda torna, ma in una forma regredita.

4.6/ Il peccato originale

dalla Prefazione di Vladimir Soloviev (morto nel 1900) a I tre dialoghi ed Il racconto dell’Anticristo
È forse il male soltanto un difetto di natura, un'imperfezione che scompare da sé con lo sviluppo del bene oppure una forza effettiva che domina il mondo per mezzo delle sue lusinghe sicché per una lotta vittoriosa contro di esso occorre avere un punto di appoggio in un altro ordine di esistenza?

E. Cassirer, La filosofia dell’illuminismo
Il pensiero del peccato originale è l’avversario comune, a combattere il quale si uniscono i diversi indirizzi della filosofia illuministica
. Troviamo il Hume a fianco del deismo inglese come il Rousseau a fianco del Voltaire.

4.7/ Dalla dittatura del proletariato violenta allo Stato burocratico

-H. Kelsen… l’implosione dello Stato che pretende di gestire tutto, poiché il fatto che tutto è proprietà collettiva implica che lo Stato sia il garante di tutto

- come nel nazismo il dramma è la scomparsa della sussidiarietà… il capitalismo sceglie l’individuo, il comunismo sceglie la collettività, entrambi dimenticano la “vita reale”, ad esempio la famiglia e la sua capacità di educare liberamente, con uno Stato che è “sussidiario” della primaria azione educativa delle famiglie stesse

Cfr. Lucio Colletti sulle aporie economico-organizzative della prospettiva marxista

5/ Alcuni fatti

5.1/ I morti

Da Il libro nero del comunismo, S. Courtois, I crimini del comunismo, Mondadori, Milano, 1998, p.4
Al di là dei crimini individuali, dei singoli massacri legati a circostanze particolari, i regimi comunisti, per consolidare il loro potere, hanno fatto del crimine di massa un autentico sistema di governo. È vero che in un arco di tempo variabile - che va da pochi anni nell'Europa dell'Est a parecchi decenni nell'RSS e in Cina - il terrore si è affievolito e i regimi si sono stabilizzati su una gestione della repressione nel quotidiano, mediante la censura di tutti i mezzi di comunicazione, il controllo delle frontiere, l'espulsione dei dissidenti. Ma la «memoria del terrore» ha continuato ad assicurare la credibilità, e quindi l'efficacia, della minaccia repressiva. Nessuna delle esperienze comuniste che hanno conosciuto una certa popolarità in Occidente è sfuggita a questa legge: né la Cina del Grande timoniere né la Corea di Kim Il Sung né il Vietnam del «gentile zio Ho» o la Cuba del pirotecnico Fidel, affiancato da Che Guevara il puro, senza dimenticare l'Etiopia di Menghistu, l'Angola di Neto e l'Afghanistan di Najibullah.

pp.5-6

La storia dei regimi e dei partiti comunisti, della loro politica, dei loro rapporti con le rispettive società nazionali e con la comunità internazionale non si riduce alla dimensione criminale e neppure a una dimensione di terrore e di repressione. Nell'URSS e nelle «democrazie popolari» dopo la morte di Stalin, in Cina dopo quella di Mao, il terrore si è attenuato, la società ha cominciato a uscire dall'appiattimento, la coesistenza pacifica - anche se era «una continuazione della lotta di classe sotto altre forme» - è diventata una costante nei rapporti internazionali. Tuttavia, gli archivi e le abbondanti testimonianze dimostrano che il terrore è stato fin dall'origine una delle dimensioni fondamentali del comunismo moderno. Bisogna abbandonare l'idea che la tal fucilazione di ostaggi, il tal massacro di operai insorti, la tal ecatombe di contadini morti di fame siano stati semplici «incidenti di percorso»

propri di questa o quell'epoca. Il nostro approccio va al di là del singolo ambito e considera quella criminale come una delle dimensioni proprie del sistema comunista nel suo insieme, nell'intero arco della sua esistenza.

Di che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e larghissimi viali; Pol Pot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la Rivoluzione culturale maoista le Guardie rosse hanno distrutto e bruciato tesori inestimabili. Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l'umanità intera, che importanza hanno di fronte all'assassinio in massa di uomini, donne e bambini?

Abbiamo, quindi, preso in considerazione soltanto i crimini contro le persone, che costituiscono l'essenza del fenomeno del terrore e che si possono ricondurre a uno schema comune, anche se ciascun regime ha la sua propensione per una particolare pratica: l'esecuzione capitale con vari metodi (fucilazione, impiccagione, annegamento, fustigazione e, in alcuni casi, gas chimici, veleno o incidente automobilistico); l'annientamento per fame (carestie indotte e/o non soccorse); la deportazione, dove la morte può sopravvenire durante il trasporto (marce a piedi o su carri bestiame) o sul luogo di residenza e/o di lavoro forzato (sfinimento, malattia, fame, freddo). Più complicato è il caso dei periodi detti di «guerra civile»: non sempre, infatti, è facile distinguere ciò che rientra nella lotta fra potere e ribelli dal vero e proprio massacro della popolazione civile.

Possiamo, tuttavia, fornire un primo bilancio in cifre, che, pur essendo ancora largamente approssimativo e necessitando di lunghe precisazioni, riteniamo possa dare un'idea della portata del fenomeno, facendone toccare con mano la gravità:

- URSS, 20 milioni di morti,

- Cina, 65 milioni di morti,

- Vietnam, 1 milione di morti,

-Corea del Nord, 2 milioni di morti,

- Cambogia, 2 milioni di morti,

- Europa dell'Est, 1 milione di morti,

-America Latina, 150.000 morti,

- Africa, 1 milione 700.000 morti,

- Afghanistan, 1 milione 500.000 morti,

- movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti.

Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti.

Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce - carestia generalizzata e tortura - circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico.

p.15

Prima della guerra vigevano misure di segregazione razziale di carattere generale contro gli ebrei, ma la loro persecuzione toccò il culmine durante la Notte dei cristalli, che vide parecchie centinaia di morti e 35.000 internamenti nei campi di concentramento. Ma soltanto con la guerra, e soprattutto con l'attacco all'URSS, si scatenò il terrore nazista, di cui forniamo un sommario bilancio: 15 milioni di civili uccisi nei paesi occupati; 5 milioni 100.000 ebrei; 3 milioni 300.000 prigionieri di guerra sovietici; 1 milione 100.000 deportati morti nei campi di concentramento; parecchie centinaia di migliaia di zingari. A queste vittime vanno aggiunti 8 milioni di persone utilizzate per i lavori forzati e 1 milione 600.000 persone detenute nei campi di concentramento non decedute. [per un totale di 25 milioni di persone]

- a partire da Ekaterinburg, con il leninismo e poi via via (si pensi anche a Frida Khalo nella cui casa venne ucciso da sicari Lev Trockij)

5.2/ Il drammatico passaggio dal nazismo al comunismo

Da 1939: il patto segreto fra la Germania e l' Urss, di Sergio Romano dal Corriere della sera del 15/9/2006 un brano della risposta di Sergio Romano alla lettera del sig. De Giovanni
[…] il patto tedesco-sovietico dell'agosto 1939 comprendeva due documenti: un trattato di amicizia, di cui venne pubblicato il contenuto essenziale, e un protocollo segreto con cui i due Stati si accordarono per la spartizione della Polonia e la delimitazione delle rispettive aree di influenza nel Baltico (l'accordo sulla Bessarabia fu stipulato più tardi).
Per giustificare se stessi e riparare allo scompiglio che l' annuncio aveva provocato nelle file dei partiti comunisti, i sovietici sostennero che l'intesa era stata provocata dai negoziati bruscamente falliti a Mosca, nei giorni precedenti, con una delegazione anglo-francese. Gli occidentali (questa la tesi della diplomazia sovietica) pretendevano di essere aiutati contro la Germania nazista, ma diffidavano dell'Urss e non erano disposti a permettere il transito dell'Armata Rossa attraverso il territorio polacco in caso di conflitto.
In queste condizioni, a Mosca non restava altra soluzione fuor che quella di proteggersi dall'espansionismo tedesco e guadagnare tempo. La spiegazione era ingegnosa, ma fu contraddetta dai vantaggi territoriali che l'Urss incassò nei mesi seguenti e dagli intensi rapporti economici che essa ebbe con il Terzo Reich sino al giugno 1941.
Naturalmente l'invasione tedesca fece dell'Urss una preziosa alleata dell'Occidente ed ebbe l'effetto di stendere sul patto Ribbentrop-Molotov il velo del silenzio. Ma la questione riemerse quando gli americani, dopo la fine della guerra, annunciarono di avere trovato in un archivio tedesco la copia fotografica del protocollo segreto che i due ministri degli Esteri avevano firmato a Mosca alla presenza di Stalin.
I sovietici replicarono che il documento era un falso, concepito nel clima della guerra fredda per screditare la patria del socialismo, e tutti i partiti comunisti occidentali si allinearono disciplinatamente su questa versione. Ma una commissione presieduta da Aleksandr Jakovlev, negli anni della presidenza di Boris Eltsin, ebbe il merito di scavare senza pregiudizi negli archivi del Cremlino e di portare alla luce l'originale del protocollo segreto.
[…]

La spartizione Molotov-Ribbentrop. L'accordo del 1939 fra Germania e Urss sulla spartizione dell'Europa centro-orientale, dal sito di Limes del 29/10/2009 una cartina pubblicata sulla rivista stessa 

Carta tratta da "Comunicazione di servizio", 
editoriale di Limes 5/2009 A est di Berlino

Questa carta illustra l’intesa germano-sovietica sui confini lituani e polacco-tedeschi codificata nel protocollo segreto allegato al patto Molotov-Ribbentrop. Reca le firme di Stalin e di von Ribbentrop.
Si noti la correzione di confine in favore della Germania a ovest di Leopoli, tracciata dai due con le rispettive matite colorate e garantita da un’altra firma del leader sovietico. 

Katy?, il film di Andrzej Wajda sull'uccisione da parte dei sovietici di 22.000 ufficiali polacchi prigionieri agli inizi della II guerra mondiale, di Andrea Lonardo

Un film che merita, che merita dal punto di vista storico e dal punto di vista cinematografico. Katy? è uno splendido film - “splendido” quanto lo può essere un film che tratta di un eccidio – che ripropone sul set il massacro perpetrato su ordine di Stalin di 22.000 ufficiali che si erano arresi alle truppe sovietiche all'inizio della II guerra mondiale.

Il film inizia con la paradossale situazione che si venne a creare con il Patto di non aggressione firmato dalla Germania nazista e dalla Russia comunista. L'alleanza fra Hitler e Stalin prevedeva la spartizione della Polonia in due zone che le due nazioni avrebbero occupato. Nel film i polacchi che scappano verso est per fuggire dall'avanzata nazista si incontrano sul ponte sul fiume Bug con i polacchi che scappano verso ovest per allontanarsi dai russi che attaccano sul fronte opposto – la Polonia fu attaccata da Hitler il 1° di settembre 1939 e da Stalin il 17 settembre dello stesso anno.

L'assoluta mancanza di scrupoli di Hitler aveva fatto sì che egli si alleasse con il mondo comunista che aborriva, mentre l'altrettanta assenza di qualsiasi prospettiva morale aveva permesso a Stalin di scegliere Hitlercome proprio alleato.

22.000 ufficiali si arresero ai russi senza nemmeno combattere. Era ormai evidente che non aveva senso una resistenza armata e così l'esercito polacco che era di stanza o che era riparato nella zona che il Patto Molotov-Ribbentrop assegnava ai sovietici si consegnò nelle mani dei russi. Il film presenta la vicenda a partire da un giovane ufficiale e da sua moglie che lo attende in casa, insieme alla giovane figlia.

Nel frattempo, la situazione nella Polonia occupata dai nazisti precipita. L'intenzione degli invasori è chiaramente quella di eliminare l'intellighenzia polacca, per far scomparire ogni libero pensiero e, con esso, la possibilità che la popolazione nel suo insieme opponga resistenza. I docenti universitari vengono deportati nei campi di concentramento tedeschi e lì, di fatto, condotti a morte.

Il film mostra indirettamente un'evidenza storica spesso dimenticata e cioè che la furia nazista non si abbatté solo sugli ebrei, ma anche sui cattolici polacchi, per spezzare ogni loro resistenza.

I 22.000 ufficiali, nel frattempo, vengono tenuti sotto stretta sorveglianza in campi di concentramento sovietico, finché il regime comunista ne decide la soppressione nella primavera del 1940.

Wajda mostra come la stessa logica guidi la barbarie nazista e quella comunista: è utile al mantenimento del potere liquidare gli intellettuali. Molti degli ufficiali polacchi che si erano arresi all'URSS erano riservisti, appartenevano cioè alla media borghesia polacca, e Stalin ritenne che la loro eliminazione avrebbe facilitato il suo controllo sulla Polonia. Condotti in treni merci verso il luogo dell'esecuzione furono uccisi uno per uno con un colpo alla testa.

Il film termina con l'esecuzione del gruppo degli ufficiali. Con una sequenza altamente significativa tutti muoiono recitando il Padre nostro. L'ultima delle vittime, nel film, giunge a “Rimetti a noi i nostri debiti” e, per un colpo andato a vuoto, fa in tempo ad aggiungere “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, prima di essere assassinato.

Il padre del regista, Jakub Wajda, era uno di quei 22.000 ufficiali e, girando il film, il figlio ha voluto rendere onore a lui ed agli ufficiali suoi colleghi, perché nessuno sia dimenticato.

Ma il film racconta pure un'altra storia: quella della menzogna con cui i sovietici, nel prosieguo della guerra e poi nel dopo-guerra, cercarono di attribuire la responsabilità dell'eccidio ai nazisti.

Il regista, nel presentare il film, ha dichiarato di aver scritto il film con un duplice punto di vista: quello del crimine perpetrato e quello della menzogna con cui si è cercato di coprirlo per 50 anni. La madre di Wajda fu vittime di questo secondo crimine e visse senza sapere niente del marito.

Katy? è oggi in Bielorussia. Il film presenta alcuni filmati d'epoca emersi dagli archivi con i quali i nazisti, nel 1943, dopo aver riesumato i cadaveri dalle fosse, accusarono di crimini contro l'umanità i russi. Wajda mostra poi le stesse immagini nuovamente montate dai sovietici al termine della guerra al fine di spostare propagandisticamente al 1941 la datazione dell'eccidio e poterne incolpare i nazisti. Solo con l'avvento del presidente Gorba?ëv, infine, i russi ammisero di essere i veri responsabili della strage.

Wajda ha dichiarato che implicitamente, addossando ai nazisti la responsabilità dell'eccidio, Stalin ammetteva anche la reale natura del proprio regime. Nel corso del processo di Norimberga i russi cercarono di addossare esplicitamente la strage ai nazisti, perché divenisse uno dei capi d'accusa contro i gerarchi del Terzo Reich. Nel processo essi vennero però assolti da questo crimine, senza che il fatto, però, portasse ad un'esplicita incriminazione nei confronti dell'URSS.

Wajda nel suo film presenta da un lato la storia degli uomini che subiscono la furia dei nazisti e dei sovietici e, dall'altra, delle donne che cercano prima di salvarli, poi almeno di conoscere la verità sulla loro sorte. Il regista presenta, fra l'altro, anche un ufficiale russo che fa valere la propria coscienza sugli ordini di partito, cercando di salvare almeno le mogli degli ufficiali.

In un continuo rinvio tra il passato ed il presente, il film presenta anche gli anni del dopo-guerra quando la Polonia finì totalmente sotto il dominio comunista. Nel tentativo di negare la verità sull'eccidio, il nuovo regime fece ulteriori vittime.Il film mostra la tragica fine di alcuni dei polacchi che avevano combattuto nella resistenza contro i nazisti e che vennero invece uccisi a guerra finita dai comunisti, perché cercavano verità e libertà. Lo stesso avvenne – anche se la questione non è argomento del film – ai pochi ebrei scampati alla Shoah: il nuovo regime comunista li eliminò fisicamente, se non si asservirono al nuovo diktat.

A tutt'oggi, nonostante la verità sia stata ammessa dal nuovo establishment russo, nessun responsabile della strage è mai stato processato. In Polonia è stato realizzato un Memoriale di Katy?, dove è sorto anche un centro studi che indaga sull'eccidio e anche a partire dai diversi diari manoscritti che i cadaveri avevano con sé al momento della riesumazione.

P.S.

Nel 1940 non era ancora iniziato lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Le Einsatzgruppen iniziarono le fucilazioni di massa degli ebrei nel 1941 per passare poi rapidamente all'uccisione tramite il gas, perché le SS, nonostante il loro “addestramento”, non reggevano facilmente al compito di uccidere civili indifesi tramite fucilazione. I sovietici aprirono la strada, da questo triste punto di vista, allo sterminio nazista.

I nazisti furono i primi a scoprire le fosse di Katy? che resero pubbliche il 13 aprile del 1943, accusando i sovietici di aver compiuto “il più grande crimine mai commesso nella storia umana” ed utilizzando il fatto in maniera propagandistica per spacciarsi come difensori del diritto e della moralità contro la minaccia bolscevica.

-per gli ebrei! Il concerto, di Radu Mihaileanu

Le vite degli altri, di Florian Henckel Von Donnersmarck (2006): un film da non perdere
di Andrea Lonardo

Cosa succedeva nella DDR, la Germania Orientale, nel 1984 (cioè solo 20 anni fa)? Cosa accadeva, quindi, in tutti i paesi del blocco sovietico? 
E’ l’agente della STASI Gerd Wiesler, in codice HGW XX/7, che ci guida in questa scoperta dolorosa. 
La spersonalizzazione, la sistematica demolizione della dignità della persona, che ha caratterizzato quel mondo è resa dal regista non solo quando ci mostra l’agente in azione con le persone che deve spiare, ma, ancor più, quando ci mostra la vita “privata” dello stesso Gerd Wiesler. L’anonimato della sua vita, delle case e dei luoghi pubblici, delle sue relazioni – delle non relazioni – è solo uno specchio della realtà nella quale tutti si sono rassegnati, in quel contesto, a vivere. 
C’è una sola via d’uscita all’inizio del film: il suicidio. Albert Jerska, che non può più essere regista di teatro a motivo delle sue opinioni non allineate a quelle del regime, si toglie la vita. 
L’articolo che Georg Dreyman deciderà di scrivere e far pubblicare a Berlino Ovest, dall’altra parte del muro, non riguarderà la corruzione, l’ingiustizia, il sistema di controllo ossessivo instaurato dalla STASI, ma parlerà dell’infelicità. Denuncerà che non è più possibile avere le statistiche ufficiali dei suicidi nella DDR, perché quella percentuale sarebbe risultata la più alta d’Europa, preceduta solo da quella di un altro paese comunista, l’Ungheria. 
La denuncia che il regime non può accettare, la più difficile da ammettere, è che i suoi cittadini non sono felici; anzi, essi perdono il gusto della vita. Spento in loro il desiderio del bene, l’anelito della carità, la ricerca di Dio, è il senso stesso della vita che vacilla. 
Una piccola sequenza del film, accennata con quella discrezione che caratterizza i grandi film, apre uno squarcio sulla condizione dei preti e delle parrocchie durante il periodo comunista, quando per via telefonica vengono impartiti gli ordini riguardanti la vita di una piccola comunità cristiana. 
Un sistema che vuole tutto controllare, che incoraggia a tradire, distrugge alla radice la fede, quella in Dio, ma, insieme, quella dell’uomo nell’uomo. E’ la fiducia che scompare. Ogni persona, anche la propria amata, è una possibile delatrice. La parola, la comunicazione in profondità, lo scambio delle idee si fa rarefatto. L’ombra della sfiducia avvolge la vita. I suicidi della DDR denunciano che non è possibile vivere dove la fiducia è scomparsa. E’ la fede/fiducia/fedeltà il grembo vitale della felicità, della possibilità di cercare un senso per poterlo condividere con altri. 
Ma non solo Gerd Wiesler ci spalanca un mondo infernale. Egli vi discende. Ed il suo sguardo sull’uomo si trasforma in tenerezza e carità. 
Una battuta pronunciata nel film - Le persone non cambiano così facilmente, succede solo nelle commedie – indica quel centro vivo che è la conversione personale. Christa-Maria Sieland, la compagna del giovane scrittore, non avrà questo coraggio di cambiare vita, il giovane scrittore Georg Dreyman ed ancor più Gerd Wiesler potranno modificare parzialmente il corso della loro storia – cosa può la libertà dell’uomo, sola, senza la grazia? 
La gratitudine verso “i buoni amici” sarà la cifra finale, straordinaria e consolante, che sarà lasciata agli spettatori del film.
Nel film l’agente HGW XX/7 ascolta: 
Sai cosa diceva Lenin dell’Appassionata di Beethoven? “Se continuo ad ascoltarla non finirò la rivoluzione”. Può qualcuno che ha ascoltato, veramente ascoltato, questa musica essere davvero una cattiva persona? 
Ma più dell’arte, è la musica dell’animo umano che scalda il cuore gelido di Gerd Wiesler e, con il suo, il nostro.

5.3/ I Gulag e la repressione sistematica

-Arcipelago Gulag, di Aleksandr Solzenicyn

-I racconti di Kolyma, di Varlam Tichonovich Šalamov (1989)

Parole come "aria rubata": la poesia diffusa attraverso il samizdat nell’allora Unione Sovietica. Il valore del singolo, contro l’utopia al potere, di Natal'ja Gorbanevskaja, da Il Sole-24 Ore del 7/12/2003, con il titolo Parole come “aria rubata”. La Gorbanevskaja, poetessa, giornalista e traduttrice, fu arrestata nel 1969 e reclusa per due anni in un ospedale psichiatrico “speciale” per aver lottato a favore dei diritti umani nell’allora Unione Sovietica.
In una stupenda giornata di dicembre del 1962 fui partecipe di un avvenimento che ritengo straordinariamente importante: mentre ero in visita da Anna Achmatova, in uno degli appartamenti di Mosca dove veniva ospitata, io - come molti altri a quei tempi - ebbi il permesso di trascrivere il suo Requiem
Quel ciclo di versi (o poema, se vogliamo: sul suo genere letterario esistono opinioni divergenti, ma non è questo il punto) fu scritto negli anni 1935-1940, mentre infuriava il "Grande terrore" staliniano. Per molti anni lo si poté ascoltare solo in una scelta cerchia di amici dell'autrice, che per la maggior parte imparavano a memoria i versi
Né la stessa Achmatova, né il suo numeroso pubblico affidò mai il Requiem alla carta. Ma dopo che, nel 1962, "Novyj Mir" ebbe pubblicato Una giornata di Ivan Denisovic, l'Achmatova pensò che forse era giunto il momento anche per Requiem
E in realtà era giunto, ma non nel senso che potesse essere pubblicato in Unione Sovietica, dove dopo il consueto temporaneo disgelo iniziarono presto nuovi geli. Era invece giunto il momento che Requiem uscisse nel samizdat
Porgendomi una penna a sfera, Anna Andreevna disse: «Prima di lei con questa "matitina" ha copiato il Requiem Solzhenicyn». Ma oltre a me e Solzhenicyn, a casa dell'Achmatova, con quella "matitina" o meno, Requiem era stato copiato da decine di persone. E naturalmente tutti, o quasi tutti, tornando a casa, si erano messi alla macchina da scrivere.
Io stessa l' ho ricopiato, probabilmente, una ventina di volte, ogni volta in quattro copie. Diffondendo il Requiem tra amici e conoscenti, facevo sempre una semplice richiesta: "Ricopiatelo, e poi restituitemene una copia". E così ricominciava il giro. In questo modo, solo dalle mie mani uscirono e si diffusero centinaia di copie di Requiem, ma la sua tiratura complessiva nel samizdat raggiunse almeno qualche migliaio di copie.
Già dopo la morte dell'Achmatova, il giorno del mio arresto, il 24 dicembre 1969, la copia da me trascritta a mano, con il frontespizio scritto di pugno dalla stessa Anna Achmatova, mi fu sequestrata durante la perquisizione. Ma anche se io non fui condannata per il Requiem, alcuni anni dopo in Ucraina la "detenzione e diffusione" di Requiem fu una delle imputazioni che portarono alla condanna di Rejza Palatnik: il ciclo poetico dell'Achmatova fu definito "accuse palesemente false e diffamatorie dell'ordinamento statale e sociale sovietico".
Ma cosa c'era di così temibile in quei versi lirici che raccontavano, in parole povere, del dolore di una madre che si era vista arrestare il figlio? Perché risultavano intollerabili per l'"ordinamento statale e sociale sovietico"?
All'incirca negli stessi anni in cui l'Achmatova compose Requiem, in Italia il comunista jugoslavo Ante Ciliga, miracolosamente tirato fuori dal gulag nel 1936, scrisse un libro sulla sua esperienza in Unione Sovietica, e la definì "il Paese della grande menzogna". 
Raccontò non solo della sua esperienza nel lager, ma anche della vita nella "libertà" sovietica. Già allora, alla fine degli anni Trenta, a coloro che non temevano di aprire gli occhi appariva chiaro come la menzogna fosse uno dei capisaldi del sistema totalitario. Senza il sostegno della menzogna non potrebbe sopravvivere nessun totalitarismo, di qualsiasi colon sia: rosso, nero o bruno...
"Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia", ci ha insegnato Cristo. Per noi che siamo vissuti sotto l'oppressione della menzogna sovietica, della propaganda; del linguaggio di regime, la pravda, verità-giustizia di cui si parla qui si è identificata con la verità-realtà. 
Ma la parola poetica, e oserei dire, a maggior ragione una poesia come quella dell'Achmatova, non è soltanto semplicemente verità, ma è qualcosa di più: illuminazione, rivelazione.
"Il marito nella tomba, il figlio in prigione. Pregate per me", scrive l'Achmatova in Requiem. Il lettore intende queste parole non come una semplice informazione sul fatto che il suo primo marito, il poeta Nikolaj Gumilev, venne fucilato dai bolscevichi ai tempi di Lenin, e che il suo unico figlio, Lev Gumilev, era stato incarcerato dai bolscevichi sotto Stalin. 
Il lettore può anche non conoscere questi dettagli biografici della poetessa, ma il suo cuore si accosta alla tragedia di milioni di donne russe che vissero in silenzio - o come erroneamente si suole dire, nell'anonimato - ma si espressero attraverso la voce della grande poesia.
Nell'introduzione in prosa a Requiem, intitolata "In luogo di prefazione", si dice: «Nei temibili anni della ezhovshchina ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi "riconobbe". Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all'orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): ma lei può descrivere questo? E io dissi: posso». 
Per loro che, forse, "mai nella vita" avevano sentito il suo nome, parla Anna Achmatova: 
«...Sentiamo solo l'odioso strider delle chiavi
E i passi pesanti dei soldati. 
Ci si alzava come a una messa mattutina, 
Si andava per la capitale abbandonata, 
Là ci s'incontrava, più inanimate dei morti, (..) 
Startene, col pacco, 
Trecentesima sotto le Croci. 
E con le tue lagrime cocenti 
Sciogliere dell'anno nuovo il ghiaccio. (...)
Diciassette mesi che grido, 
Ti chiamo a casa. 
Mi gettavo ai piedi del boia, 
Figlio mio e mio terrore (...)
E non per me sola prego, 
Ma per tutti coloro che erano con me, laggiù, 
Nel freddo spietato, nell'afa di luglio, 
Sotto la rossa muraglia abbacinata
».
Ed è qui che lei invita a innalzarle un monumento «se un giorno in questo Paese pensassero di erigerlo»: 
«...qui, dove stetti per trecento ore 
E dove non mi aprirono il chiavistello
».
Requiem è uno dei vertici della poesia di Antia Achmatova, ma quanto ho detto non va inteso nel senso che tale vetta è stata raggiunta solo a spese di coloro con la cui voce parla qui l'Achmatova, coloro dei quali disse: 
«Per loro ho intessuto un'ampia coltre 
Di povere parole, che ho inteso da loro
».
Questa è lei, Anna Achmatova, la sua persona, la sua individualità, che non solo ha saputo descrivere le vicende che ha vissuto, ma anche pronunciare "povere parole intese da loro" con la sua "inimitabile voce". 
Lei ha usato l'espressione "inimitabile voce" riferendosi a un altro poeta, ma ogni poeta, se è davvero un poeta e non un mentitore mercenario al servizio del regime statale, è una voce inimitabile. 
questa è un'altra ragione per cui per decine di anni ci hanno privato di enormi porzioni della grande poesia russa del XX secolo, il motivo per cui non autorizzavano che si stampasse la giovane poesia che stava nascendo allora.La voce del poeta è una voce isolata: è la voce dell'individualità e non della collettività, anche quando questi, come Anna Achmatova in Requiem, parla a nome di milioni di persone. 
Questa voce, sia che parli di prigione o d'amore, si rivolge al lettore come singolo, uno per uno, lo distoglie dai compiti collettivi, dalle ennesime direttive del solito plenum del Comitato centrale del partito. E lo aiuta a sentirsi persona e non una vitina nel perfetto ingranaggio dell' "utopia al potere".
E centinaia, migliaia di questi singoli lettori (non milioni: milioni sono coloro che si sono nutriti della pappa pronta di ciò che si chiamava poesia sovietica), desiderando leggere ciò che volevano, e donare ad altri questa libertà di lettura, crearono un miracolo, a noi noto col nome di samizdatSu antidiluviane macchine da scrivere si diffusero inizialmente i versi strappati all'oblio o all'oscurità: e questa è la poesia che si può indubbiamente definire, con parole di Mandel'shtam, "aria rubata".

5.4/ I miti non ancora demitizzati

5.4.1/ Mao

- cfr. memorie del medico personale di Mao, Li Zhisui

La morte dei mille tagli. La distruzione di Pechino (da Tiziano Terzani)
Tiziano Terzani visse in Cina dal gennaio 1980 fino alla primavera 1984, quando venne arrestato, rieducato e alla fine espulso. Come resoconto di quegli anni  egli scrisse nel 1984 T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005. Da quel volume riprendiamo alcuni brani che riguardano Pechino ed aiutano a capire cosa avvenne negli anni del maoismo fino all’apice della distruzione di tutta la tradizione del passato a causa della “rivoluzione culturale” ideata e portata avanti dall’allora leader Mao Tsetung (in cinese Mao Zedong) a partire dal 1966.

Da T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005, pp. 35-36
I comunisti hanno trasformato i templi e li hanno resi «utili». «Fare di Pechino una città produttiva» fu la parola d'ordine. Pechino, per produrre, aveva bisogno di fabbriche. Le fabbriche avevano bisogno di spazio e i templi, coi loro bei cortili vuoti, erano la soluzione ideale per lo sviluppo industriale della capitale.
La politica del ji (dello «spingere via»), come era appunto chiamata all'interno del partito, serviva a due scopi: da un lato contribuiva alla produzione, dall'altro alla distruzione della religione.
La tattica era semplice e sempre la stessa: un 'unità si presentava in un tempio con pochi macchinari e molta cortesia. Facendo le riverenze ai monaci e chiedendo continuamente scusa, l'unità s'installava in un angolo del tempio cominciando a lavorare. Dopo un po', sempre con estrema cortesia e rispetto, un quadro politico andava a spiegare ai monaci che, per il benessere della gente, la produzione era almeno così importante quanto le loro preghiere e che per questo la fabbrica aveva bisogno di un po' più di spazio. Altri macchinari venivano introdotti. A distanza di qualche mese il ragionamento veniva ripetuto finché il tempio non era pieno di macchine e di operai, e ai monaci non restava che andarsene.
Fu così che, piano piano, al di sopra dei bei tetti colorati dei templi, accanto alle torri campanarie, si alzarono decine, poi centinaia, di ciminiere che cominciarono a vomitare zaffate nere di fumo in un cielo che era stato da sempre azzurrissimo.
I templi, uno dopo l'altro, diventarono fabbriche. Durante il solo «Grande Balzo in Avanti» millequattrocento fabbriche furono aperte nel centro della città. Ci sono ancora. Il Tempio del Grande Budda produce calchi per fornaci, il Tempio della Colta Saggezza produce filo elettrico, il Tempio del Dio del Fuoco, giustamente, produce lampadine, il Tempio della Nuvola Bianca, il più grande centro di studi taoisti in Cina, diventò in parte un magazzino e in parte fu assegnato a varie officine di riparazione.
Pechino, i cui cieli erano stati leggendari per la loro chiarezza, divenne presto una delle città più sporche al mondo, mentre la propaganda cinese, ripresa e ripetuta a pappagallo da vari scrittori, giornalisti e intellettuali occidentali abbindolati da un soggiorno di due settimane, esaltava la grande abilità delle autorità comuniste nel controllo dell'inquinamento.

Da T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005, pp. 37-41
Non tutti i templi, però, sono diventati delle fabbriche. Alcuni sono stati semplicemente distrutti per far posto a delle strade, com'è successo al Tempio dell'Abbondante Tranquillità e a quello del Budda Addormentato che stavano fuori Hatamen, o per far posto a nuovi - e, dal punto di vista comunista, più utili - edifici com'è successo al Tempio della Pagoda della Legge, abbattuto per costruire lo Stadio dei Lavoratori, o al popolarissimo Tempio della Fiorente Felicità, sacrificato per far posto a un supermercato. Le due grandi tartarughe di marmo che stavano a guardia di questo tempio, amatissimo dai pechinesi, sono finite miseramente a pancia all'aria fra le rovine del vecchio Palazzo d'Estate.
Un paio di templi, invece, vennero lasciati intatti e aperti al culto appunto per dar credito alla finzione, ripetuta nel testo di ogni nuova costituzione (dal 1949 ce ne sono già state cinque), che il regime comunista riconosce e garantisce la «libertà di religione». Fu così che il Dong Yue Miao, il Tempio della Vetta Orientale, sopravvisse fino al 1959 con migliaia e migliaia di fedeli che ogni giorno si riversavano nelle sue centocinque stanze per andare a inginocchiarsi e pregare dinanzi agli altari di mille diverse divinità che stavano lì di casa.
Secondo la credenza, infatti, era lì che le anime dei defunti dovevano presentarsi al cospetto degli dei che presiedono alle prigioni dell'oltretomba per sapere a quale tipo di tormenti sarebbero stati sottoposti per le malefatte commesse durante la vita. Questo tempio, il più grande centro del culto taoista nel nord della Cina, era perciò importantissimo, e frequentatissimo dalla gente che vi si recava a pregare per i propri defunti e a raccomandarli perché sottoterra venissero trattati con clemenza. Quando il tempio fu chiuso, l'unità che vi si insediò fu la temuta Pubblica Sicurezza, che da lì controlla la vita di ogni cinese. «Almeno in questo caso i comunisti hanno rispettato lo spirito del posto», dice un amico intellettuale che vive lì vicino. «Questo tempio aveva a che fare con prigioni prima e ha a che fare con prigioni adesso».
Il tempio è giusto dietro Qi Jia Yuan, il principale quartiere dove vivono gli stranieri e si dice che sia lì il centro di ascolto di tutti i nostri telefoni e il centro di lettura di tutta la nostra posta. L'ingresso, un tempo grandioso e marcato da un bellissimo pai-lo, ora è seminascosto da una fila di baracche. Un giorno, facendo finta di essermi perso, ho cercato di entrare dentro il primo cortile, la cui vista è bloccata dal solito muro su cui sta scritto SERVIRE IL POPOLO, ma, fatti appena un paio di passi, due scorbutici giovanotti in abiti normali mi hanno, senza accettare l'invito a far due chiacchiere, riportato sulla strada. Le statue sono scomparse, alcuni degli edifici sono stati abbattuti e un brutto baraccone di mattoni rossi è stato costruito giusto al centro del cortile principale.
Nella Pechino di oggi [N.d.R. 1984] non esiste un solo vero tempio, un tempio come se ne vedono a decine a Hong Kong, a Macao o in qualsiasi paese del sud-est asiatico dove vivono dei cinesi; un posto dove la gente va e viene a piacere, dove non paga un biglietto d'ingresso; un posto dove pregare, mettere bacchette d'incenso agli dei, interrogare dei pezzi di bambù per conoscere il proprio futuro; un posto dove chiacchierare o meditare.
I tre templi che sono stati riaperti nelle Colline Occidentali, così come il Tempio delle Cinque Pagode che è stato riaperto dopo essere stato usato per quindici anni come allevamento di cani per la polizia, non sono posti religiosi, sono semplicemente luoghi di divertimento, mete per passeggiate domenicali. Non è un caso infatti che l'ufficio della municipalità di Pechino, che è responsabile di questi templi, sia lo stesso che è incaricato dei giardini pubblici e dello zoo.
Nel centro di Pechino, il Tempio di Confucio è stato trasformato in un museo. Al momento accanto alla solita mostra su uno dei fondatori del Partito Comunista ce n'è una dei bronzi antichi recuperati dalla spazzatura: la gente, durantela Rivoluzione Culturale, cercava di disfarsi così delle proprie antichità per non essere accusata di gusti borghesi.
Il Fa Yuan Si, il Tempio della Fonte della Legge, è diventato la sede dell'Istituto Buddista e - come lo Huang Ji Si, il Monastero della Grande Misericordia - è usato per ricevere (e impressionare) le delegazioni buddiste che vengono dall'estero. Il Yung He Gong, il Tempio dei Lama, come viene solitamente chiamato, serve invece come attrazione turistica per i normali gruppi di stranieri che giungono in autobus dotati di aria condizionata. I pochi, vecchi monaci, che si aggirano per i cortili nelle loro tuniche colorate a uso delle macchine fotografiche, sono stati importati dalla Mongolia. I giovani monaci, che stanno di guardia alle varie sale e leggono riviste tipo Cinema Oggi o Il mondo dello sport, hanno più l'aria di poliziotti travestiti che di novizi in apprendistato.
Questo tempio era famoso, fra l'altro, per le sue statue e i suoi dipinti erotici che i monaci usavano per meditare sulla vita umana e sublimarne gli istinti più naturali. Molti degli originali sono scomparsi, rubati, distrutti o venduti. Alle copie sono state messe delle copertine gialle per nascondere i divini genitali e le acrobatiche posizioni dei copulanti.
Ogni tanto in questo tempio si vede qualche turista di Hong Kong mettere una bacchetta d'incenso davanti a una statua. Un gesto, questo, che nessun cinese normale può permettersi, non foss'altro perché il biglietto d'ingresso al Tempio dei Lama, come in altri templi, è di cinquanta centesimi, cioè l'equivalente di una mezza giornata di lavoro. L'incenso, poi, nella Cina di oggi non è più un ingrediente delle funzioni religiose, e quell'odore una volta sacro non lo si associa più, come altrove nel mondo, con l'atmosfera di un tempio o di una chiesa, ma con i gabinetti degli alberghi dove l'incenso viene usato per combattere l'onnipresente puzza di cavolo.
All'inizio degli anni '60 i comunisti cinesi erano già riusciti a trasformare la vecchia Pechino in una città più consona a quel che loro immaginavano dovesse essere una capitale socialista.
Il nuovo regime aveva i suoi simboli nei grandi palazzi che erano stati costruiti lungo il viale della Lunga Pace, gli operai avevano il loro enorme stadio, i contadini il loro gigantesco Palazzo delle Esposizioni (l'ultima mostra che ci ho visto era di tappeti!), le minoranze etniche avevano il loro Centro Culturale e i ferrovieri la loro nuova stazione.
Ogni edificio era grandioso e la barzelletta che circolava fra la gente a quel tempo era: «Credevo che ai comunisti non piacessero i templi...». «È vero, non gli piacciono quelli degli altri, per questo costruiscono i loro».
Quel che il nuovo regime non aveva a questo punto ancora toccato era l'anima della capitale.
Pechino era una città caratterizzata dal privato, una città in cui ogni famiglia viveva all'interno di un cortile circondato da mura che la separavano e proteggevano dal resto del mondo. L'una accanto all'altra, queste «case su cortile» (in cinese si-heyuan, vale a dire un cortile che unisce quattro costruzioni) erano allineate lungo le strade e i vicoli che, come una scacchiera, costituivano il tessuto urbano della città. Le strade erano circa tremila, i vicoli, gli hutung, come dicono i pechinesi, erano «tanti quanti i peli di un bufalo».
Di queste «case su cortile», un'invenzione tipica dell'architettura della Cina del Nord dal XII secolo in poi, ce n'erano a decine di migliaia. All'esterno, una piccola porta rossa di legno, con fregi, fiancheggiata da due sculture in pietra che si apriva nel monotono grigio dei muri degli hutung. All'interno, dopo un piccolo muro proprio davanti all'ingresso, così da sbarrare il passo agli spiriti malefici, che si muovono solo in linea retta, la delicata armonia di quattro costruzioni basse a un piano: la facciata dipinta in rosso e verde, il tetto di tegole grigie e curve, le finestre di carta bianca contro la geometria degli intagli di legno. Nel mezzo della corte, un albero. A un cortile ne seguiva un altro e un altro ancora, e così via a seconda della ricchezza della famiglia.
Il siheyuan era il nascondiglio del privato, il rifugio dell'individualismo che il nuovo regime doveva appunto espugnare per poter davvero controllare Pechino.
Nel 1966 Mao Tsetung scatenò le Guardie Rosse, e questo fu uno dei compiti che affidò loro. «Questa casa è troppo grande per voi. Una stanza è più che sufficiente per la vostra famiglia. Le altre debbono servire il popolo», dicevano i giovani ribelli. Lo slogan era sempre lo stesso. I risultati anche.
Bande di giovani con bracciale rosso (solo i figli di operai, contadini e soldati avevano diritto a questa distinzione) invadevano, seguite da masse e masse di gente, le case «su cortile» e inscenavano «processi popolari» contro i proprietari e i loro familiari. Le case vennero svuotate, i beni confiscati. Mobili vecchi e antichi, quadri, vasi di porcellana, vestiti, gioielli, collezioni di libri e album di famiglia vennero caricati su camion e portati via. Il resto, gettato nei cortili, veniva fatto a pezzi e dato alle fiamme. Ogni casa diventò un campo di battaglia con gente picchiata a sangue, molti a morte.
I processi duravano a volte giorni e giorni e molta gente, temendo quel che sarebbe loro successo l'indomani, preferì distruggere ciò che possedeva, vendere le proprie biblioteche a tanto il chilo come carta da pacchi, o suicidarsi. Quando questi processi finivano, famiglie arrivate da fuori Pechino e dai dormitori sovraffollati delle fabbriche venivano mandate a stare nelle case «su cortile» accanto ai vecchi proprietari diventati improvvisamente poveri e disperati come tutti. Là dove prima viveva una sola famiglia, se ne installarono cinque, a volte dieci, che andavano a occupare ogni angolo, a tagliare gli alberi, a costruire piccole baracche da usare come cucine e ripostigli.
Le Guardie Rosse svolsero il loro lavoro meticolosamente. Casa per casa, vicolo per vicolo, il nuovo regime entrò così nel cuore della capitale.
Oggi non esiste una sola strada che abbia conservato quella modesta eleganza della vecchia Pechino, quella silenziosa bellezza fatta di lunghi muri grigi punteggiati qua e là dal rosso smagliante di un portone, fatta di fronde di alberi tremolanti fra le curve dei tetti sotto i quali gente di infinita forza ha, per secoli e secoli, tenuto in vita una grande civiltà. Non esiste più un solo cortile con quella raffinata atmosfera in cui lo studioso era solito invitare i suoi amici a godersi lo sbocciare dei crisantemi e a passare la notte scrivendo poesie alla luna.
«I templi e i palazzi erano l'aspetto eccezionale di questa città e la loro distruzione è stata un'enorme perdita», dice uno storico cinese, «ma ciò che ha davvero ucciso Pechino è stata la distruzione del quotidiano, della 'casa su cortile'».

Da T. Terzani, La porta proibita, Longanesi, Milano, 2005, p. 34
Il vecchio cimitero cattolico di Chala, nella parte occidentale della città, dove nel XVII secolo fu sepolto Matteo Ricci assieme ad altri gesuiti europei, può essere visitato solo con un permesso speciale. È ora al centro di un complesso di edifici nuovi e massicci: la Scuola del Partito ComunistaA parte le pietre tombali di Ricci, Verbiest e Schall recuperate fra le rovine, riparate e messe in mostra per soddisfare la curiosità di alcuni dignitari stranieri - i cinesi sanno che ci tengono a quelle cose (il primo a esserci portato fu il senatore Vittorino Colombo) -, le altre pietre giacciono in disordine su una vasta area dove sembra essere passato un terremoto e vengono usate come tavoli per mangiare dagli allievi della scuola. Le scritte sono in francese, italiano e latino, e con pazienza si possono leggere i nomi di coloro che in passato furono sepolti qui perché riposassero in pace.

5.4.2/ Fidel Castro e Che Guevara

da L’Unità del 31/8/2010 breve articolo redazionale
Fidel Castro chiede scusa agli omosessuali per averli perseguitati a Cuba negli anni '60 e '70. «Se qualcuno è responsabile, sono io. Non darò la colpa a nessuno», ha dichiarato Castro, 84 anni, in un'intervista al quotidiano messicano La Jornada, rilanciata dai media cubani. «Personalmente non ho pregiudizi», ha dichiarato l'ex presidente secondo cui l'aver inviato i gay in campi di lavoro agricolo-militari, sia stata «una grande ingiustizia».
In una sorta di contrappasso la nipote, Mariela Castro, psicologa di 47 anni, figlia del presidente Raul, capeggia la lotta contro la discriminazione dei gay. L'omosessualità è stata depenalizzata a Cuba solo nel 1997.

dal Messaggio del Che sulla rivista Tricontinental (Messaggio alla Tricontinental, articolo di Ernesto Guevara pubblicato sulla rivista Tricontinental all'Avana il 16 aprile 1967)

Il grande insegnamento della invincibilità della Guerriglia farà presa sulle masse dei diseredati. La galvanizzazione dello spirito nazionale, la preparazione a compiti più duri, per opporsi a repressioni più violente. L'odio come fattore di lotta - l'odio intransigente contro il nemico - che spinge oltre i limiti naturali dell'essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così, Un popolo senza odio non può vincere un nemico brutale.

Cfr. Che Guevara sconosciuto, di Massimo Caprara,"Il Timone" n. 20, Luglio/Agosto 2002

5.5/ ll controllo della Cultura

Il «bibliocidio» della politica: la distruzione dei libri nella Russia comunista, di Adriano Dell’Asta da Avvenire del 9/8/2009
Orwell si era inventato un regime nel quale la storia veniva quotidianamente riscritta, Bradbury aveva narrato la vicenda di un mondo futuro nel quale i pompieri non avrebbero avuto come compito principale quello di spegnere gli incendi, ma quello di bruciare i libri, e il russo Zamjatin aveva dato vita alla figura di una scimmia che non aveva dimenticato il momento in cui l’uomo aveva avuto la meglio su di essa: «La scimmia non se l’è più dimenticato e continua a ricordarselo sino a oggi: provate a darle un libro, e subito comincia a strapparlo, a farlo a pezzi, a insozzarlo».
Tre scrittori e la loro geniale fantasia per arrivare a immaginare quello che è stato non solo il contenuto di una finzione letteraria, ma una storia reale; in effetti c’era già tutto in una banale circolare dell’Nkvd, nella quale si prescriveva di eliminare i libri sgraditi al regime «facendoli a pezzi o bruciandoli» e poi ovviamente eliminando anche le relative schede bibliografiche.
Va precisato che in Urss in molti casi non tutte le opere venivano distrutte e per lo meno alcune copie venivano conservate negli appositi settori speciali chiusi delle grandi biblioteche; resta comunque il fatto che l’opera di distruzione del patrimonio librario russo, portata avanti dal regime sovietico dalla sua nascita alla fine, è stata così eccezionale per quantità e qualità che si è arrivati a coniare un nuovo termine per descrivere il fenomeno: bibliocidio
Il neologismo ne richiama evidentemente un altro, più famoso, quello di genocidio: non è un caso, anche il bibliocidio era caratterizzato da una radicalità assoluta che sembrava non volersi lasciar sfuggire nulla, neppure le tracce dell’esistenza di un libro, di un articolo, di una foto. È diventata proverbiale la storia, anche questa reale, della voce «Berija» nella Grande Enciclopedia Sovietica: quello che era stato il capo della polizia politica sovietica dal 1938 a poco dopo la morte di Stalin era appena stato eliminato fisicamente che subito si cominciò a cercare di eliminarne anche la memoria e così, ai possessori dell’Enciclopedia venne inviato un quartino con un nuovo testo che alla vecchia voce sostituiva una serie di ritocchi alle voci contigue e soprattutto una serie di foto del mar di Bering; il quartino era accompagnato da un fogliettino con queste ineffabili istruzioni per l’uso: «All’abbonato alla Grande Enciclopedia Sovietica. L’editrice scientifica statale 'Grande Enciclopedia Sovietica' raccomanda di togliere dal V tomo della GES le pagine 21, 22, 23 e 24, e anche il ritratto, incollato tra le pagine 22 e 23, al cui posto Vi vengono inviate le pagine con il nuovo testo. Con delle forbici o una lametta da barba si devono tagliare le pagine indicate, conservando vicino alla rilegatura un margine al quale incollare le nuove pagine». 
Il carattere quasi maniacale di queste istruzioni non deve stupire: è una caratteristica costante e ripetuta sino all’ossessione e al ridicolo, al punto che in un documento degli anni Trenta, insieme con le istruzioni ancor più particolareggiate su come eliminare pagine, articoli, frasi e parole, e accanto all’esortazione a far sì che le parole e le frasi cancellate non fossero più leggibili dopo l’operazione, abbiamo anche il monito finale che prescrive di «non rovinare l’aspetto esteriore del libro e il suo contenuto»: bisognava distruggere anche la memoria di quello che il regime aveva eliminato e non lasciar segni della distruzione.
Libri, articoli, foto, schede bibliografiche, tutto doveva essere cancellato ed eliminato in modo tale che l’eliminazione delle persone la cui esistenza veniva attestata da quei documenti andasse ben al di la della semplice eliminazione fisica; bisognava convincere che non ci fossero mai stati oppositori, che non fossero mai state prodotte opere d’opposizione; e, ancora di più, non ci si doveva limitare agli oppositori, ma si doveva convincere che non esistesse nessuna forma di pensiero, di azione e di esistenza al di fuori delle prescrizioni del partito; era il nuovo modo per eliminare l’opposizione: non si trattava solo di combatterla, ma di renderla impensabile.
Connaturata al sistema, l’operazione non era iniziata solo con Stalin e neppure con la guerra civile, ma immediatamente dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, prima con la requisizione delle biblioteche private di più di 500 volumi, poi con il decreto sull’editoria statale, del 29 dicembre 1917, nel quale si era stabilito che la responsabilità della pubblicazione delle opere dei classici sarebbe spettata unicamente all’Accademia delle Scienze, riformata, si precisava subito, «in conformità al nuovo ordinamento statale e sociale della Russia»; un passo ulteriore per rafforzare il monopolio statale sulla pubblicazione dei classici era stato fatto nel 1919 quando il diritto esclusivo alla pubblicazione dei classici venne attribuito alla neonata casa editrice di Stato, il Gosizdat
Ma decidere cosa pubblicare degli autori contemporanei o del passato evidentemente non bastava: si cominciò a eliminare: quello che era stato stampato prima della rivoluzione e quello che era stato stampato dopo, che era pur passato dal vaglio della censura ma non andava più bene. Così, ad esempio, accadde a un’opera come il libro sulla costruzione del Belomorkanal, un libro pubblicato nel 1934, voluto dal regime per cantare il valore rieducativo del lavoro servile dei detenuti dei campi di concentramento (nei cantieri del canale morirono in pochi mesi diverse decine di migliaia di persone), scritto con contributi di scrittori famosi come Gor’kij e Zoshenko, diventato un vero oggetto di culto e poiritirato dalla circolazione nel 1937, dopo la caduta in disgrazia di Jagoda, il capo della polizia politica che aveva diretto tutta l’operazione
E lo stesso sarebbe successo all’enorme quantità di letteratura antinazista che dal 1933 al 1939 era stata prodotta in tutta l’Unione Sovietica e poi, dopo gli scellerati patti tra Molotov e von Ribbentrop dell’agosto 1939, era diventata improvvisamente e sorprendentemente improponibile (tra le curiosità andrebbe ricordato che allora si ritirò dalla circolazione persino un libro che parlava della guerra di Abissinia: evidentemente per non offendere un amico fraterno di Hitler).
Noi evidentemente citiamo a caso alcuni degli esempi più clamorosi, ma nel Paese che aveva inventato la pianificazione anche decidere cosa eliminare non poteva essere lasciato al caso; a questo scopo venivano regolarmente compilate delle liste nere, nel 1929 ce n’è una con duemila titoli, nel 1931 sono tremila, nel 1938 si arriva a cinquemila, di circa 1600 autori per circa dieci milioni di esemplari, nel 1948 abbiamo seimila titoli. Nel solo mese di luglio del 1935 e nella sola Leningrado abbiamo notizia di oltre 20.000 libri bruciati. Secondo dati ufficiali, nel 1938-1939 vennero distrutti 16.453 titoli per più di 24 milioni di esemplari mentre nel 1940 vennero distrutte tutte le opere (senza esclusione alcuna) di 362 autori e ritirati dalla circolazione circa 3.700 titoli
Quando si parla delle dimensioni, della quantità e della qualità dell’operazione non si deve pensare soltanto al numero e al valore degli autori eliminati, ma anche ai criteri con i quali si sceglieva chi e cosa eliminare: ad attirare l’attenzione dei censori poteva essere una scienza sospetta, una tematica, la nazionalità di un autore (in certi momenti vennero eliminate tutte le letterature dei popoli dell’Unione Sovietica soggetti a repressione), addirittura poteva bastare la presenza nell’opera del nome di un nemico del popolo, ma poteva bastare anche che qualcuno scoprisse in una poesia un acrostico con uno slogan vagamente antisovietico (tra l’altro l’acrostico non era neppure fatto con le prime lettere di ogni verso, ma con le seconde; e questo dà anche l’idea di quante persone e di quanto tempo venisse gettato per questa attività di ricerca). 
Si arrivava evidentemente a degli eccessi stigmatizzati dalle stesse autorità, perché in qualche caso ad esempio vennero eliminati dei libri il cui autore era semplicemente omonimo di un autore caduto in disgrazia e la smania di purezza portò a far temere che per certe discipline si rischiasse di restare senza manuali: non ci si fermava neppure davanti ai cataloghi, ai repertori, alle bibliografie, ai dizionari e alle enciclopedie. 
Negli anni Trenta ad attirare l’attenzione della censura fu un dizionario accademico al quale venne rimproverato di comprendere termini come «idealismo» o «idealistico» e di citare come esempi Dostoevskij e Solov’ëv; gli autori del dizionario avevano inoltre avuto l’impudenza, nella voce «ideale», di utilizzare come spiegazione una citazione da Tolstoj che così recitava: «l’ideale della perfezione, dato da Cristo, non è un sogno o l’oggetto di prediche retoriche, ma la guida più necessaria e a tutti accessibile della vita morale degli uomini». 
Neppure i grandi classici ottocenteschi erano dunque al sicuro; non lo era Dostoevskij, i cui Demoni non poterono mai essere pubblicati in edizione separata, perché considerati un esempio di «farneticante misticismo» e un’opera «calunniosa e diffamatoria» nei confronti del movimento rivoluzionario russo; non lo era Gogol’, le cui Meditazioni sulla Divina Liturgia non vennero mai stampate neppure nelle edizioni accademiche; non lo era Cechov le cui lettere nell’edizione accademica del 1948-1952 subirono non meno di 500 tagli, tra i quali spiccano tutti i riferimenti alla figura del regista Mejerchol’d, evidentemente non secondario per l’attività di un autore come Cechov, ma non più evocabile dopo che era stato fucilato nel 1940
Sono note le vicende dei grandi autori del cosiddetto dissenso: i vari Solzenicyn, Grossman, Šalamov e tanti altri i cui libri non poterono mai essere pubblicati in Unione Sovietica e potevano penetrarvi solo clandestinamente; è nota, ancora prima, la vicenda di Pasternak e del suo Dottor Zivago , che venne pubblicato in Italia; e così si sa di Bulgakov e di Brodskij e di tanti altri grandi autori, ma alla luce di quanto abbiamo visto, questi nomi pur così significativi rischiano di non dare ancora un’idea delle dimensioni reali di questo fenomeno, della sua estensione e intensità: non si trattò mai soltanto di eliminare dei libri e degli autori che per qualche motivo risultavano inaccettabili per il potere, si voleva piuttosto eliminare un mondo, il libro in quanto tale, in quanto testimonianza scritta di un avvenimento che, reale o frutto della fantasia artistica, aveva quelle determinate caratteristiche uniche, irripetibili e irriducibili, che lo rendevano un fatto propriamente umano.

da Andrea Lonardo
La rivoluzione bolscevica esponeva le icone requisite alle chiese nei musei dell’ateismo e cercava di cosificare tutta la tradizione estetica della Chiesa ortodossa. Opponendosi a questa devastazione Pavel Florenskij, in un testo del 1918-1919 (La prospettiva rovesciata e altri scritti, N. Misler (a cura di), Gangemi editore, Roma, 1990, pp. 57-67), cercò inutilmente di mostrare come tutta l’arte che la tradizione religiosa russa aveva prodotto poteva conservare la sua bellezza solo nell’uso liturgico:

«Scopo del Museo è proprio quello di portare via l’opera d’arte intesa, erroneamente, come una certa «cosa» che si può rimuovere, e trasportare dove si vuole, e collocare come si vuole. Scopo del Museo è, al limite, l'annullamento dell'oggetto artistico come cosa viva. [...] L'oro, attributo convenzionale del mondo celeste, qualcosa di artificioso e allegorico in un museo, è un simbolo vivo, è «rappresentazione» in un tempio con lampade che ardono e infiniti raggi che si accendono. È proprio in questo modo che il primitivismo dell’icona, la sua colorazione, a volte chiara, quasi insopportabilmente vivace, la sua eccessiva ricchezza, la sua ostentazione, tengono sottilmente conto degli effetti dell’illuminazione della chiesa. Qui nel tempio, tutta questa esagerazione, attenuandosi, le dà una forza non raggiungibile con gli abituali procedimenti figurativi, e nel volto dei santi noi allora vediamo, con la chiesa così illuminata, i volti, cioè i lineamenti celesti, i fenomeni vivi dell’altro mondo, i prototipi [...]. In un museo vediamo non le icone, ma solo le loro caricature».

Da Chagall a Majakovskij, gli artisti annientati dal regime che avevano esaltato. L'idillio con la Rivoluzione, un tragico equivoco, di Sergio Romano, dal Corriere della Sera del 3/4/2009 un articolo scritto da Sergio Romano

Nella tragedia del popolo russo, come Orlando Figes ha intitolato il suo grande libro sulla rivoluzione fra il 1891 e il 1924,esiste un capitolo al tempo stesso tragico e paradossale. È quello sugli straordinari movimenti di avanguardia che fiorirono in Russia nei primi decenni del Novecento e fecero di quel Paese una ribollente fucina di innovazioni e sperimentazioni in tutte le arti, dalla letteratura alla poesia, dalla pittura alla scultura, dal teatro al cinema, dall' architettura alla musica.
Nello Stato dell' autocrazia, dei pogrom, della grande proprietà agraria, dell'analfabetismo diffuso e della indissolubile unione fra potere politico e potere religioso, gli scrittori e gli artisti godevano di una invidiabile libertà creativa e possedevano una sfrenata immaginazione. Erano rivoluzionari, naturalmente. Ritenevano di essere le pattuglie avanzate di una grande trasformazione politica e accolsero l' Ottobre rosso con grande entusiasmo divenendo immediatamente, ciascuno nel proprio campo, i corifei del potere bolscevico.
Da Andrej Belyi a Vladimir Majakovskij, da Nikolaj Gumilëv, marito di Anna Achmatova, a Maksim Gorkij, tutti gli scrittori dell' età d'argento, come fu definita la stagione letteraria russa agli inizi del Novecento, si misero al lavoro per dare al regime una politica culturale.
I grandi registi teatrali e cinematografici, da Konstantin Stanislavskij a Vsevolod Mejerchol'd, da Sergej Ejzenstejn a Vsevolod Pudovkin crearono spettacoli rivoluzionari. I pittori, i fotografi, gli architetti costruttivisti - Kazimir Malevic, Aleksandr Rodcenko, Vladimir Tatlin - disegnarono alcuni fra i più originali manifesti di propaganda dell'epoca e si dedicarono alle arti applicate per reinventare, con stile e significati rivoluzionari, tutti
gli oggetti della vita quotidiana.
Marc Chagall divenne commissario per le Arti a Vitebsk. Vasilij Kandinskij collaborò con il governo per la riforma dell'insegnamento artistico nelle scuole del nuovo regime. Questo grande sciame di api rivoluzionarie aveva due grandi protettori: Anatolij Lunacharskij e Maksim Gorkij. Il primo, commissionario per l' Educazione, era un menscevico, quindi intellettualmente estraneo ai furori ideologici della componente bolscevica del partito. Il secondo, Maksim Gorkij, si compiaceva di esercitare sulla intelligencija russa una funzione pontificale. Insieme e con l'aiuto di Bogdanov, i consoli dell' arte sovietica vigilarono affinché gli intellettuali e gli artisti potessero esprimere liberamente il loro talento.

Questo innaturale idillio tra le avanguardie russe e il regime sovietico durò fino alla seconda metà degli anni Venti, quando la cappa del realismo sovietico e i detestabili gusti estetici di Stalin chiusero, una dopo l' altra, le finestre che le grandi avanguardie russe avevano aperto nella cultura del loro Paese.

Quasi tutti i protagonisti della grande rivoluzione artistica del ventennio precedente uscirono di scena, alcuni tragicamente. Chagall, Kandinskij e Natalia Goncharova scelsero la strada dell' emigrazione. Sergej Esenin e Majakovskij si suicidarono, il primo nel 1925, il secondo nel 1930.

Malevic fu arrestato nel 1930 e morì nel 1935. Izaak Babel sopravvisse penosamente fino al 1940. Mejerchol'd fu torturato, processato e ucciso nello stesso anno. Quelli che sfuggirono alla morte dovettero adattare il loro stile ai canoni imposti dal regime. I vecchi esponenti dell' arte anti-borghese divennero così cortigiani della nuova borghesia sovietica.

All'origine della loro sorte vi era un tragico errore. Nel 1917, quando i bolscevichi presero il potere, gli intellettuali e gli artisti delle avanguardie erano convinti di essere rivoluzionari. Erano invece il raffinato prodotto del grande sviluppo economico della Russia dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento e della nuova borghesia che ne era protagonista.

Odiavano i borghesi che avevano comprato le loro opere e incoraggiato le loro energie creative. Amavano la rivoluzione che li avrebbe uccisi, cacciati dal loro Paese o, nella migliore delle ipotesi, zittiti.

Da Marc Chagall in À la Russie, aux ânes et aux autres, di François Lévy-Kuentz, di Andrea Lonardo

Quando il comunismo prende il potere in un primo periodo Chagall viene valorizzato. Ma comincia poi a prenderne le distanze. Afferma, ad esempio, di non capire perché la poesia ha tanto bisogno di gridare.

Viene impiegato come scenografo in un teatro a Mosca. Il teatro sarà, però, chiuso dal regime. Una intera sua scenografia viene nascosta e salvata per 50 anni da suoi ammiratori. Il regime comunista impedisce infine a Chagall di dipingere e lo invia come insegnante in un collegio di orfani di guerra.

Compresi che né la Russia imperiale, né quella dei Soviet avevano bisogno di me”.

da un’intervista di Luciana Montagnani a Izrail’ M. Metter in appendice a Il quinto angolo, Einaudi, Torino 1991
Al termine dell’incontro lei fu l'unico in tutta la sala ad alzarsi e applaudire. È così?
Sì, è così. E adesso anche da noi si parla di quel gesto come di un gesto di eroismo. Ma, vede, non si trattò affatto di eroismo, per una semplicissima ragione: quando mi misi ad applaudire, io ero convinto che tutta la sala mi avrebbe assecondato. Ero assolutamente certo che sarebbe stato così: Zoscenko era così amato, il suo discorso era stato così accorato e sincero, e io me ne stavo lì in piedi e piangevo, ero sicuro che tutti avrebbero applaudito insieme a me.

"La dittatura temeva Dante, i gulag erano come l'Inferno". Kadare racconta l'Albania tra passato e futuro, Un’intervista di Giovanni Cedrone e Liljana Maksuti, da La Repubblica del 19/11/2014

La storia e la geografia hanno fatto sì che Italia e Albania, collocate al centro del Mediterraneo, abbiano avuto sempre un rapporto molto stretto. Oggi come vengono percepiti l'Italia e gli italiani in Albania?
Il pensiero degli albanesi verso l’Italia è un pensiero molto intimo. L'Italia è un nostro vicino, da più di mille anni è collegata con l’Albania. Io ho da tempo manifestato una certa scontentezza per l'atteggiamento dell'Italia verso l'Albania, non ha avuto una risposta adeguata. Sono due paesi uno di fronte all'altro. Hanno collaborato 100 volte, con principi e con eserciti. Alla fine è successo che gli italiani sono sbarcati in Albania. Per gli italiani era una “unione”, una parte degli albanesi l’ha considerata "occupazione", anche se non mancavano albanesi che la pensavano come gli italiani. La storia è nota. Con il passare del tempo la visione di questa vicinanza è mutata e da parte dell’Italia c'è stata negligenza verso questo Paese vicino. Un Paese che per quattro anni è stato unito all’Italia: Vittorio Emanuele III era “Re d’Italia e d’Albania” e “imperatore d’Etiopia”. Questa complicazione storica avrebbe inevitabilmente creato dei problemi. Io penso che la parte albanese sia stata sempre bendisposta verso la parte italiana. Sottoscrivo questa tesi. Il popolo albanese conosce molto bene la cultura italiana (la pittura, la musica, la letteratura), e una complicazione politica (l’occupazione) non ha modificato questa cosa, cioè l'interesse verso l’Italia. Per esempio Italia e Albania, unite, avevano un Re e quindi un grande poeta ufficiale: questo era Dante Alighieri. Con la dittatura comunista ci si poteva aspettare un raffreddamento dell'attenzione verso Dante. L’Albania è il paese ex comunista dove Dante Alighieri è più studiato. Addirittura Dante Alighieri è più studiato in Albania che in Francia. Questo amore che non cambia per la politica o per un’occupazione è una grande cosa. L’opera completa di Dante Alighieri è stata tradotta tre volte durante il comunismo in Albania. Dante è uno scrittore che ha messo in difficoltà il comunismo. L’Inferno di Dante veniva paragonato ai gulag comunisti e ciò lo rendeva poco gradito ai regimi comunisti, perché l’essenza della sua opera era la punizione del crimine: chi commette il crimine deve pagare. Per questo il comunismo non lo amava. Nonostante questo è stato tradotto in Albania. Io penso che l’Italia avrebbe dovuto essere più attenta verso l'Albania. Doveva aiutarla. Come ha fatto la Francia con l'Algeria, da sempre molto sensibile verso la sua ex colonia, nonostante fosse lontana, in un altro continente e di religione musulmana. Noi abbiamo un'importante comunità albanese in Italia, il Paese con noi si è comportato molto bene. Ma durante il comunismo l’Italia sapeva cosa stava accadendo in Albania, avrebbe dovuto interessarsi molto di più. L’Italia si interessa a Paesi molto lontani come Madagascar, Angola e altri, ma non all’Albania. Io a volte vedo dei documentari italiani sulla Seconda guerra mondiale e in alcuni viene dedicato non più di trenta secondi all’occupazione italiana dell’Albania nel 1939 operata da Mussolini.



5.6/ La Scienza

Il Rasputin della scienza, di Giovanni Maria Pace, da la Repubblica.it 28/9/1989
La rivista Nature pubblica un articolo di Valery Soyfer sull' agronomo sovietico Trofim Lysenko: figura controversa come poche, un Rasputin della scienza che, morendo nel 1976, lasciò dietro di sé pochi rimpianti e molti misteri, alcuni dei quali sono oggi più decifrabili grazie alla perestrojka. Lysenko divenne il beniamino di Stalin e, forte di tanto appoggio, assunse una posizione egemone nella biologia sovietica che ebbe molto a soffrirne, rimanendo tagliata fuori dalla moderna genetica. Ma il suo nefasto influsso si esercitò anche sull'agricoltura: c'è infatti chi sostiene che sul conto del lysenkoismo vada messo anche il fatto che la Russia, da esportatrice di prodotti dei campi qual era al tempo degli zar, divenne, e resta tuttora, carente di grano, carne, burro. Come poté un uomo solo nuocere tanto? Recenti ricerche e indagini originali consentono ora una risposta più precisa come risulta appunto dall' articolo di Soyfer (New Light on the Lysenko Era). L'interpretazione corrente vuole che all'inizio della sua carriera Lysenko fosse un ricercatore innovativo e intelligente; una partenza brillante che avrebbe pavimentato la strada del futuro successo. E' una ipotesi corretta? Nato da una famiglia contadina, Lysenko frequenta, seppure in modo torrentizio, ciò che noi chiameremmo un istituto professionale per l' agricoltura. Sono anni roventi e la Rivoluzione cerca faticosamente di aprire nuove scuole da contrapporre alla vecchia e odiata istruzione borghese. Come giovane ricercatore, Trofim non ha particolari meriti se non quello della scelta di campo; una scelta che, insieme all' origine proletaria, lo predestina a far parte dell' intellighenzia rossa. Nel 1925 un fortunato (più per l'inverno mite che per la sapienza del seminatore) raccolto di piselli gli guadagna l' elogio della Pravda, che nel professore a piedi scalzi crede di riconoscere l'impronta del genio. Lysenko salta allora dai piselli ad altri vegetali e si mette a studiare l' effetto del freddo sulla crescita di determinate specie. Le memorie che presenta in quel periodo ai congressi sono ponderose e irte di tabelle, ma non dicono granché. Nel 1929 propone un trattamento a bassa temperatura dei germi di grano, esaltandone i vantaggi produttivi; e nonostante lo scetticismo degli ambienti scientifici organizza una campagna di stampa a favore della vernalizzazione, come egli chiama il procedimento. Nel suo fervore creativo pubblica altri lavori, talvolta dimenticando di citare precedenti paternità delle sue scoperte. Ma non gradisce che la distrazione gli sia fatta notare: uno scomodo testimone del saccheggio, N.M. Tulaikov, negli anni Trenta verrà attaccato dai lysenkoisti e accusato di attività ostile, finendo fucilato. Il punto cruciale nella irresistibile ascesa di Lysenko resta però il rapporto con Nikolaj Vavilov, il grande biologo che dotò l'Unione Sovietica della prima raccolta al mondo di piante di interesse alimentare e che la storiografia riconosce come il padrino scientifico del rampante agronomo. Come mai un vero scienziato quale Vavilov si lasciò irretire dallo pseudoscienziato Lysenko? La questione intriga da sempre gli studiosi. Secondo Zhores Medvedev, il biologo russo emigrato a Londra, è vero che Vavilov propose Lysenko per il premio Lenin e per l'Accademia delle scienze, ma lo fece senza intenzione, comportandosi come un capo di istituto distratto che firma senza leggere. Nell' articolo su Nature Soyfer (biotecnologo alla Ohio State University) è invece del parere che Vavilov sia stato il consapevole trampolino di lancio per Lysenko. Perché? Una ragione potrebbe essere che il noto studioso dell'evoluzione vegetale accettava lealmente la Rivoluzione e avvertiva l'imperativo sociale di promuovere gli scienziati del popolo. Oppure, più credibilmente, Vavilov si era messo, con la banca dei semi, in una impresa che lo sovrastava; e un uomo come Lysenko, capace a suo dire di far germinare e acclimatare piante esotiche nel nuovo ambiente, appariva l' uomo della provvidenza. Vavilov tesse le lodi di Lysenko davanti al Presidium dell' Accademia delle scienze agricole e al Cremlino. Solo nel 1936-' 37 si rende conto di chi sia veramente il personaggio; ma ormai è troppo tardi, l'agronomo della vernalizzazione è ora il favorito di Stalin e ha già posto mano al piano di sistematica distruzione degli oppositori scientifici. Muovendosi in senso contrario alle linee di sviluppo della biologia mondiale, Lysenko predica la dottrina della ereditarietà dei caratteri acquisiti, negata un secolo prima dall'evoluzionismo darwniano. L' agronomo attacca direttamente Vavilov, chiamandolo nemico della sua propria scienza; un' accusa che finirà anch' essa in tragedia, in quanto il celebre botanico verrà arrestato nel 1940 e finirà i suoi giorni in prigione. Nell'immediato dopoguerra la distruzione dell'agricoltura nella Russia invasa da Hitler e l'eliminazione dei migliori agronomi dovuta al lysenkoismo spingono il paese sull'orlo di una carestia che i velleitari piani di Lysenko non sono certo in grado di combattere. La stella del grande impostore si offusca e c'è chi scommette sulla sua imminente fine politica: anche perché Lysenko viene indirettamente colpito dai misfatti del fratello che, dopo essere passato ai nazisti, è fuggito in Occidente. Molti studiosi hanno nel frattempo sperimentato la famosa vernalizzazione, senza notare alcun aumento nella resa delle piante; e lo dichiarano nei congressi. A guidare la cordata degli oppositori è in questa fase Jurij Zhdanov, responsabile per la scienza del Comitato centrale del Pcus e fratello dell' autorevole segretario del medesimo Comitato. Le accuse sono incalzanti. Ma Lysenko, dimostrando di conoscere a fondo la psicologia del dittatore, manda una lettera a Stalin in cui si dipinge come l' agnello sacrificale caduto tra le fauci dei lupi della genetica. Voglia, il compagno Stalin, accogliere le sue dimissioni da presidente dell' Accademia leniniana delle scienze agricole, consentendogli di tornare alla ricerca e allo studio, che sono i veri interessi della sua vita. Il contropiede è efficace e tempestivo. L' Accademia sta infatti per rinnovare molte cariche, aprendo prevedibilmente le porte agli avversari del lysenkoismo. Ma Trofim ha in tasca l'arma segreta. Due anni prima Stalin gli ha assegnato il compito di sviluppare un particolare tipo di grano a più spighe, che dovrebbe assicurare abbondanti raccolti. Lysenko sa che il compito è impossibile, ma lo accetta per riconquistare la benevolenza del capo. I risultati ovviamente non ci sono. Però Lysenko assicura che non tarderanno; anzi, se Stalin permette, la nuova varietà verrà chiamata con il suo nome. Il dittatore approva, pone termine d'autorità all'ingiusta persecuzione e favorisce anche il disegno di Lysenko di non indire le elezioni all' Accademia, cooptandovi invece scienziati di sicura fede lysenkoista e lamarckiana. Tra essi entra nell'Accademia un ufficiale del Kgb (che nel 1948 si chiama ancora Nkvd) ed ex direttore dei campi di lavoro scientifico forzato, dove sono spariti molti valenti ricercatori. L'ufficiale si occupa personalmente di infliggere pene corporali agli accademici frondisti. Jurij Zhdanov manda una lettera aperta a Stalin in cui riconosce la propria immaturità politica, aggravata dalla colpevole tendenza a sostituire l'obiettivismo scientifico alla logica di partito. Tremila ricercatori vengono allontanati dal posto di lavoro; il trionfo di Lysenko è completo. Sulla genetica sovietica cala il sipario, e saranno necessari molti anni per sollevarlo. Annunciandone la morte avvenuta nel ' 76 a settantotto anni, anche l' Unità si troverà a scrivere: La figura di Lysenko è purtroppo tra quelle cui non si può rendere omaggio neppure al momento della scomparsa....

6/ I martiri

I nuovi martiri del XX secolo della Chiesa Russa, uccisi durante il comunismo: l’icona della cattedrale del Santissimo Salvatore a Mosca

La chiesa ortodossa russa contava nel 1917 circa 210.000 membri del clero (100.000 monaci ed oltre 110.000 preti diocesani). Oltre 130.000 di essi furono fucilati nel periodo 1917-1941, nelle violente persecuzioni con le quali il regime comunista cercò di far scomparire la fede cristiana. 
Dei 300 vescovi presenti nel 1917 in Russia, ben 250 furono fucilati. Gli altri sopravvissero in carceri e campi di concentramento o, comunque, sottoposti a severe misure restrittive. Nel 1941 si trovavano in libertà solo 4 vescovi. 
La persecuzione si abbatté anche sui cattolici. Nel 1917 vivevano in Russia circa 2 milioni di cattolici, che potevano contare su circa un migliaio di sacerdoti, 600 chiese, altrettante cappelle, due seminari ed una facoltà teologica. Nel 1940 rimanevano due chiese, scampate alla distruzione perché di proprietà dell’ambasciata francese, e solo due sacerdoti. Furono fucilati nei lager, solo negli anni 1937-1938, circa 120 sacerdoti cattolici.
L’icona dei Nuovi martiri del XX secolo, dipinta dopo la canonizzazione nell’agosto 2000 da parte della Chiesa ortodossa russa della famiglia Romanov e di 850 martiri della fede cristiana sotto il regime comunista e custodita nella Cattedrale del Salvatore di Mosca, ci fornisce una sintesi iconografica di queste persecuzioni.

L’icona dei Nuovi martiri del XX secolo della 
cattedrale del Santissimo Salvatore di Mosca

La parte centrale

I nuovi santi sono rappresentati sullo sfondo della chiesa di Cristo Salvatore che si trova a Mosca. E’ stata scelta questa chiesa proprio perché simbolo   della sofferenza passata e del risorgere della Chiesa russa nei nostri tempi. Davanti alla chiesa si trova l’altare coperto da una tovaglia rossa, rosso che è il colore della Pasqua. Questa tovaglia è simbolo dell’eterna gioia pasquale, della vittoria sull’inferno e sulla morte, dell’esultanza di gioia nel regno celeste dove si trovano tutti i martiri. 
La Chiesa del Salvatore, nell’icona, è anche simbolo della Chiesa universale e del Regno dei cieli. L’unione   simbolica tra la chiesa e l’altare si manifesta nella Bibbia aperta sulle parole: “Non temete quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima”. La Bibbia sta sull’altare. In alto si trova la grande croce che indica il martirio di tutti coloro che sono   rappresentati nell’icona e, nello stesso momento, indica la vittoria della chiesa sul peccato attraverso la croce di Cristo. La croce è il simbolo principale della icona. Essa abbraccia tutte le persone orizzontalmente e verticalmente. La parte verticale ci presenta i martiri della famiglia reale con il re Nicola II al centro. La famiglia è vestita con i tradizionali vestiti reali, secondo lo stile bizantino, il che rappresenta la stretta unione tra la Russia e “Bisanzio”. I martiri reali si trovano sotto l’autorità gerarchica della chiesa, attraverso la quale essi ricevono la   benedizione di Dio e l’autorizzazione per guidare il popolo. A capo della gerarchia stanno il patriarca Tichon e S.Pietro Polanskiy. Il capo della chiesa, il patriarca Tichon, sta alla sinistra e non alla destra perché   nell’icona non conta la visione di chi guarda, ma la prospettiva va vista a partire dal centro spirituale di essa, cioè dall’altare. 
Sotto i capi della gerarchia della chiesa si trovano tutti gli altri: i santi martiri sacerdoti, monaci e laici, che, insieme, rappresentano l’unità e la complementarietà di tutta la chiesa.

Deesis

La Deesis rappresenta la chiesa celeste, perciò al centro naturalmente sta Cristo sul trono. Cristo tiene   nelle mani il Vangelo aperto sulle parole: "Io sono la luce del mondo" (Gv8,12). L’immagine di Cristo completa la linea verticale (al di sopra della raffigurazione centrale che abbiamo appena considerato): i martiri della famiglia regale – la croce – l’altare – la cupola del tempio. Grazie a questo la figura di Cristo occupa il posto principale nell'icona, manifestando il senso del martirio – la sequela sulla via della croce di Cristo. Nella Deesis dopo gli apostoli Pietro e Paolo seguono alcuni santi della chiesa russa dal X al XIX secolo. Dopo gli arcangeli Michele e Gabriele ed i due apostoli, ci sono,   infatti, l’apostolo Andrea ed il principe Vladimir. Seguono i santi: Petr, Aleksij, Iona, Filipp (i quattro santi “gerarchi”) poi Hermogenes e Giobbe,   poi i principi beati Boris e Gleb, poi San Sergio di Radone? e San Serafim di Sarov, San Giovanni di Kronshtadt il Giusto e Sant’Amvrosij di Optina. La sequenza dei santi istituisce il collegamento tra i santi del nuovo tempo ed i loro predecessori.

Le icone intorno all’immagine centrale

Nella parte verticale destra dell’icona è rappresentato il martirio dei singoli santi, nella parte verticale sinistra invece il martirio di gruppi di santi. L’icona centrale è caratterizzata dalla assenza delle azioni, invece le altre icone rappresentano l’azione del loro martirio. I soldati sono caratterizzati, nei loro vestiti, dal colore del fango, per mostrare l’associazione negativa con le forze demoniache. Inoltre le figure dei soldati non sono elaborate graficamente per sottolineare che essi sono ciechi strumenti nelle mani dei demoni per combattere la Chiesa. 
Presentiamo le icone più piccole a partire da quella in alto a sinistra, in senso antiorario.

Le Solovki 
 
Il monastero delle isole Solovki è   famoso nell’ortodossia proprio per i tanti martiri che vi sono vissuti. Sull’icona si vedono due isole, l’Isola Grande delle Solovki e l’isola di Anzer. Al centro si trova il monastero della Trasfigurazione, che divenne il luogo della detenzione. Nell’icona vediamo la chiesa del monastero dove erano   tenuti prigionieri i martiri, che si vedono dietro le sbarre. In primo piano davanti al monastero è rappresentata la morte dei monaci, mediante la fucilazione. I santi hanno le aureole e non hanno nomi, perché venivano uccisi in massa. Le fucilazioni e gli omicidi sull’isola erano fenomeni   usuali. 
Il posto più terribile sull’isola era il Colle della Sekira (a sinistra in alto). Dall’alto della montagna Sekira scende la scala con i 365 gradini (un numero simbolico). La scala fu usata come strumento di esecuzione. Il condannato a morte veniva legato ad un peso e gettato giù della scala. Ad uno dei santi vissuti alle Solovki era anticamente apparsa la Madonna (si trattava di San Iona). Era stata lei a chiedergli di costruire la chiesa su questa   montagna (la vediamo a destra) in onore della passione del Suo Figlio. 200 anni dopo questo luogo divenne il luogo dei martiri per Cristo. Sotto la chiesa si vede il corpo di San Petr Zverev, arcivescovo, uno dei martiri più   amati dell’isola di Anzer, che è lì sepolto. L’albero rappresentato nell’icona ha rami che hanno la perfetta forma della croce. Quest’albero è simbolo del fatto che Cristo stesso ha messo una croce in onore dei Suoi martiri.

Condanna a morte del Santo martire Beniamin, metropolita di Petrograd e di Gdovsk e degli altri che hanno condiviso con lui il martirio 
 
Nel 1922 San Beniamin e gran parte del suo clero sono stati chiamati a giudizio per una falsa accusa di resistenza alla confisca dei beni materiali della chiesa. La notte dal 12 al 13 agosto dello stesso anno San Beniamin e gli altri sono stati condannati a morte. 
Nella tradizione antica delle icone i giudici erano sempre rappresentati seduti, mentre i condannati erano in piedi. In questa icona è il contrario. Sia i condannati che il giudice sono rappresentati di tre quarti, rivolti gli uni verso gli altri e verso chi guarda l’icona. Il giudice tiene in mano il testo della condanna, sul testo si leggono solo i nomi dei santi (poiché la condanna è inconsistente) a confermare la falsità del giudizio e rivelare la forza del martirio nel nome di Cristo. Come risposta alla falsa condanna San Beniamin benedice il giudice. 
Dietro il muro è rappresentato il carcere di Petrograd.

Occupazione di uno dei più grandi santuari di tutta la Russia, la Laura della Trinità e di San Sergio ed il furto delle reliquie di San Sergio di Radone? 
 
Nel 1920 il monastero fu chiuso con la violenza e la santa reliquia fu trafugata e portata in un museo. Sull’icona è descritta l'entrata principale del monastero, bloccata dal soldato, la cui mano picchia i monaci per mandarli via. All'altro lato quattro soldati portano via il corpo di san Sergio. Al centro (dentro il monastero) vediamo il campanile senza, però, le campane, segno che il monastero è stato occupato e non può più svolgere la sua funzione. 
San Sergio, come grande protettore del popolo russo, è particolarmente legato   ai periodi delle prove e delle persecuzioni.

La prigionia del santo Patriarca Tichon nel monastero di Donskoj 
 
San Tichon, patriarca, primo fra i grandi santi vescovi della Chiesa Russa. Era un pastore zelante del suo gregge. Nell’icona   si vede il popolo, che rappresenta tutta la Russia, che aspetta il santo sotto la prigione per ricevere la sua benedizione. San Tichon benedice e istruisce il popolo: proprio questo era la sua missione nella chiesa. La   chiesa dipinta sull’icona rappresenta, come nelle altre, anche tutta la chiesa.

Fucilazione di “giusti” a Butov nei dintorni di Mosca, negli anni ‘30 
 
Il poligono di tiro di Butov è uno dei luoghi più tragici per la storia russa del XX secolo. Vi sono stati uccise, negli anni ’30, moltissime persone, i sacerdoti insieme ai laici, si ritiene tra le trecento e le quattrocento al giorno. Circa trecentomila fucilati sono stati seppelliti nelle fosse comuni. I condannati venivano portati di notte e, nella stessa notte, uccisi e sepolti nelle fosse comuni già preparate per tutti. Sull’icona si vedono due gruppi di martiri, i primi già morti e gli altri che vengono portati per la fucilazione. I martiri non hanno nomi perché simboleggiano il gran numero di   martirizzati di cui non conosciamo più l’identità. Al centro ci sono tre persone; l’anziano vestito di bianco al centro è un sacerdote che benedice i soldati che lo uccidono. A sinistra sono portati altri giusti a morire; le loro mani sono legate. I colori dei vestiti di questi martiri significano la loro santità e sono simbolo del passaggio alla vita   eterna. La composizione è molto simile a quella delle isole Solovki. Tutte le piccole icone non hanno dei contorni molto definiti e trapassano l’una nell’altra, a simboleggiare la città celeste, nella quale non c’è luogo né   spazio.

Fucilazione dei partecipanti alla processione della croce ad Astrakan. 
 
Su questa icona è rappresentata una delle processioni con la croce, con la quale tanti cristiani manifestarono la loro fede, dinanzi al nuovo regime. La composizione presenta lo scontro diretto di due forze. A sinistra c’è la   processione che marcia davanti alla chiesa, a destra, contro di essa, vediamo venire i soldati che sparano, martirizzando i fedeli. I primi della processione indossano le vesti diaconali, caratterizzandone il ministero, ed   uno di loro porta la croce. Al centro sta il vescovo Mitrofan fucilato il 23 giugno 1919. I giusti sono rappresentati con il colore rosso, simbolo della forza della loro fede.

La morte santa di Vladimir, metropolita di Kiev, il 25 gennaio 1918 
 
Vladimir fu il primo dei vescovi russi ad essere martirizzato. Combatté a Kiev contro i movimenti anticlericali, nazionalisti e contro le varie divisioni nel clero ucraino. Il santo fu arrestato in un monastero di Kiev (precisamente nella Laura di Pechersk). Al momento della morte San Vladimir benedisse i suoi assassini. Il momento dell'esecuzione non è rappresentato nell’icona. Il Santo è rappresentato due volte: quando viene prelevato per la fucilazione dalla sua residenza e nel momento del ritrovamento del suo corpo da parte dei monaci. Tramite questo martirio San Vladimir è diventato “simile a Cristo”: questo il tema dell’icona.

Spoliazione della residenza di Sarov e furto delle spoglie mortali di San Serafim 
       
I “deserti” di Sarov, resi famosi dalle gesta di San Serafim, nel secolo XIX, fanno parte dei luoghi particolarmente cari al popolo ortodosso ed a tutta la chiesa russa. Il monastero fu chiuso a forza nel 1927 e le sante reliquie di   San Serafim trafugate. Sull'icona è rappresentata la forma del monastero di Sarov. Sullo sfondo del campanile della chiesa, due soldati portano via le reliquie del santo che finiranno al Museo dell’ateismo di Leningrado, mentre dall'altro lato dell’icona un soldato caccia via i monaci che erano ancora presenti nel monastero.

Una donna sconosciuta con i suoi bambini e l’arresto di un sacerdote durante la divina liturgia 
 
La testimonianza del martirio femminile, nel periodo delle persecuzioni, fu grande: tante donne morirono martiri nei campi di concentramento e nelle prigioni. Quelle rimaste libere compirono con delicatezza il loro servizio   cristiano: accompagnarono e sostennero i sacerdoti nelle persecuzioni, passarono le loro notti davanti ai cancelli delle carceri per poter dare il necessario appena possibile a quanti si trovavano in essi, continuarono a   frequentare le chiese ed a pregare, educarono i bambini alla fede e, proprio per questo, grazie a loro, la chiesa ortodossa riuscì ad attraversare questo periodo cosi duro ed a conservare la fede. 
La donna rappresentata nell’icona non teme davanti ai soldati, perché crede nella grazia e nell’aiuto di Dio. 
Conosciamo numerosi casi, particolarmente durante i primi anni della rivoluzione, di persecutori entrati in chiesa anche durante la liturgia per arrestare od uccidere i sacerdoti che celebravano, cosa che è rappresentata nella parte destra di questa icona. Nella piccola chiesa, come tante altre in Russia, il sacerdote sta celebrando la messa, mentre entrano i soldati; uno di loro gli lega le mani, l’altro preleva i sacri oggetti dall’altare. Il viso del sacerdote assomiglia a quello di San Serafim di Sarov. La chiesa dette tutti i suoi beni a servizio dei poveri e degli affamati, ma, lo stesso, i calici e gli altri oggetti sacri furono usati usato come pretesto per la persecuzione.

Il martirio di Kirill, metropolita di Kazan’ a Chimkent il 7 (20) novembre del 1937
 
Il santo martire Kirill - ministro della chiesa e teologo altamente istruito, pastore saggio e amabile, sosteneva attivamente il santo patriarca Tichon nell’opposizione coraggiosa contro la forte pressione degli atei. 
Nell’icona è rappresentata la sua fucilazione ad opera dei nemici della chiesa. Il Santo prega, dinanzi a colui che guarda l’icona. Le mani alzate sono allungate solennemente nel gesto della preghiera e dell’ultima benedizione. I vestiti liturgici dal color rosso si contrappongono al verde scuro dell’uniforme dei soldati. L’oscuro profilo dei soldati, con il fucile puntato verso il santo, rappresenta l’imponente furia delle forze delle tenebre. Il paesaggio conserva la somiglianza generale con la località dove il santo fu martirizzato.

Martirio della famiglia reale a Ekaterinburg, il 4 (17) luglio del 1918 
 
Nonostante la forzata rinuncia dall'autorità, lo zar Nicola II si mantenne sempre fedele alla chiesa e alla patria, dicendo di essere pronto ad offrire la propria vita a Dio se fosse stato necessario. La famiglia reale, dopo aver   subito tante sofferenze e persecuzioni, fu uccisa nella cantina della casa dove era stata imprigionata, cantina che è rappresentata nell’icona. Divenne così un modello di santità e di unità cristiana per il popolo ortodosso, e modello di piccola chiesa. La canonizzazione della famiglia reale non vuole essere una approvazione del suo comportamento politico negli anni che precedettero la rivoluzione, ma, piuttosto, un riconoscimento della   testimonianza cristiana offerta nel periodo della detenzione, fino al martirio. 
I martiri reali si trovano sulla scala della cantina, quella per la quale furono condotti dagli assassini. 
La scala è diventata il palcoscenico che, maestosamente, solleva i martiri verso il cielo. La famiglia è un gruppo unito, al centro del   quale sta la figura dello zar Nicola II con il figlio Alessio fra le braccia. I vestiti dello zar sono di colore verde, ma non dello stesso verde dei soldati: è un verde chiaro, simbolo di eternità. La regina è vestita di   bianco come i primi martiri cristiani. La coppia reale è circondata dalle principesse, Olga, nel colore giallo, Tatiana, nel colore rosso, Maria, nel colore verde, Anastasia, nel colore rosa. Lo sfondo nero della cantina indica   il buio che tenta di assorbire i santi. “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta”.

Martirio ad Alapaevsk, il 5 luglio (o 18 luglio) 1918 
 
Le due Sante, la principessa Elisabetta e la sua ancella Barbara, insieme ai principi Sergey Mikhaylovich e Vladimir Paleyem, con altri tre principi e con i loro servi vengono martirizzati in una grotta. 
La principessa Elisabetta, battezzata nel protestantesimo, dopo essersi sposata con il principe Sergey Aleksandrovich Romanov, si trasferì in Russia e divenne ortodossa. Dopo la morte del marito, si dedicò alle opere di carità. Il suo cammino spirituale si compì con la corona del martirio. Sull’icona le sante donne sono vestite di bianco, simbolo dell’essere spose di Cristo, nell’umiltà e nella piena accettazione della volontà di Dio. Il colore chiaro mostra anche il contrasto tra le donne ed i soldati, che le stanno uccidendo. Santa Elisabetta ha il vestito dal colore leggermente rosa e Barbara con sfumature di giallo. 
La composizione ha la tonalità del verde leggero, simbolo dell’eterna giovinezza. Il paesaggio trasmette silenzio e grande pace dell’anima. Le ultime parole della Santa martire Elisabetta furono le stesse parole del Salvatore: "Dio, perdona loro, perché non sanno ciò che fanno". Il luogo è deserto, perché l'omicidio avvenne fuori dalla città. Le spoglie di Santa Elisabetta riposano ora nel monastero di Santa Maria Maddalena a Gerusalemme.

Sant’Andronik, arcivescovo di Perm’ e di Solikam, e San Germogen, vescovo di Tobol’sk e della Siberia 
 
Il primo venne sepolto vivo nella terra, il secondo buttato nel fiume Tobol con una pietra al collo. San Andronik era stato anche missionario in Giappone, San Germogen era un vero ministro della chiesa. Tutti e i due subirono una morte violenta quasi contemporaneamente, a distanza di pochi giorni: il vescovo Germogen fu ucciso il 16 giugno, e l’arcivescovo Andronik il 20 giugno, sempre nel 1918. Perciò sono rappresentati nella stessa icona. La tradizione canonica ortodossa conosce il metodo dell'associazione di due azioni in un unico spazio. Il loro martirio volontario in nome della fede in Cristo ha benedetto la terra e l’acqua. Con le aureole, con i gesti della preghiera, nei chiari festosi vestiti, i santi martiri si lasciano uccidere come se non avessero già più i corpi, “essendo ormai nello stato angelico”. 
La città a destra è Tobol’sk, la cui bellezza dà un clima festoso all’icona; la città rappresenta anche la Gerusalemme celeste, mentre il fiume (che può essere letto anche come fiume dei dolori) simbolicamente   divide la città della gioia eterna dalle sofferenze di questa terra.

La sofferenza e la morte del Santo martire Petr Poljanskij, metropolita di Krutitsk. 
 
Il Santo Petr Poljanskij è stato “la colonna”, il sostegno della chiesa. Ausiliare del patriarca Tichon, come Metropolita, ha subito persecuzioni   estremamente severe da parte delle autorità. Fu condotto per molti anni in   differenti prigioni, deportato per molti anni vicino al circolo polare, a Khe, vicino al fiume Ob. Dopo aver molto sofferto, il 27 settembre (il 10   ottobre) 1937 fu martirizzato a Chelyabinsk. Questo luogo così distante è stato visitato alcuni anni fa dal patriarca Alessio II. 
San Petr è rappresentato due volte nell’icona. Nella   parte superiore, in accordo con una sua fotografia conservata, è rappresentato seduto nella baracca di Khe; alla sua sinistra c’è l'oceano artico. Nella parte inferiore è rappresentata la morte del santo. La composizione ci fa percepire il trionfo della vita eterna sulla morte, ponendo il Santo vivo e seduto, nella parte più alta dell’icona. Lo sfondo rosa della terra è anch’esso simbolo della vittoria di ciò che è eterno sulle cose provvisorie.

7/ La maturazione dell’atteggiamento della Chiesa

Da “Memoria e identità” di Giovanni Paolo II
Il credente sa che la presenza del male è sempre accompagnata dalla presenza del bene, della grazia. San Paolo ha scritto: “Ma il dono della grazia non è come la caduta; se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini” (Rm 5,15). Queste parole conservano la loro attualità anche ai nostri giorni. La Redenzione continua. Dove cresce il male, lì cresce anche la speranza del bene. Nei nostri tempi il male si è sviluppato a dismisura, servendosi dell’opera di sistemi perversi che hanno praticato su vasta scala la violenza e la sopraffazione. Non parlo qui del male compiuto da singoli uomini per mire personali o mediante iniziative individuali. Il male del XX secolo non è stato un male in edizione piccola, per così dire “artigianale”. E’ stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema. Nello stesso tempo, però, la grazia divina si è manifestata con ricchezza sovrabbondante. Non vi è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande. Non c’è sofferenza che Egli non sappia trasformare in strada che conduce a Lui. Offrendosi liberamente alla passione e alla morte di croce, il Figlio di Dio ha preso su di sé tutto il male del peccato. La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre, un dolore più o meno grande, ma è una sofferenza di grado e misura incomparabili. Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l’ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell’amore, E’ vero, la sofferenza entra nella storia dell’uomo con il peccato delle origini. E’ il peccato quel “pungiglione” (cfr. 1Cor 15,55-56) che ci infligge dolore, che ferisce mortalmente l’essere umano. Ma la passione di Cristo sulla croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l’ha trasformata dal di dentro. Ha introdotto nella storia umana, che è storia di peccato, una sofferenza senza colpa, affrontata unicamente per amore. E’ questa la sofferenza che apre la porta alla speranza della liberazione, dell’eliminazione definitiva di quel “pungiglione” che strazia l’umanità. E’ la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell’amore e trae anche dal peccato una multiforme fioritura di bene. Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza, una promessa di gioia: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi” scrive san Paolo (Col 1,24). Ciò vale per ogni sofferenza provocata dal male; vale anche per quell’enorme male sociale e politico che oggi divide e sconvolge il mondo: il male delle guerre, dell’oppressione degli individui e dei popoli; il male dell’ingiustizia sociale, della dignità umana calpestata, della discriminazione razziale e religiosa; il male della violenza, del terrorismo, della corsa alle armi - tutto il male esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l’amore, che è dono di sé nel servizio generoso e disinteressato a chi è visitato dalla sofferenza. Nell’amore che ha la sua sorgente nel cuore di Cristo sta la speranza per il futuro del mondo. Cristo è il Redentore del mondo: “Per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).

Da Paolo VI, Octogesima adveniens (1971)
II. ASPIRAZIONI FONDAMENTALI E CORRENTI DI IDEE
22. Al tempo stesso che il progresso scientifico e tecnico continua a sconvolgere il paesaggio dell'uomo, i suoi modi di conoscenza, di lavoro, di consumo e di relazione, una duplice aspirazione si esprime in questi nuovi contesti, sempre più viva man mano che si sviluppano l'informazione e l'educazione: aspirazione all'uguaglianza, aspirazione alla partecipazione: due forme della dignità e della libertà dell'uomo.

Vantaggi e limiti dei riconoscimenti giuridici

23. Per far calare nei fatti e nelle strutture questa duplice aspirazione, dei progressi sono stati compiuti nell'enunciazione dei diritti dell'uomo e nella ricerca di accordi internazionali per la loro applicazione. Ciò nonostante, le inique discriminazioni - etniche, culturali, religiose, politiche - rispuntano continuamente. Troppo spesso, in realtà, i diritti dell'uomo restano ignorati, se non scherniti, ovvero il loro rispetto è puramente formale. In parecchi casi, la legislazione è in ritardo sulla realtà delle situazioni. Necessaria, essa è tuttavia insufficiente a stabilire i veri rapporti di giustizia e di uguaglianza. Nell'insegnamento della carità, l'evangelo ci inculca il rispetto privilegiato dei poveri e della loro particolare situazione nella società: i più favoriti devono rinunziare a certi loro diritti per mettere con più libertà i propri beni a servizio degli altri. In effetti, se al di là delle norme giuridiche manca un senso più profondo del rispetto e del servizio altrui, anche l'uguaglianza davanti alla legge potrà servire di alibi a evidenti discriminazioni, a sfruttamenti continuati, a disprezzi effettivi. Facendo difetto una rinnovata educazione alla solidarietà, un'affermazione eccessiva di uguaglianza può dar luogo a un individualismo dove ciascuno rivendica i propri diritti, sottraendosi alla responsabilità del bene comune.

Chi non vede il contributo fondamentale, in questo campo, dello spirito cristiano, il quale va incontro all'aspirazione dell'uomo a essere amato? «L'amore dell'uomo, primo valore nell'ordine terreno», assicura le condizioni della pace, sia sociale che internazionale, affermando la nostra fraternità universale.

La società politica

24. La duplice aspirazione all'uguaglianza e alla partecipazione è diretta a promuovere un tipo di società democratica. Diversi modelli sono proposti, taluni vengono esperimentati; ma nessuno soddisfa del tutto, e la ricerca resta aperta tra le tendenze ideologiche e pragmatiche. Il cristiano ha l'obbligo di partecipare a questa ricerca e all'organizzazione e alla vita della società politica. In quanto essere sociale, l'uomo costruisce il suo destino in una serie di raggruppamenti particolari che esigono, come loro compimento e condizione necessaria del loro sviluppo, una società più vasta, di carattere universale: la società politica. Ogni attività particolare deve sistemarsi in questa società allargata, e assumere, con ciò stesso, la dimensione del bene comune. Ciò sottintende l'importanza dell'educazione alla vita associata, dove, oltre l'informazione sui diritti di ciascuno, sia messo in luce il loro necessario correlativo: il riconoscimento dei doveri nei confronti degli altri. Il significato e la pratica del dovere sono condizionati dal dominio di sé, come pure dall'accettazione delle responsabilità e dei limiti posti all'esercizio della libertà dell'individuo o del gruppo.

25. L'azione politica - è necessario sottolineare che si tratta innanzitutto di un'azione e non di una ideologia - deve poggiare su un progetto di società, coerente nei suoi mezzi concreti e nella sua ispirazione, alimentata a una concezione totale della vocazione dello uomo e delle sue diverse espressioni sociali. Non spetta né allo stato né a dei partiti politici, che sarebbero chiusi su se stessi, tentare d'imporre un'ideologia, con mezzi che sboccherebbero nella dittatura degli spiriti, la peggiore di tutte. È compito dei raggruppamenti culturali e religiosi, nella libertà di adesione ch'essi presuppongono, sviluppare nel corpo sociale, in maniera disinteressata e per le vie loro proprie, queste convinzioni ultime sulla natura, l'origine e il fine dell'uomo e della società.
A tale riguardo, è opportuno ricordare il principio proclamato dal concilio Vaticano II: «La verità s'impone soltanto con la forza della stessa verità che penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore».

Ideologie e libertà umana

26. Così il cristiano che vuol vivere la sua fede in un'azione politica intesa come servizio, non può, senza contraddirsi, dare la propria adesione a sistemi ideologici che si oppongono radicalmente o su punti sostanziali alla sua fede e alla sua concezione dell'uomo: né all'ideologia marxista, al suo materialismo ateo, alla sua dialettica di violenza e al modo con cui essa riassorbe la libertà individuale nella collettività, negando insieme ogni trascendenza all'uomo e alla sua storia, personale e collettiva; né all'ideologia liberale che ritiene di esaltare la libertà individuale sottraendola a ogni limite, stimolandola con la ricerca esclusiva dell'interesse e del potere, e considerando la solidarietà sociale come conseguenza più o meno automatica delle iniziative individuali e non già quale scopo e criterio più vasto della validità dell'organizzazione sociale.

27. È necessario sottolineare l'ambiguità che può celarsi in ogni ideologia sociale? Talora essa riduce l'azione, politica o sociale, a una semplice applicazione di un'idea astratta, puramente teorica; talora è il pensiero che diventa puro strumento al servizio dell'azione, quasi un semplice mezzo di strategia. In ambedue i casi non è l'uomo che rischia di trovarsi alienato? La fede cristiana si pone al di sopra e talvolta all'opposto delle ideologie in quanto riconosce Dio, trascendente e creatore, che interpella, a tutti i livelli della creazione, l'uomo quale essere responsabilmente libero.

28. Il pericolo sarebbe anche di aderire fondamentalmente a un'ideologia che non ha alla base una dottrina vera e organica, di rifugiarvisi come in una spiegazione ultima e sufficiente di tutto, costruendosi così un nuovo idolo di cui si accetta, talvolta senza prenderne coscienza, il carattere totalitario e coercitivo. Si pensa di trovare così una giustificazione alla propria azione, anche violenta, un adeguamento a un desiderio generoso di servizio; questo desiderio resta, ma si lascia assorbire da un'ideologia la quale, anche se propone certe vie di liberazione per l'uomo, finisce in ultima analisi per asservirlo.

29. Se oggi si è potuto parlare di un regresso delle ideologie, ciò può indicare che è venuto un tempo favorevole a un'apertura verso la trascendenza concreta del cristianesimo; ma può indicare anche uno slittamento più accentuato verso un nuovo positivismo: la tecnica generalizzata come forma dominante di attività, come modo assorbente di esistere, e magari come linguaggio, senza che la questione del suo significato sia realmente posta.

I movimenti storici

30. Ma al di fuori di questo positivismo, che riduce l'uomo a una sola dimensione - per quanto essa possa essere importante oggi - e che in tal modo lo mutila, il cristiano nella sua azione si imbatte in movimenti storici concreti usciti dalle ideologie e, per un verso, distinti da esse. Già il nostro venerato predecessore Giovanni XXIII, nella Pacem in terris, mostra la possibilità di operare una distinzione: «Non si possono identificare, scrive egli, false dottrine filosofiche sulla natura, l'origine e il destino dell'universo e dell'uomo, con movimenti storici e finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione?».(18)

L'attività delle correnti socialiste

31. Oggi ci sono dei cristiani che si lasciano attirare dalle correnti socialiste e dalle loro diverse evoluzioni. Essi cercano di riconoscervi talune delle aspirazioni che portano in se stessi in nome della loro fede. Si sentono inseriti in questo flusso storico, e vogliono svolgervi un'azione. Ora, secondo i continenti e le culture, questa corrente storica assume forme diverse sotto uno stesso vocabolo, anche se esso è stato e resta, in molti casi, ispirato da ideologie incompatibili con la fede. Un attento discernimento si impone. Troppo spesso i cristiani attratti dal socialismo tendono a idealizzarlo in termini assai generici: volontà di giustizia, di solidarietà e di uguaglianza. Essi rifiutano di riconoscere le costrizioni dei movimenti storici socialisti, che rimangono condizionati dalle loro ideologie d'origine. Tra i vari livelli a cui il socialismo si esprime - aspirazione generosa e ricerca di una società più giusta, movimenti storici con organizzazione e scopo politici, ideologia con pretesa di offrire una visione totale e autonoma dell'uomo -, bisogna stabilire delle distinzioni, le quali guideranno le scelte concrete. Tuttavia queste distinzioni non devono tendere a considerare i menzionati livelli come completamente separati e indipendenti. Il legame concreto che, secondo le circostanze, esiste fra essi deve essere lucidamente individuato, e tale perspicacia permetterà ai cristiani di precisare il grado di impegno possibile in questa direzione, una volta assicurati i valori, soprattutto di libertà, di responsabilità e di apertura allo spirituale, che garantiscono lo sviluppo integrale dell'uomo.

L'evoluzione storica del marxismo

32. Altri cristiani si chiedono anche se un'evoluzione storica del marxismo non possa autorizzare taluni accostamenti concreti. Essi rilevano in effetti un certo sblocco del marxismo, che finora si presentava come un'ideologia unitaria, esplicativa della totalità dell'uomo e del mondo nel suo processo di sviluppo, e dunque atea. Al di fuori del confronto ideologico che separa ufficialmente i diversi sostenitori del marxismo-leninismo nella loro rispettiva interpretazione del pensiero dei fondatori, e al di fuori delle opposizioni aperte tra i sistemi politici che a tale pensiero si rifanno, taluni stabiliscono distinzioni tra i diversi livelli a cui il marxismo si esprime.

33. Per gli uni, il marxismo resta essenzialmente una prassi attiva della lotta di classe. Esperimentando il vigore sempre presente e incessantemente rinascente dei rapporti di dominio e di sfruttamento fra gli uomini, essi riducono il marxismo soltanto a lotta, talvolta senz'altra prospettiva, lotta che bisogna proseguire e anzi provocare in modo permanente. Per altri il marxismo è prima di tutto l'esercizio collettivo del potere politico ed economico sotto la direzione del partito unico, che si ritiene la sola espressione e il solo garante del bene di tutti, negando agli individui e agli altri gruppi qualsiasi possibilità di iniziativa e di scelta. A un terzo livello, il marxismo, sia o no al potere, indica l'ideologia socialista che ha per base il materialismo storico e la negazione di ogni trascendenza. Infine, il marxismo si presenta sotto la forma più attenuata ma più seducente per lo spirito moderno, di attività scientifica, di metodo rigoroso di analisi della realtà sociale e politica, di legame razionale ed esperimentato dalla storia tra la conoscenza teorica e la prassi della trasformazione rivoluzionaria. Benché questo tipo di analisi metta in risalto certi aspetti della realtà a danno di altri e li interpreti in funzione dell'ideologia, fornisce tuttavia a certuni, con uno strumento di lavoro, una certezza preliminare all'azione, accompagnata dalla pretesa di decifrare con metodo scientifico le spinte dell'evoluzione sociale.

34. Se attraverso il marxismo, come è concretamente vissuto, si possono distinguere questi diversi aspetti e le questioni che essi pongono alla riflessione e all'azione dei cristiani, sarebbe illusorio e pericoloso giungere a dimenticare l'intimo legame che tali aspetti radicalmente unisce, accettare gli elementi dell'analisi marxista senza riconoscerne i rapporti con l'ideologia, entrare nella prassi della lotta di classe e della sua interpretazione marxista trascurando di avvertire il tipo di società totalitaria e violenta alla quale questo processo conduce.

L'ideologia liberale

35. Dall'altra parte si assiste a un rinnovamento dell'ideologia liberale. Questa corrente si afferma sia all'insegna dell'efficacia economica, sia come difesa dell'individuo e contro le iniziative sempre più invadenti delle organizzazioni e contro le tendenze totalitarie dei poteri politici. Certamente l'iniziativa personale deve essere mantenuta e sviluppata. Ma i cristiani che s'impegnano in questa direzione, non tendono, a loro volta, a idealizzare il liberalismo, che diventa allora un'esaltazione della libertà? Essi vorrebbero un nuovo modello, più adatto alle condizioni attuali, e facilmente dimenticano che alla sua stessa radice il liberalismo filosofico è un'affermazione erronea dell'autonomia dell'individuo nella sua attività, nelle sue motivazioni, nell'esercizio della sua libertà. Ciò significa che anche l'ideologia liberale esige da parte loro un attento discernimento.

Il discernimento cristiano

36. In questo rinnovato accostamento delle diverse ideologie, il cristiano attingerà alle sorgenti della sua fede e nell'insegnamento della chiesa i principi e i criteri opportuni per evitare di lasciarsi sedurre e poi rinchiudere in un sistema, i cui limiti e il cui totalitarismo rischiano di apparirgli troppo tardi se egli non li ravvisa nelle loro radici. Al di là di ogni sistema, senza per questo omettere l'impegno concreto al servizio dei fratelli, egli affermerà, al centro stesso delle sue opzioni, l'originalità dell'apporto cristiano a vantaggio di una trasformazione positiva della società.

Rinascita delle utopie

37. Meglio si comprendono oggi i lati deboli delle ideologie esaminando i sistemi concreti nei quali esse cercano di realizzarsi. Socialismo burocratico, capitalismo tecnocratico, democrazia autoritaria manifestano la difficoltà di risolvere il grande problema umano della convivenza nella giustizia e nella uguaglianza. In realtà, come potrebbero essi sfuggire al materialismo, all'egoismo o alla violenza che fatalmente li accompagnano? Da dove viene la contestazione che nasce un po' ovunque, segno di un disagio profondo, mentre si assiste alla rinascita di «utopie» che pretendono di risolvere il problema politico delle società moderne con più efficacia delle ideologie? Sarebbe pericoloso non ammetterlo: l'appello all'utopia è spesso un comodo pretesto per chi vuole eludere i compiti concreti e rifugiarsi in un mondo immaginario. Vivere in un futuro ipotetico rappresenta un facile alibi per sottrarsi a responsabilità immediate. Bisogna però riconoscere che questa forma di critica della società esistente stimola spesso l'immaginazione prospettica, ad un tempo per percepire nel presente le possibilità ignorate che vi si trovano iscritte e per orientare gli uomini verso un futuro nuovo; tramite la fiducia che dà alle forze inventive dello spirito e del cuore umano essa sostiene la dinamica sociale; e se non si nega a nessuna apertura, può anche incontrarsi con il richiamo cristiano. Lo Spirito del Signore, che anima l'uomo rinnovato nel Cristo, scompiglia senza posa gli orizzonti dove la sua intelligenza ama trovare la propria sicurezza, e sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri la sua azione; egli è abitato da una forza che lo sollecita a sorpassare ogni sistema e ogni ideologia. Nel cuore del mondo rimane il mistero dell'uomo che si scopre figlio di Dio nel corso di un processo storico e psicologico, nel quale lottano e si alternano costrizioni e libertà, pesantezza del peccato e soffio dello Spirito.

Il dinamismo della fede cristiana trionfa allora sui gretti calcoli dell'egoismo. Animato dalla potenza dello Spirito di Gesù Cristo, salvatore degli uomini, e sostenuto dalla speranza, il cristiano s'impegna nella costruzione di una città umana, pacifica, giusta e fraterna, che sia un'offerta gradita a Dio. In effetti «l'attesa di una terra nuova non deve indebolire ma piuttosto stimolare l'impegno di coltivare la terra presente nella quale cresce quel corpo della nuova famiglia umana che già riesce ad offrire una certa prefigurazione del mondo futuro».

Ambiguità del progresso

41. Questa migliore conoscenza dell'uomo permette di meglio criticare e mettere in luce una nozione fondamentale che sta alla base delle società moderne, sia come spinta sia come misura e obiettivo: il progresso. A partire dal secolo XIX le società occidentali e parecchie altre al loro contatto hanno riposto la loro speranza in un progresso continuamente rinnovato, indefinito. Questo progresso appariva loro come lo sforzo di liberazione dell'uomo nei confronti delle necessità della natura e delle coartazioni sociali; era la condizione e la misura della libertà umana! Diffuso dai mezzi moderni d'informazione e dallo stimolo del sapere e di consumi più estesi, il progresso diventa un'ideologia onnipresente. Tuttavia un dubbio nasce oggi sia sul suo valore sia sulla sua riuscita. Che significa questa caccia inesorabile d'un progresso che sfugge ogni volta che si è persuasi di averlo conquistato? Non dominato, esso lascia insoddisfatti. Senza dubbio si sono denunziati, a giusto titolo, i limiti e anche i danni d'una crescita economica puramente quantitativa, e ci si auspica di raggiungere anche obiettivi di ordine qualitativo. La qualità e la verità dei rapporti umani, il grado di partecipazione e di responsabilità sono non meno significativi e importanti per il divenire della società, che la quantità e la varietà dei beni prodotti e consumati. Superando la tentazione di volere tutto misurare in termini di efficienza e di mercato, in rapporti di forza e d'interessi, oggi l'uomo desidera sostituire sempre più a questi criteri quantitativi l'intensità della comunicazione, la diffusione del sapere e della cultura, il servizio reciproco, la concentrazione per uno scopo comune. Non consiste il vero progresso nello sviluppo della coscienza morale che condurrà l'uomo ad assumersi solidarietà allargate e ad aprirsi liberamente agli altri e a Dio? Per un cristiano, il progresso si imbatte necessariamente nel mistero escatologico della morte: la morte del Cristo e la sua risurrezione, l'impulso dello Spirito del Signore aiutano l'uomo a situare la sua libertà creatrice e riconoscente nella verità di ogni progresso, nella sola speranza che non delude (cf. Rm 5, 5).

-Benedetto XVI Caritas in veritate

8/ Dal marxismo, nonostante il suo fallimento, un grande anelito… e il futuro?

La Teologia del Popolo in papa Francesco. La parola “popolo” è usata 164 volte nella “Evangelii Gaudium”: cosa intende il pontefice con questa?, di Esteban Pittaro, dal sito Aleteia del 29/2/2014.

Una scuola né liberale né marxista

Ripercorrendo con padre Scannone gli elementi essenziali della Teologia del Popolo, come viene chiamata questa corrente teologica argentina, emerge quasi immediatamente un chiarimento che negli ultimi mesi non si è stancato di approfondire: il rapporto della teologia argentina con la versione più diffusa della Teologia della Liberazione. Già negli anni Ottanta, padre Scannone distingueva quattro correnti della Teologia della Liberazione, “tra le quali c'è la teologia argentina del popolo, ma che non ha mai avuto in alcun modo nulla a che vedere con quella marxista”. La sua distinzione è stata presentata dall'allora segretario generale del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM), monsignor Antonio Quarracino, in seguito diventato arcivescovo di Buenos Aires.
Le origini di questa corrente ecclesiale, che è stata presente nella rotta della Chiesa argentina fin dal Concilio ed è stata assai influente nelle conferenze generali dell'episcopato latinoamericano, risalgono alla conformazione della Commissione Episcopale per la Pastorale (COEPAL), il cui leader teologico era il presbitero Lucio Gera e della quale facevano parte anche altri personaggi come monsignor Enrique Angelelli, Rafael Tello, Fernando Boasso e Justino O'Farrell. Quest'ultimo apparteneva anche alle cattedre nazionali di Sociologia all'Università di Buenos Aires, dove si cercavano categorie di comprensione che non fossero né liberali né marxiste per spiegare la storia latinoamericana e argentina, ha spiegato padre Scannone.
In base alla nuova prospettiva, le categorie che spiegano la storia, senza ricorrere a categorie liberali o marxiste, “sono di tipo storico-culturale, tratte dalla storia e dalla cultura latinoamericana. La teoria del popolo appartiene molto a Bergoglio, soprattutto applicata al Popolo di Dio”, nozione già utilizzata dal Concilio Vaticano II nella Lumen gentium. “La Teologia del Popolo pensava la Chiesa in dialogo con i popoli. E non pensa al Popolo in un modo liberale, secondo il quale il popolo sono le persone che abitano in un dato territorio”. Il passaggio da abitanti a cittadini fa parte della necessaria evoluzione, anche se non esaurisce la riflessione. La principale analogia per parlare del Popolo di Dio, considera padre Scannone, è quella popolo-nazione.
Leonardo Boff, ha osservato, afferma che la categoria del Popolo di Dio viene più dalla nozione di popolo-classe, o di popoli come classi popolari. Nella teologia argentina, ricorda padre Scannone, Boasso lo dice esplicitamente: “Di fatto in America Latina quelli che più conservano la cultura del proprio popolo, i valori del popolo-nazione, sono i poveri. E anche questo è assai tipico di Bergoglio. Dice sempre la Nazione, ma soprattutto i poveri, i più bisognosi, sia perché sono quelli che hanno più bisogno che perché sono coloro che conservano maggiormente questa nozione di popolo”. L'analogia che muove il pensiero che ispira il papa non è quella di classe, come indica Boff, ma quella di popolo-nazione.

Papa Francesco, Evangelii gaudium

190. A volte si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra, perché «la pace si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei diritti dei popoli»[154]. Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti dei popoli più ricchi. Rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna Nazione, bisogna ricordare sempre che il pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità, e che il solo fatto di essere nati in un luogo con minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore dignità. Bisogna ripetere che «i più favoriti devono rinunciare ad alcuni dei loro diritti per mettere con maggiore liberalità i loro beni al servizio degli altri»[155]. Per parlare in modo appropriato dei nostri diritti dobbiamo ampliare maggiormente lo sguardo e aprire le orecchie al grido di altri popoli o di altre regioni del nostro Paese. Abbiamo bisogno di crescere in una solidarietà che «deve permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze ad essere artefici del loro destino»[156],così come «ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi»[157].

194. È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo. La riflessione della Chiesa su questi testi non dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto aiutare a farli propri con coraggio e fervore. Perché complicare ciò che è così semplice? Gli apparati concettuali esistono per favorire il contatto con la realtà che si vuole spiegare e non per allontanarci da essa. Questo vale soprattutto per le esortazioni bibliche che invitano con tanta determinazione all’amore fraterno, al servizio umile e generoso, alla giustizia, alla misericordia verso il povero. Gesù ci ha indicato questo cammino di riconoscimento dell’altro con le sue parole e con i suoi gesti. Perché oscurare ciò che è così chiaro? Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza. Perché «ai difensori “dell’ortodossia”si rivolge a volte il rimprovero di passività, d’indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le mantengono».

198. Per la Chiesal’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia». Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere «gli stessi sentimenti di Gesù» (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come una «forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa». Questa opzione – insegnava Benedetto XVI – «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà». Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro.

199. Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro «considerandolo come un’unica cosa con se stesso». Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze. «Dall’amore per cui a uno è gradita l’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratuitamente». Il povero, quando è amato, «è considerato di grande valore», e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo renderà possibile che «i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come “a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno?». Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, «l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone».

200. Dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.

Chi sono i 3 nuovi beati, vittime di Sendero Luminoso, di Nello Scavo (Avvenire 3 febbraio 2015)

Papa Francesco ha autorizzato, oltre alla promulgazione del decreto per la beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero, ucciso dagli squadroni della destra al governo in Salvador il 24 marzo 1980, anche tre missionari vittime di Sendero Luminoso, la guerriglia maoista che imperversava in Perù. 
Si tratta di due frati polacchi, Micha? Tomaszek e Zbigniew Strza?kowski, dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, e don Alessandro Dordi, sacerdote diocesano fidei donum di Bergamo, uccisi nelle cittadine di Pariacoto e Santa nell’agosto del 1991. Il postulatore della causa dei tre missionari è il frate conventuale Angelo Paleri. La Congregazione delle Cause dei Santi aveva permesso l’apertura dell’inchiesta diocesana per i tre Servi di Dio il 5 giugno 1995. 
I Conventuali ricordano che i tre religiosi furono assassinati dopo aver celebrato l’Eucaristia, con colpi d’arma da fuoco. Ad uno di loro fu tesa un’imboscata, mentre sui corpi degli altri due i terroristi lasciarono un cartello con la scritta: “Così muoiono i lacchè dell’imperialismo”. 
Il sacerdote bergamasco don Alessandro Dordi, della comunità missionaria del Paradiso, venne ucciso con due colpi di revolver mentre si accingeva a celebrare la messa in un villaggio di campesinos. In Perù da 11 anni dopo avere svolto l'attività pastorale nel basso Polesine e fra gli emigranti italiani in Germania e in Svizzera, don Dordi si era dedicato all'aiuto dei più poveri senza mai occuparsi di politica, ma i guerriglieri di Sendero Luminoso vedevano come un forte ostacolo la sua opera
Tutti e tre i martiri si occupavano di far arrivare gli aiuti della Caritas ai contadini poveri, e questa attività era considerata “controrivoluzionaria” dai gruppi maoisti che ritenevano gli aiuti umanitari come una ingerenza esterna oltre che come il tentativo della Chiesa di guadagnare consenso contro i movimenti guerriglieri. 
È stato calcolato che la lotta armata attuata alla fine del secolo scorso da diversi movimenti di guerriglieri in Perù e contrastata dalle forze armate regolari abbia causato più di 70 mila morti tra la popolazione civile, tra i gruppi in lotta, e tra quanti si sono trovati non per loro colpa tra i due fuochi; e tra essi diversi missionari di varie nazionalità.

da «Morozzo Della Rocca: Romero, voce per l’oggi» di Andrea Galli, Avvenire 23 marzo 2014
[…] «Romero era fondamentalmente un uomo  semplice, un uomo del popolo – spiega lo storico Roberto Morozzo della Rocca – era di umili origini, non  aveva amici altolocati e amava stare con la gente, con i contadini. Viveva  in tre stanze nella portineria di un ospedale per malati terminali. Non cercava fama e non aveva la retorica del profeta. Era un uomo di Chiesa  tradizionale, molto fedele al Magistero e a Roma». Con questo profilo,  divenuto arcivescovo di San Salvador, «si ritrovò nell'epicentro della  guerra fredda in America centrale, con una dittatura militare contrapposta  ai guerriglieri, con violenza e sangue. Reagì per senso di responsabilità, per il senso alto della sua carica ecclesiale». Il punto di svolta, pochi  giorni dopo la sua entrata in arcidiocesi, fu com'è noto l'uccisione del  suo caro amico Rutilio Grande, gesuita. «Non fu una vera e propria conversione  come spesso è stata descritta – continua lo storico –, Romero diceva che  i cristiani si convertono ogni giorno. Fu un'altra cosa: quando vegliò la notte sul corpo dell'amico ucciso, avvertì la necessità di fare l'arcivescovo con fortaleza, disse, con fortezza. Si impose allora di essere forte di fronte a un governo che non rispettava i diritti umani, che tollerava squadroni  della morte, al quale aveva chiesto indagini sulla morte di Rutilio Grande sentendosi poi preso in giro. Così come denunciò la violenza della guerriglia».  Emerse quindi un Romero che molti non conoscevano, quello che aveva come  papa prediletto Pio XI, che aveva visto a Roma negli anni '30 e aveva ammirato per la sua fortaleza nell'affrontare i totalitarismi. Continua Morozzo: «In una lettera del '77 citava papa Ratti che diceva: "Quando la politica  tocca l'altare la Chiesa difende il suo altare". Nel '78 scriveva al cardinale Baggio per spiegargli il senso della sua condotta in urto con il governo,  dicendogli che aveva sentito il dovere di comportarsi come "il santo vescovo  di Milano, Ambrogio, quando aveva impedito l'entrata in chiesa dell'imperatore  Teodosio,
esigendo preventivamente penitenza pubblica per la sua colpa  nell'ingiustificata strage di cittadini". Questi erano gli esempi che lo  muovevano. E la sua ispirazione era eminentemente spirituale. La frase famosa che gli viene attribuita: "Se mi uccidono risusciterò nel popolo  salvadoregno" è una frase apocrifa, che è stata usata per dare un significato  messianico-politico alla sua morte. Che non era quello che lui voleva darle. In una pagina dei suoi Esercizi spirituali datata un mese prima del suo  assassinio, Romero, che aveva capito che sarebbe stato ucciso, scriveva  di aver rifatto la consacrazione al cuore di Gesù, devozione a lui molto  cara, e annotava: "Accetto con fede in Lui la mia morte per difficile che  sia. Non voglio darle una intenzione come pur vorrei per la pace del mio Paese e per la fioritura della nostra Chiesa. Perché il cuore di Cristo  saprà darle la destinazione che lui vorrà. Mi basta per essere felice e  fiducioso sapere con sicurezza che in Lui, nel Signore, sta la mia vita  e la mia morte"». È alla luce di tutto ciò che si può capire meglio quel «Romero è nostro» pronunciato da Giovanni Paolo II visitando la tomba dell'arcivescovo, nel 1983, per sottrarlo alle strumentalizzazioni e restituirlo alla sua  vera dimensione, di testimone della fede e di un'epoca.

9/ Ancora Madeleine Delbrêl

La passione delle pazienze di Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990

La passione, la nostra passione, sì, noi l'attendiamo.
Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo
viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che
ne scocchi l'ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover
essere consumati. Come un filo di lana tagliato
dalle forbici, così dobbiamo essere separati. Come un giovane
animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l'attendiamo. Noi l'attendiamo, ed essa non viene.
 
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo
scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di
ucciderci senza la nostra gloria.
 
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l'autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl'invitati che nostro marito porta in casa
e quell'amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.
 
Così vengono le nostro pazienze, in ranghi serrati o in
fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
 
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando –
per dare la nostra vita – un'occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami
che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che
i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana
tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno
per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita.

E' la passione delle pazienze.

Nota

[1] I curatori del testo francese hanno aggiunto il punto interrogativo per indicare che la parola «fuient», qui tradotto con «scompaiano», è un'interpretazione plausibile, ma non certa, del testo scritto da Madeleine (N.d.T.).