Il fondatore della modernità, di Franco Cardini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /11 /2014 - 12:32 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da cronache di Liberal del 3 ottobre 2009 un articolo di Franco Cardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/11/2014)

È forse deprecabile l’abitudine di fare storia per centenari e per ricorrenze: ma, dato lo scarso interesse della società civile italiana per le cose storiche in genere, questo è ritenuto se non altro un buon modo per attivare commemorazioni e iniziative correlate, utili al turismo e alla divulgazione massmediale.

Non ci resta quindi che adeguarci: anche perché altrimenti, nel nostro paese sarebbe difficile parlare di uno dei personaggi meno conosciuti ma più incisivi nella storia dell’Europa, della cristianità e della modernità: Jean Cauvin, nato nella piccarda città di Noyon nel 1509 e morto nella «sua» Ginevra cinquantacinque anni più tardi, nel 1564. Noi lo conosciamo come Giovanni Calvino e parliamo di lui come il «vero» grande riformatore del cristianesimo – più forse del per molti riguardi ancor medievale Martin Luther, «Lutero» – e fondatore della modernità. È molto nota, o dovrebbe esserlo, la teoria esposta da Max Weber nel suo grande libro edito nel 1920-21 e tradotto in Italia col titolo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Partendo dai suoi studi di sociologia religiosa, Weber approdò alla conclusione che il capitalismo, con la sua etica fondata sul rigore e sul successo personali, fosse l’erede diretto e per così dire la traduzione immediata in termini economici e finanziari della religiosità calvinista, specie come si era presentata in Inghilterra a partire dalla seconda metà del Cinquecento nel movimento «puritano»: nato all’interno della Chiesa anglicana per purificarla da quegli elementi gerarchici e liturgici che ai riformatori più austeri (i quali s’ispiravano appunto al magistero di Calvino) apparivano un’eredità del «paganesimo papista».

È noto come l’austerità puritana conducesse anche, fra l’altro, a uno degli esperimenti più feroci e sanguinari della storia, la tirannia del Lord Protettore Oliver Cromwell: senonché lo stretto legame appunto tra capitalismo, puritanesimo ed egemonia britannica nel mondo moderno hanno fatto sì che quell’infame despota sia trattato, anche nei libri di scuola, come una specie di pio governante-filosofo. Questa però, come direbbe il vecchio Kipling, è un’altra storia. Torniamo quindi alla radice del legame tra protestantesimo e modernità, a Calvino. Max Weber sottolineava come il calvinismo attribuisse sistematicamente a ogni aspetto della vita un valore religioso: e, data la dottrina della predestinazione e quindi la negazione del Libero Arbitrio, che Lutero aveva desunto dalla sua lettura di Agostino e che Calvino aveva accettato e reso ancora più rigorosa, i cristiani riformati erano convinti con la massima fermezza che esistesse un abisso teoantropologico nell’umanità tra coloro che Dio condannava alla pena eterna e coloro che Egli destinava alla salvezza.

Nessuno poteva scampare al già preordinato giudizio divino: in ciò non solo le opere erano inutili rispetto alla fede, ma esse stesse – espressione appunto della volontà divina riflessa nelle azioni di ciascun essere umano – non potevano che essere buone nei destinati alla felicità eterna, malvage negli altri. Tutto quel che il fedele poteva fare era spiare, nella sua vita e nelle vicende di essa, i segni della volontà divina nei suoi confronti. Ma l’apparente paradosso è che questa dottrina non condusse affatto all’immobilismo, al fatalismo, alla disperazione (o, al contrario, alla sconfinata fiducia). Al contrario: nel successo delle loro imprese e dei loro programmi i seguaci di Calvino – in linea, a dire il vero, con un’etica più veterotestamentaria che evangelica – scorgevano la conferma che Dio li aveva scelti e destinati all’eterna salvezza; e s’impegnavano al massimo nel far il possibile per ottenere quei segni. Nell’affascinante pagina weberiana il capitalismo viene pertanto presentato come una «religione», la religione del successo e della vittoria: e non è affatto «materialista» (non, almeno, sul nascere), bensì spirituale, perfino irrazionale e mistica, la volontà di arricchire e di controllare e guidare le vite altrui. A conclusioni analoghe non era giunto Lutero, troppo impegnato a combattere la Chiesa cattolica e a sradicare l’egemonia delle gerarchie sacerdotali dai paesi nei quali il suo insegnamento si era affermato, il che per forza di cose lo conduceva ad appoggiarsi ai principi laici e a raccomandare ai suoi fedeli di obbedir loro.

La tesi webberianna è stata più volte discussa e contestata dagli storici: al punto da far ricorrentemente parlare di «eclisse di Max Weber» o, al contrario, di «Weber-Renaissance». Ad avversarla fu soprattutto Werner Sombart, il grande e purtroppo oggi misconosciuto critico del capitalismo: e sulla base delle sue osservazioni molti sociologi e studiosi di economia – per esempio il cattolico Amintore Fanfani, la cui fama di uomo politico ha purtroppo eclissato quella d’insigne studioso – sottolinearono invece come la valutazione positiva delle «opere» accanto alla «fede» e il sostegno a un’attività produttiva e creditizia tesa anche alla solidarietà, avessero già alla fine del Medioevo posto le basi di un capitalismo che avrebbe potuto svilupparsi nei secoli successivi in modo diverso, accordando più spazio ai valori comunitari e più sostegno ai ceti meno abbienti. Era stato con questo spirito che ad esempio i francescani «osservanti» del Quattrocento, san Bernardino da Siena in testa, avevano condotto all’interno della Chiesa una lotta destinata a mutare le troppo rigide norme contro l’«usura», che impedivano l’avvìo di un’economia fondata sul credito e quindi sullo sviluppo.

Di recente, il calvinismo nell’interpretazione weberiana sembra esser tornato agli onori della ribalta anche in alcuni ambienti cattolici nei quali – stranamente «trascurando» la lezione non solo sombartiana, ma anche fanfaniana – si è preferito sottolineare i meriti di un «cristianesimo» che per la verità è soprattutto e anzitutto quello calvinista nello sviluppo della modernità. Grande successo ha avuto un libro non granché originale e quasi privo di ricerca documentata, The victory of Reason di Rodney Stark (New York, Random House, 2005), nel quale l’autore, cattedratico di Berkeley, spiega in meno di 300 pagine nientemeno how Christianity led to freedom, capitalism and western success. Stark sottolinea la «razionalità» della teologia cristiana, la quale ha sposato la logica e il pensiero deduttivo introducendo così, appunto, alla libertà, al progresso e al capitalismo. Discostandosi apparentemente da Weber, Stark sembra «ridimensionare» il ruolo della Riforma protestante: già nei Padri della Chiesa, egli commenta, questo impulso al fare, al realizzare, all’inventare e allo scoprire era celebrato.

Ma altri aspetti del cristianesimo medievale vengono lasciati in ombra, in particolare il richiamo costante alla carità e alla solidarietà: col risultato, paradossale solo in apparenza, che Stark sembra ridimensionare il ruolo di Calvino, ma lo fa attraverso una lettura rigorosamente «calvinista» del cristianesimo e della storia. Non a caso, sfugge francamente l’aspetto «razionale», ad esempio, della teologia dei sacramenti: laddove la critica razionalista ai dogmi e ai misteri fu tipica durante la Riforma, più che di Lutero, proprio di Calvino. Ma lo «strappo rivoluzionario» della Riforma protestante e in particolare del calvinismo (con l’abolizione dei riti, dei sacramenti, del sacerdozio, del culto delle immagini), «sfugge» al continuista Stark il quale preferisce sottolineare la razionalità «da sempre» del cristianesimo. Come la modernità abbia sviluppato una società capitalista riducendo ed eliminando contestualmente il cristianesimo storico salvo nei casi in cui esso (com’è accaduto nel calvinismo) si riducesse a fatto intimo e privato, è stranamente taciuto in questo libro, dov’è sintomatico che non siano mai citati né Bernardino da Siena, né Sombart.

D’altronde, è sintomatico come l’attività dell’austero umanista Giovanni Calvino, che aveva abbracciato la Riforma nel 1536 rifugiandosi a Basilea per sfuggire all’ira del re di Francia che lo accusava di aver denigrato la messa, sia davvero iniziata nel 1541, quando egli redasse le sue Ordonnances ecclésiastiques assumendo nel contempo la guida della Chiesa di Ginevra, con un’inflessibilità che lo condusse a condannare al rogo anche gli eretici (come l’antitrinitario Michele Servito) e le «streghe», ree di perpetuare nei costumi della superstizione la forza dell’odiato paganesimo, con ciò obiettivamente instaurando un regime di repressione e di terrore.

Contrariamente a quel che si dice e forse si crede, furono i calvinisti i più inflessibili persecutori della stregoneria, da Ginevra alle colonie inglesi del Nuovo Mondo, specie quelle della Nuova Inghilterra, appunto il New England (l’episodio dei «processi di Salem» è ben conosciuto). Quello di Ginevra divenne anche il centro missionario calvinista.

Calvino era in contatto con i suoi seguaci, ma anche con molti principi: ispirò l’azione dei calvinisti in Francia, gli «ugonotti», e la rivoluzione puritana in Inghilterra. Ma egli lavorò a cercar di limitare al massimo gli effetti delle ansie escatologiche circolanti al suo tempo, affermò che la data del ritorno del Cristo era inconoscibile e pur conducendo vita austera combatté qualunque forma di ascetismo: forse temendo che ciò avrebbe potuto indurre in alcuni cristiani riformati una sorta di nostalgia delle vita monastica e quindi delle forme cattoliche.

Bisogna dire che comunque, sulla scia dell’interpretazione weberiana, molte esagerazioni sono state dette anche a proposito del suo rapporto con il lavoro e con il denaro. L’autorizzazione del prestito a interesse era nei regimi calvinisti rigorosamente limitata, non troppo meno che in quelli cattolici, e il lavoro non costituì mai, in sé e per sé, un elemento di merito spirituale.

La ferma concezione religiosa di Calvino poggiava su tre capisaldi. Primo, la salvezza spirituale è raggiungibile nonostante la perfidia dell’uomo perché Dio onnipotente può trasformare gli stessi indegni secondo i Suoi disegni.

Secondo, i «santi», la ristrettissima cerchia dei veri eletti di Dio, possono riconoscersi e unirsi in una salda compagine grazie ai tre segni distintivi della salda fede, della vita retta e della fedeltà al solo sacramento che insieme al battesimo egli aveva ammesso, sia pure profondamente modificandolo rispetto alla tradizione cattolica, la «cena del Signore».

Fra Cinque e Seicento il calvinismo aveva conquistato larghe aree dell’Europa. La lunga guerra civile europea del «Secolo di Ferro» tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento fu soprattutto una guerra di religione tra cattolici e calvinisti, che avevano conquistato non solo la Svizzera, l’Olanda, parte dell’Inghilterra, la Scozia, parti della Germania del nord-est della penisola scandinava e – come «ugonotti» – la Francia, bensì anche la Boemia, l’Austria, l’Ungheria, dove fu necessaria una lotta durata tutto il Seicento e condotta dalla Compagnia di Gesù per sradicarli. Ma in Francia, sbaragliato il calvinismo ugonotto con episodi quali la «notte di san Bartolomeo», elementi  di calvinismo camuffato e moderato riemersero nel giansenismo e perfino nel libertinismo.