Bergoglio di Fierro: l’epopea è per la vita, di Stefania Falasca
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Riprendiamo da Avvenire del 6/6/2014 un articolo di Stefania Falasca. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi le sotto-sezioni Educazione ed Educazione e scuola nella sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti 9/6/2014)
Illustrazione d’epoca per il poema nazionale argentino «Martín Fierro»,
opera dello scrittore José Hernandéz (1834-1886)
Lettore o letterato? Papa Francesco è un lettore che con ardire non esita a rimpinzare il suo magistero anche di citazioni letterarie, implicite ed esplicite, o è un letterato secondo i canoni propri della categoria? Forse due testi possono essere di riferimento per distinguerne la stoffa e fugare incertezze. Si tratta di due riflessioni che Bergoglio fece a partire dal Martín Fierro, il poema gauchesco di fine Ottocento dello scrittore José Hernández. Un classico della letteratura argentina. La prima riguarda una conferenza tenuta a Buenos Aires a Pasqua 2002, la seconda è contenuta nel volume Educar: esigenza y pasìon , stampato nel 2006.
Scrive Bergoglio in quest’ultima: «Ciò che mi sembra più fecondo è riconoscere nel Martín Fierro una narrazione, una specie di messa in scena del dramma della nascita di un sentimento collettivo inclusivo. Narrazione che, al di là del suo genere, autore e tempo, può essere ispiratrice anche per noi, a distanza di secoli. Ciò che è certo è che l’opera trascese le circostanze per comunicare qualcosa che si trova alla base della nostra convivenza. È a partire da questa trascendenza che bisogna valutare il poema, dalle risonanze che può generare in noi…».
E l’attento poi calarsi nelle strofe, nello scandaglio delle risonanze di quei versi e di ciò «che pulsa in noi mentre li leggiamo», appare quasi una convocazione di tutti, una sorta di appuntamento hic et nunc.
Qui e ora. Nel vivo di quell’opera. Come nel Now shakesperiano dell’incipit del Riccardo III in cui ciascuno s’interpella e viene ricondotto all’altro. Bergoglio ripercorre il testo esattamente come Charles Péguy ripercorre nelle sue Note a Cartesio il Poliuto di Corneille, del quale scrive: «È un’opera di vita interiore e insieme di vita pubblica. Un’opera di vita spirituale e insieme di vita civile. È guerra e pace. È tutto l’uomo e tutta la città». E come il Poliuto per Péguy, il Fierro diventa nella disamina di Bergoglio il fulcro di un sistema dialogico, dinamico e aperto, di voci che rimandano ad altre voci, di consigli e confronti in una conversazione costante. «Vi invito a rileggere ancora una volta il poema», scrive e con «parola e amicizia» termina il suo excursus .
Ciò significa interagire con il testo, e questo è il proprium del letterato. Ma interagire con il testo significa anche entrare nel cuore pulsante della letteratura. Non quella racchiusa nei manuali o nelle aule scolastiche e accademiche, ma quella che ha carne, pelle, sangue, respiro. Quella che si sceglie, che dà più senso al viaggio esistenziale e sapienziale. Le riflessioni sul Martín Fierro, a partire dal Fierro, portano allora anche a riflettere sul senso profondo della letteratura. «Nella quale – come ripeteva Ezio Raimondi – ciò che conta è la nozione di amicizia, perché essa tutela l’integrità dell’uomo».
«Letteratura è tutto ciò che si è scritto e tutto ciò che ancora si scriverà», diceva Bergoglio ai suoi alunni negli anni Sessanta, ed è stato più volte sottolineato il carattere maieutico dell’insegnamento del maestrillo gesuita. Un docere sempre accompagnato dal delectare e dal movere, nel quale la letteratura diventava fucina per trasformare la memoria in esperimento, in costruzione dell’uomo.
Da «camminatore» della e nella letteratura il professore dialogava, conversava, inciampava nelle parole. Scavandole fino a trarne il significato più profondo, le parole mostravano l’anima, il respiro. Viveva la cultura come incontro, o meglio serie di incontri, un io alla ricerca continua di un noi, che si riconosce empaticamente in un altro: altro che poteva essergli di fronte fisicamente, sia tra le pagine di un libro. Si chiamasse Manzoni o Marechal o Borges, l’importanza risiedeva nell’incontro, mai quindi in una conoscenza fine a sé stessa, in un sapere feticistico da riversare nelle brocche dell’intellettualismo.
Il punto d’interesse che scaturisce dalle sue riflessioni non è perciò in ultimo neppure la sua biblioteca variamente fornita, di cui peraltro materialmente non si circonda, ma il suo approccio alla letteratura. E cioè che la letteratura riguarda la vita. Ed è questo un punto nevralgico attualissimo di discussione, che investe oggi anche l’ambito critico e la didattica stessa della letteratura. Una didattica che ha reso capaci di analizzare un testo con gli strumenti e le metodologie del critico ma lo priva di attrattiva. È il rischio messo in luce negli ultimi anni dal critico Tzvetan Todorov nel saggio Letteratura in pericolo, nel quale mostra come in ambito letterario si è verificata la sostituzione dei mezzi con i fini, per cui il testo è analizzato come oggetto linguistico «chiuso, autosufficiente, assoluto», che non ha «alcun rapporto con il resto del mondo» e come quindi lo studio della letteratura diventi altra cosa rispetto a quello che in sostanza è.
La letteratura è dialogo, incontro, pluralismo, libertà, riconoscimento della diversità dell’altro e ricerca di senso. Accesso all’altro, ri-creazione. Non un mezzo per intrattenere o per addetti ai lavori, un corpo morto da sezionare, ma creatura che stimola a intraprendere un viaggio per dare nome e senso alle cose, per raggiungere una nuova capacità di comprensione del reale. In sostanza «una delle via maestre che contribuiscono alla realizzazione di ciascuno». È questa l’ottica interdisciplinare che permette di comprendere a pieno la portata delle riflessioni bergogliane: non critica ma metacritica, non lettura ma metalettura. Un’ottica che ci viene ora suggerita nientemeno che da un pontefice. Un papa dunque indirettamente provoca anche l’ordine chiuso dei circoli autoreferenziali delle accademie letterarie? Segnala il pericolo di asfissia delle odierne didattiche della letteratura? Sa riconsegnare, dai tavoli degli anatomopatologi della parola, la letteratura alla vita? A quanto pare sì. È anche questa la lezione straordinariamente nuova che ci viene dal nuovo che è Bergoglio.
Lezione che non ha precedenti nella storia recente della Chiesa se non in un caso: quella del suo precursore-predecessore papa Luciani, del quale ci resta un’opera squisitamente letteraria: nei 33 giorni del suo pontificato egli infatti non aveva esitato a ridare alle stampe il suo epistolario Illustrissimi con il quale, ispirandosi al modello delle Lettere familiari del Petrarca, volle conversare e farsi prossimo a tutti. Hic et nunc.
L'OPERA: Il Robin hood dei gauchos
Popolarissimo in Argentina, dove nel 2007 ne è stata addirittura realizzata una versione a cartoni animati, Martín Fierro è il capolavoro di José Hernández (1834-1886), poeta, uomo politico e giornalista al quale è fortemente legato il sentimento nazionale. Le due parti del poema, strutturato in strofe di ottonari, apparvero rispettivamente nel 1872 (Il gaucho Martín Fierro) e nel 1879 (Il ritorno di Martín Fierro). Il protagonista è un cantore contadino che, arruolato a forza nella guerra contro gli indios, si trasforma in fuorilegge dopo che la sua famiglia è stata dispersa. Nel corso delle sue avventure si trova a vivere con gli stessi indios che avrebbe dovuto combattere e incontra i figli perduti, celebrando in ogni occasione il suo amore per la libertà. L’opera, apprezzata e studiata da Jorge Luis Borges, manca da tempo nelle librerie italiane, ma la casa editrice Domus de Janas di Sestu (Cagliari) ha in catalogo una versione in sardo curata da Antonio Vargiu.
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