Daniel Pennac racconta di aver insegnato ai suoi alunni un testo a memoria a settimana, facendoli appassionare alla qualità dei brani scelti: dal contenuto alle competenze e non viceversa. Breve nota di Andrea Lonardo su di una importante questione educativa

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /05 /2014 - 14:20 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un breve testo di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (11/5/2014)      

Imparare a memoria brani e versi per rimorchiare le ragazze o per affrontare una discussione. D. Pennac, in Diario di scuola[1], mostra come le competenze siano secondarie rispetto al contenuto, rispetto a ciò che si studia. Solo quando un brano merita e appassiona, ha senso impararlo a memoria, anzi saperlo ripetere vuol dire, in fondo, imparare a parlare ed essere in grado di capire il mondo e di stupirlo.

«E perché non imparare questi testi a memoria? In nome di che cosa non appropriarsi della letteratura? Forse perché non si fa più da tanto tempo? Vorremmo lasciare volar via pagine simili come foglie morte solo perché non è più stagione? È davvero auspicabile non trattenere simili incontri? Se questi testi fossero persone, se queste pagine eccezionali avessero volti, dimensioni, una voce, un sorriso, un profumo, non passeremmo il resto della vita a morderci le mani per averli lasciati scappare via? Perché condannarci a conservarne solo una traccia che sbiadirà fino a essere solo il ricordo di una traccia... ("Mi sembra, sì, di aver studiato al liceo un testo, di chi era, già? La Bruyère? Montesquieu? Fénelon? Che secolo, XVII? XVIII? Un testo che in una sola frase descriveva il passaggio da un ordine sociale a un altro... "). In nome di quale principio, questo scempio? Unicamente perché i professori di una volta erano noti per farci recitare poesie spesso idiote e perché agli occhi di alcuni vecchi rimbambiti la memoria era più un muscolo da allenare che una biblioteca da arricchire?»[2].

Così Pennac esordisce, nell’affrontare il tema del “sapere a memoria”. Imparare “a memoria” vuol dire ricordare, appropriarsi di ciò che vale. La memoria elettronica rende i testi disponibili, ma altra cosa è appropriarsene:

«Sarebbe dunque per scongiurare questi fantasmi che si decide di non appropriarsi delle pagine più belle della letteratura e della filosofia? Testi cui si nega la possibilità di essere ricordati solo perché degli idioti ne facevano una semplice questione di memoria? Se così è, significa che un'idiozia ne ha soppiantata un'altra.
Mi si obietterà che una mente organizzata non ha alcun bisogno di imparare a memoria. Sa produrre il proprio miele dalla "sostantifica midolla". Trattiene il senso e, checché ne dica io, conserva intatta la sensazione della bellezza.
È peraltro in grado di trovare qualunque libro in un attimo, nella biblioteca, cascando sulle righe giuste, in due minuti. Io stesso so dove mi aspetta il mio La Bruyère, lo vedo sul suo scaffale, e il mio Conrad, e il mio Lermontov, e il mio Perros, e il mio Chandler... tutta la mia compagnia è lì, alfabeticamente dispersa in quel paesaggio che conosco così bene. Per non parlare del cyberspazio, dove posso, con la punta dell'indice, consultare la memoria dell'umanità. Imparare a memoria? Nell'epoca in cui la memoria si misura in giga!
Tutto questo è vero, ma l'essenziale è altrove.
Imparando a memoria, non supplisco a nulla, aggiungo a tutto.
La memoria, qui, entra nel cuore della lingua.
Tuffarsi nella lingua, è questo che conta
.
E se tuffandomi bevo, poi mi rituffo lo stesso.
Facendo imparare a memoria tanti testi ai miei allievi, dalla prima media all'ultimo anno delle superiori (uno per ogni settimana dell'anno scolastico e ciascuno da saper recitare tutti i giorni dell'anno), li gettavo vivi nel grande fiume della lingua, quello che scorre lungo i secoli per venire a bussare alla nostra porta e ad attraversare la nostra casa. Certo che recalcitravano, le prime volte! Immaginavano che l'acqua fosse troppo fredda, troppo profonda, la corrente troppo forte, loro di costituzione troppo debole. Legittimo! La classica strizza da trampolino:

"Non ci riuscirò mai!"
.
"Non ho memoria."

(Tirar fuori una scusa del genere con me, uno smemorato dalla nascita!)

"È troppo lunga!"
"È troppo difficile!"
(A me, l'ex deficiente di turno!)

"E poi i versi non è come si parla oggi!"
(Ah! Ah! Ah!)

"Ci dà il voto, prof?"
(Eccome!)

Senza contare le proteste della maturità vilipesa:

"Imparare a memoria? Non siamo più dei bebè!".
"Mica sono un pappagallo!"

Giocavano il tutto e per tutto, lealmente. E, sostanzialmente, dicevano quelle cose perché le sentivano dire. Dai genitori stessi, a volte, genitori sommamente evoluti: "Ma come, professor Pennacchioni, fa studiare i testi a memoria? Mio figlio non è più un bambino!". Suo figlio, cara signora, sarà sempre un bambino, un figlio della lingua, e anche lei un piccolo bebè, e io un ridicolo marmocchio, e tutti quanti noi minutaglia trascinata dal grande fiume scaturito dalla sorgente orale delle Lettere, e suo figlio vorrà sapere in quale lingua nuota, che cosa lo tiene a galla, lo disseta e lo nutre, e vorrà farsi lui stesso portatore di tale bellezza, e con quale orgoglio!, gli piacerà tantissimo, dia retta a me, il gusto di quelle parole in bocca, i razzi illuminanti di quei pensieri nella testa, e scoprire le prodigiose capacità della sua memoria, la sua infinita duttilità, questa cassa di risonanza, il volume inaudito a cui far cantare le frasi più belle, riecheggiare le idee più chiare, andrà pazzo per questo nuoto sublinguistico quando avrà scoperto la grotta insaziabile della propria memoria, adorerà tuffarsi nella lingua, pescarvi i testi in profondità, e per tutta la sua vita saperli lì, costitutivi del suo essere, poterseli recitare all'improvviso, dirli a se stesso per sentire il sapore delle parole. Portatore di una tradizione scritta che per merito suo tornerà a essere orale, forse li reciterà a qualcun altro, per condividerli, per il gioco della seduzione, o per fare il saccente, è un rischio da correre. Così facendo si ricongiungerà con l'epoca che precede la scrittura, quando la sopravvivenza del pensiero dipendeva solo dalla nostra voce. Se lei la chiama regressione, io lo chiamo ricongiungimento! Il sapere è anzitutto carnale. Le nostre orecchie e i nostri occhi lo captano, la nostra bocca lo trasmette. Certo, ci viene dai libri, ma i libri escono da noi. Fa rumore, un pensiero, e il piacere di leggere è un retaggio del bisogno di dire»
[3].

Pennac racconta che da insegnante di scuole con ragazzi appartenenti a famiglie non colte esige - dopo aver appassionato alla cosa - la memorizzazione di un testo a settimana:  

«Un testo alla settimana, quindi, che dovevamo essere in grado di recitare ogni giorno dell'anno, senza preavviso, tanto loro quanto io. E numerati, per complicare la difficoltà. Prima settimana, testo n° 1. Seconda settimana, testo n° 2. Ventitreesima settimana, testo n° 23 . Tutte le apparenze di un meccanismo idiota, ma quei numeri a mo' di titoli erano un gioco, per aggiungere il piacere del caso all'orgoglio del sapere»[4].

Ecco uno dei testi da mandare a memoria nelle classi di Pennac, dall’Emilio di Rousseau:

«Vi fidate dell'ordine attuale della società senza pensare che tale ordine è soggetto a inevitabili rivoluzioni e che vi è impossibile tanto prevedere quanto prevenire quella che riguarda i vostri figli. Il grande diventa piccolo, il ricco diventa povero, il monarca diventa suddito; i colpi del destino sono forse così rari che voi possiate ritenervene indenni? Ci avviciniamo a un periodo di crisi e al secolo delle rivoluzioni. Chi può prevedere ciò che diventerete? Tutto ciò che gli uomini fanno, gli uomini possono distruggerlo; gli unici segni indelebili sono quelli impressi dalla natura, e la natura non crea né principi, né ricchi, né gran signori. Cosa farà dunque, nella bassezza, quel satrapo che avrete allevato solo per la grandezza? Cosa farà nella povertà quel pubblicano che sa vivere soltanto nell'oro? Cosa farà, sprovvisto di tutto, quel fastoso imbecille che non sa avvalersi di sé stesso e si affida solo a ciò che è estraneo a lui? Fortunato quindi chi sa abbandonare la condizione che lo abbandona, e rimanere uomo a dispetto della sorte! Che si lodi quanto si vorrà il re sconfitto che come un folle vuole essere sepolto sotto le macerie del suo trono; per lui io provo disprezzo; vedo che egli esiste solo con la sua corona in testa, e che non è più nulla se non è re; ma colui che la perde e sa farne a meno è allora al di sopra di essa. Dal rango di re, che un vile, un malvagio, un folle può adempiere come chiunque altro, sale alla condizione di uomo, che pochi uomini sanno adempiere...»[5].

Il gusto di memorizzare viene però sempre dopo il gusto di aver capito l’autore, il gusto di aver intuito la segreta grandezza di un pensiero che fa crescere se ci si confronta con esso. Sempre prima il contenuto delle competenze!

«Appena capivano ciò che leggevano, scoprivano le loro capacità mnemoniche, e spesso, prima della fine della lezione, un buon numero di loro recitava il testo per intero, riuscendo a coprire un'intera vasca senza l'aiuto del maestro di nuoto. Cominciavano a godersi la loro memoria. Non se lo aspettavano. Era come la scoperta di una funzione nuova, come se fossero spuntate loro le branchie. Stupiti di ricordare così in fretta, ripetevano il testo una seconda, una terza volta, senza intoppi. Poiché, una volta eliminata l'inibizione, capivano ciò di cui si ricordavano. Non si limitavano a recitare una successione di parole, non era solo la loro memoria a risvegliarsi, ma anche la loro intelligenza della lingua, la lingua di un altro, il pensiero di un altro. Non recitavano Emilio, bensì restituivano il ragionamento di Rousseau. Orgoglio. Non che in quei momenti tu ti creda Rousseau, ma l'intuizione imprecatoria di Jean-Jacques si esprime attraverso la tua bocca!»[6].

All’amore per i testi viene dietro la competenza. Pennac si stupisce di scoprire che, senza averlo suggerito, i suoi alunni cominciano a giocare con i testi ed a padroneggiarli al punto da saperli incrociare o recitare alla rovescia:

«A volte giocavano. Si esercitavano insieme, facevano gare di velocità oppure recitavano il testo con un tono estraneo alla sua natura: il furore, la sorpresa, la paura, il balbettamento, l'eloquenza politica, la passione amorosa; di tanto in tanto l'uno o l'altro imitava il presidente di turno, un ministro, un cantante, un conduttore del telegiornale... Facevano anche giochi pericolosi, rischiosi esercizi di agilità mentale; si lanciavano sfide acrobatiche che una classe di seconda superiore mi rivelò una sera, durante una cena di fine anno. (Avevano tenuto la cosa segreta, per far colpo sul prof.) A fine pasto, una Caroline puntò il dito verso un Sébastien:
"Vediamo se ci riesci: voglio il primo paragrafo del 3, la seconda strofa dell'11, la quarta del 6 e l'ultima frase del 15".
Il Sébastien raccolse la sfida e compose mentalmente il patchwork per poi recitarlo quasi senza esitazioni come un testo unico e bislacco
. Dopodiché lanciò la sua, di sfida:
"Adesso tocca a te, sparaci Il
ponte Mirabeau".
Precisò:
"Al contrario".
"Facile."
Ed ecco che, alle mie orecchie stupefatte, sotto il ponte Mirabeau la Senna prese a risalire controcorrente, dall'ultimo verso al primo, fino a sparire sotto l'altopiano di Langres. Soddisfatta, Caroline disse il nome dell'autore: Erianillopa!
"E questo, professore, lo sa fare?"
Forse un ispettore ministeriale non avrebbe apprezzato di vedere la Senna tornarsene alla sorgente o il cestello di una lavatrice confondere tutti i testi dell'anno, o i miei alunni di prima media decorare la classe con striscioni dove i loro errori di ortografia più spettacolari erano appesi come spoglie dei vinti. Ed era forse altrettanto riprovevole che io lasciassi i miei allievi più grandi farsi correggere i compiti dalla penna assassina dei più piccoli!
Non è forse un modo per gratificare gli uni umiliando gli altri? Insomma, non si scherza con queste cose! Avrei dovuto difendere la mia causa: niente panico, signor ispettore, bisogna sapere giocare con il sapere. Il gioco è il respiro della fatica, l'altro battito del cuore, non nuoce alla serietà dello studio, ne è il contrappunto. E poi giocare con la materia è un modo come un altro per abituarci a padroneggiarla. Non dia del bambino al pugile che salta la corda, è imprudente.
Mischiando i testi, le mie seconde non mancavano di rispetto a Dama Letteratura, ma esaltavano l'abilità della loro memoria! Non sminuivano un sapere, ma ammiravano se stessi nell'innocenza di un saper-fare! Esprimevano il loro orgoglio giocando, senza montarsi la testa. E poi stuzzicavano Rousseau, consolavano Apollinaire, divertivano Corneille
- che era anche lui incline agli scherzi e che deve annoiarsi un po', nella sua eternità. E soprattutto creavano tra loro un clima di fiducia ludica che rafforzava la serietà di ciascuno. Avevano chiuso con la paura. Era il loro modo di dirlo, di gridare: Finalmente!»
[7].

Note al testo

[1] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2013.

[2] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 122.

[3] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 123-125.

[4] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 127.

[5] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 128.

[6] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 129.

[7] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 130-131.