1/ Rabbà degli ammoniti in Giordania, il luogo della morte di Urìa l'ittita 2/ Papa Francesco: «Se qualcuno di noi dicesse: io mai ho avuto tentazioni», la risposta giusta sarebbe: «O sei un cherubino o sei un po’ scemo!» 3/ Senza il peccato, ci restano solo Freud e il Lexotan, di Luca Doninelli
- Tag usati: jorge_mario_bergoglio, papa_francesco, scritti_andrea_lonardo
- Segnala questo articolo:
Riprendiamo la sintesi dell’omelia di papa Francesco del 31/1/2014, un commento tratto da IlSussidiario.net dell’1/2/2014 ed una breve nota di Andrea Lonardo su Rabbà degli ammoniti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (4/2/2014)
1/ Rabbà degli ammoniti in Giordania, il luogo della morte di Urìa l'ittita. Breve nota di Andrea Lonardo
I pullman dei pellegrini e dei turisti vi passano vicino. Rabbà è vicino al Krak des Chevaliers, l’odierna Kerak, sulla strada che da quel luogo conduce a Madaba. Nessuno ricorda che lì il re Davide fece morire il suo fidato generale, Urìa l’ittita, per nascondere l’adulterio che aveva commesso con la moglie di lui Betsabea, mettendola in cinta. Il santo re, per evitare di ammettere di aver violato il matrimonio del suo generale, lo fece morire, perché non apparisse che la moglie aspettava un bambino dal re.
Quale posto migliore per raccontare della sua morte e per meditare su quella storia così importante. Quale luogo migliore per leggere il Salmo 50 che la tradizione biblica pone sulle labbra di Davide, quando si pentì del suo adulterio e del suo omicidio.
2/ Papa Francesco. Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae. I martiri dei nostri peccati (venerdì, 31 gennaio 2014), da L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.025, Sab. 01/02/2014
Liberarsi dal pericolo di essere cristiani «troppo sicuri», di perdere il «senso del peccato», restando irretiti da «una visione antropologica superpotente» e mondana capace di portare l’uomo a ritenere di poter fare tutto da solo.
È questa l’esortazione di Papa Francesco che — nella messa di venerdì mattina 31 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta — ha fatto riferimento all’episodio biblico della tentazione di Davide che invaghito di Betsabea, moglie del suo fedele soldato Urìa, la prende con sé e invia il marito in battaglia provocandone così la morte. La perdita del senso del peccato, ha detto il Pontefice, è il segno di come venga sminuito il significato del regno di Dio. Fa dimenticare che la salvezza viene da lui «e non dalle astuzie» degli uomini.
Prendendo spunto dalla liturgia del giorno, il Papa ha così centrato la sua omelia sul regno di Dio. Il passo di Marco (4, 26-34), ha detto il Pontefice, «ci parla del regno di Dio», di come cresce. In realtà, si legge nel Vangelo, «non lo sa neppure il seminatore» come questo avvenga. Ma in un altro passo, ha poi spiegato, Gesù dice che è proprio Dio a far crescere il suo regno in noi. «E questa crescita — ha precisato — è un dono di Dio che dobbiamo chiedere». E lo chiediamo ogni giorno quando recitiamo «il Padre nostro: venga il tuo regno!». Un’invocazione, ha notato, che «vuol dire: cresca il tuo regno dentro di noi, nella società. Cresca il regno di Dio!».
Ma «così come cresce — ha ammonito — il regno di Dio può anche diminuire». Ed è «di questo che ci parla la prima lettura», tratta dal secondo libro di Samuele (11, 1-4a.5-10a.13-17), il racconto della tentazione di Davide. Per spiegare il brano Papa Francesco si è ricollegato alle letture del giorno precedente, in particolare alla «bella preghiera di Davide al Signore: la preghiera per il suo popolo». È «il re che prega per il suo popolo, è la preghiera di un santo». Ma «l’anno successivo», ha evidenziato, «succede quello che abbiamo sentito» nel secondo libro di Samuele: la tentazione di Davide, appunto. Ed è ciò che sconvolge un regno tutto sommato tranquillo, nonostante piccole guerre per il controllo dei confini.
Anche «Davide è tranquillo», fa «una vita normale». Ma un giorno «dopo pranzo fa la siesta; poi si alza, va a passeggiare e gli viene una tentazione. E Davide cade nella tentazione» vedendo Betsabea, la moglie di Urìa.
«A tutti noi — ha commentato il Papa — può accadere questa cosa» perché «tutti siamo peccatori e tutti siamo tentati. E la tentazione è il pane nostro di ogni giorno». Tanto che, ha notato, «se qualcuno di noi dicesse: io mai ho avuto tentazioni», la risposta giusta sarebbe: «o sei un cherubino o sei un po’ scemo!». Infatti «è normale nella vita la lotta: il diavolo non sta tranquillo e vuole la sua vittoria».
In realtà «il problema più grave in questo brano — ha precisato — non è tanto la tentazione o il peccato contro il nono comandamento; è come agisce Davide». Infatti egli in questo frangente perde la consapevolezza del peccato e parla semplicemente di «un problema» da risolvere. E questo suo atteggiamento «è un segno», perché «quando il regno di Dio diminuisce, uno dei segni è che si perde il senso del peccato».
Davide, ha spiegato il Papa, commette «un grosso peccato», eppure «non lo sente» tale. Per lui è solo un «problema». Perciò «non gli viene in mente di chiedere perdono». Si preoccupa solo di risolvere il problema — dopo il suo rapporto con Betsabea la donna resta incinta — e si chiede: «Come copro l’adulterio?».
Così mette in atto una strategia e la porta avanti in modo tale da far pensare ad Urìa che il bimbo che sua moglie porta nel grembo sia effettivamente suo figlio. Urìa, ha spiegato ancora il Pontefice, «era un bravo israelita, pensava ai suoi compagni e non voleva fare festa mentre l’esercito di Israele lottava». Ma Davide, dopo aver provato inutilmente a convincerlo «con il banchetto, con il vino», da «uomo deciso, uomo di governo, prende la decisione» e scrive una lettera a Iaob, il capitano dell’esercito, ordinandogli di mandare Urìa nel posto più difficile della battaglia in modo da farlo morire. «E così è accaduto. Urìa cade. E cade perché è messo proprio lì perché cadesse»: si tratta di «un omicidio».
Eppure «quando il re Davide conosce com’è finita la storia, rimane tranquillo e continua la sua vita». La ragione? Davide «aveva perso il senso del peccato e in quel momento il regno di Dio cominciava a calare» dal suo orizzonte. Lo dimostra il fatto che Davide non fa «riferimento a Dio», non dice: «Signore, guarda cosa ho fatto: come facciamo?». In lui invece prende il sopravvento «questa visione antropologica superpotente: io posso tutto!». È l’atteggiamento della «mondanità».
Lo stesso, ha detto il Pontefice, «può succedere a noi quando perdiamo il senso del regno di Dio e conseguentemente il senso del peccato». E in proposito ha ricordato le parole di Pio XII, che ha indicato proprio nell’«aver perso il senso del peccato il male di questa civilizzazione: tutto si può, tutto risolviamo noi! La potenza dell’uomo al posto della gloria di Dio!».
Un modo di pensare questo, ha notato il Papa, che «è il pane di ogni giorno». Di qui la nostra «preghiera di tutti i giorni a Dio: Venga il tuo regno! Cresca il tuo regno!». Perché «la salvezza non verrà dalle nostre furbizie, dalle nostre astuzie, dalla nostra intelligenza nel fare gli affari». No, «la salvezza verrà per la grazia di Dio e dall’allenamento quotidiano che noi facciamo di questa grazia», cioè «la vita cristiana».
Papa Francesco ha poi elencato «i tanti personaggi» nominati nel brano biblico: Davide, Betsabea, Ioab ma anche «i cortigiani» che erano tutti intorno a Davide e «sapevano tutto: un vero scandalo ma non si scandalizzavano», perché anche loro avevano «perso il senso del peccato». E poi c’è «il povero Urìa che paga il conto del banchetto».
Proprio la figura di Urìa ha suscita la riflessione conclusiva del Santo Padre: «Io vi confesso che quando vedo queste ingiustizie, questa superbia umana» o «quando avverto il pericolo, che io stesso» posso rischiare, «di perdere il senso del peccato — ha ammesso — penso che fa bene pensare ai tanti Urìa della storia, ai tanti Urìa che anche oggi soffrono la nostra mediocrità cristiana». Una mediocrità che prevale quando «perdiamo il senso del peccato e lasciamo che il regno di Dio cada».
Le persone come Urìa, ha detto, «sono i martiri non riconosciuti dei nostri peccati». Così, ha aggiunto il Pontefice, «ci farà bene oggi pregare per noi, perché il Signore ci dia sempre la grazia di non perdere il senso del peccato e perché il regno non cali in noi». E ha concluso invitando «anche a portare un fiore spirituale alla tomba di questi Urìa contemporanei, che pagano il conto del banchetto dei sicuri, di quei cristiani che si sentono sicuri. E che, senza volerlo, o volendolo, fanno gli omicidi del prossimo».
3/ «Senza il peccato, ci restano solo Freud e il Lexotan», di Luca Doninelli
Non è facile, nel nostro tempo, trovare un'ipocrisia paragonabile a quella che ci salta agli occhi ogni volta che la parola peccato compare nelle nostre conversazioni. Ne ha parlato, con la sua terribile semplicità, Papa Francesco, a Santa Marta, commentando l'episodio biblico di Davide e Betsabea.
Davide, dice, considera ciò che ha fatto (non solo un adulterio, ma anche, indirettamente, un omicidio) come un problema da risolvere, qualcosa per cui è necessario trovare una soluzione. Tutti noi, ha detto, siamo tentati di fare altrettanto. Il fatto è che non è un problema: è un peccato.
La cultura che si definisce moderna ha in odio questa parola, anche se poi la confonde (secondo me in malafede) con la colpa. Ora, sarebbe sbagliato sostenere che nella Chiesa non si sia mai usato lo spauracchio del peccato per asservire le coscienze. È successo. Ma di qui a confondere il senso di colpa (che è sempre schiavizzante) con quello del peccato, ce ne corre.
Quello che irrita, nella parola "peccato", è il suo riferimento alla libertà. Essa ci ricorda che il destino è inchiodato alla nostra libertà. E tante volte ci piacerebbe sbarazzarci della libertà. Meglio la dialettica storica, meglio i riflessi condizionati, meglio le palude della coscienza di cui parla Pirandello, meglio le reazioni inconsce, meglio il Dna e le sinapsi neuronali, meglio tutto.
Ma ecco un bel brano di Péguy, molto illuminante e pieno d'ironia, tratto dal Mistero dei Santi Innocenti.
"Non mi piace, dice Dio, l'uomo che non dorme. Colui che, nel suo letto, arde d'inquietudine e di febbre. Sono favorevole, dice Dio, a che ogni sera si faccia l'esame di coscienza. È un buon esercizio. Ma poi non bisogna torturarsi al punto da perdere il sonno. A quel punto la giornata è fatta, ben fatta e non c'è da rifarla. Non ha senso tornarci sopra. Quei peccati che ti danno tanta pena, ragazzo mio, bè, è semplice: amico mio, bastava non commetterli quando eri ancora in tempo. A questo punto è fatta: dormi. Domani non li rifarai più"
Tutta l'irritazione che la parola "peccato" ci trasmette si lega a quell'impertinente versetto, bastava non commetterli, che se la ride della dialettica storica, di Freud e del Dna. Perché alla fine è così: tutto il problema (questo sì, è un problema) di una buona educazione alla libertà - che è l'educazione fondamentale - sta nell'educare all'idea che le cose si possono fare e non fare, e che questo dipende soprattutto da noi.
Quello che irrita è tutta questa importanza che il cristianesimo dà all'uomo. Importanza vuol dire responsabilità, e questa è un'altra parola poco popolare (tranne quando si tratta di accusare qualcun altro, allora saltano fuori le "precise responsabilità").
Noi odiamo queste due cose insieme, e Péguy ce lo ricorda con un sorriso. Preferiamo cullarci nel nostro limbo moderno di esseri perennemente irrisolti. Come disse un amico: ci infuriamo se qualcuno ci pesta un piede sul tram e non facciamo una piega se calpestano la nostra dignità. Il rischio è che non teniamo più a nulla, che il mondo (ivi compresa la nostra vita) si riduca per noi a una specie di macchina da far andare avanti. Se fosse così, ci sarebbero al massimo errori, inadempienze, disattenzioni.
Ma prima o poi la libertà irrompe nella nostra vita, con il suo carico di peccato, e allora scatta l'alternativa: o cominciamo a prenderci sul serio, o dovremo accontentarci del lexotan (o del viagra).