Mi ricordo i lacchè di Zdanov. Parla Izrail' Metter, vincitore del Grinzane, di Daniela Pasti
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Il Centro culturale Gli scritti (10/11/2013)
Roma - Lo scrittore russo Izrail' Metter è stato rivelato in Italia dal suo romanzo Il quinto angolo (pubblicato da Einaudi): uno dei pochi romanzi di grande qualità usciti grazie alla perestrojka. Scritto nel 1967 ha visto infatti la luce in edizione integrale in Unione Sovietica solo nel 1989, dopo essere stato rifiutato da alcune case editrici ed essere stato pubblicato, sotto forma di racconto breve, in una versione censurata da tutti i riferimenti a Stalin e allo stalinismo. Una censura non da poco dato che Il quinto angolo è una lacerante storia d' amore che si svolge sullo sfondo delle persecuzioni staliniane: lo stesso titolo indica il mostruoso gioco che i carnefici della Gpu facevano con le loro vittime, spintonandole con pugni e calci per tutta la stanza e invitandole a cercarne il quinto angolo.
Il romanzo ha vinto domenica il premio super Grinzane assegnato dalle scolaresche fra una rosa di libri selezionati dai critici e l'avvenimento ha fatto doppiamente piacere all'anziano scrittore che in questi giorni si trova in Italia: "I danari del premio", ha detto al suo editore Giulio Einaudi, "mi permetteranno di vivere per un po' senza preoccupazione, ma se avessi dovuto scegliere fra un premio senza soldi assegnato dagli studenti e un premio ricco dato dai critici, avrei preferito il primo".
Come il protagonista del suo romanzo, in gran parte autobiografico, Metter è stato insegnante di matematica ed ha con i giovani un rapporto affettuoso. A Roma lunedì mattina ha incontrato gli studenti di lettere all' Università, per quella che doveva essere una conferenza sulla letteratura russa negli anni del terrore ed è diventata una lunga, distesa chiacchierata condita di aneddoti e di ricordi, non solo sulla letteratura, ma su di sé e sui suoi libri.
Scrivo come l'ape fa il miele
Vestito di marrone, un sorriso ironico che addolciva il viso magro segnato dai suoi ottantatré anni, Izrail' Metter ha cominciato dalla domanda più importante, illustrando l' alto compito che egli assegna alla letteratura. "Anni fa", ha raccontato, "ho ricevuto un questionario da un giornale di Parigi. Chiedevano: perché scrive? Nell'Unione degli scrittori qualcuno ha risposto: scrivo perché respiro, scrivo come l'ape fa il miele, scrivo come cantano gli uccelli. Queste risposte contengono un po' di verità. Ma io dico che bisogna scrivere quando non si può tacere, quando il silenzio fa male. Negli anni passati si doveva scrivere del potere sovietico, ma l'Unione degli scrittori ha scritto con spirito di lacchè e ha inquinato la letteratura.
"Io" ha continuato Metter, "scrivo per capire se c'è per noi una speranza: solo la letteratura può dare le risposte al destino dell' uomo. I grandi libri del passato ci aiutano a capire l'umanità di oggi, i nostri libri dovranno dare delle risposte alla storia". Questo compito quasi religioso di testimonianza e interpretazione della realtà, cui neanche la storia, spesso bugiarda, può assolvere, è stato tradito dagli scrittori di regime. Alla platea silenziosa Metter ha ricordato alcuni episodi dello stalinismo vissuti direttamente: "Io non sono stato in carcere o nei lager, ma sono stato ferito nell'anima vedendo come degli schiavi potevano amare ed esaltare il loro oppressore Stalin".
Lo scrittore ha parlato della drammatica riunione allo Smol'nyj nella quale Zdanov attaccò gli scrittori Zoscenko e Anna Achmatova: "Alle dieci di sera ci caricarono sugli autobus senza darci nessuna spiegazione e ci portarono a Leningrado: nel corridoio dello Smol'nyj vidi la segretaria dell'Unione scrittori con la faccia scura, non mi voleva parlare, poi mi disse che si trattava di Zoscenko e della Achmatova. Pensando di scherzare le chiesi se era una cosa così grave che non si sarebbe potuta sedere accanto a loro e lei rispose: io non mi siederei accanto a Zoscenko.
Poi sulla tribuna da dove Lenin aveva proclamato la nascita dell'Unione Sovietica apparve l'imponente figura di Zdanov e pronunciò un discorso pieno di disprezzo, ripugnante, che ci umiliava tutti. Parlava di un intellettuale come Zoscenko, tanto grande che nessuno poteva odiarlo, i cui libri avevano previsto in anticipo quello che sarebbe accaduto, e usava parole come teppista, feccia. Tutti sedevano muti, senza poter reagire. E dopo quella riunione l'Unione degli scrittori si trasformò in un congresso di lacchè".
Lo scrittore tace su un altro episodio significativo della sua vita: anni dopo Zoscenko fu nuovamente messo ferocemente sotto accusa e invitato a fare l'autocritica. Pronunciò in quell'occasione un appassionato e commovente discorso, che Metter applaudì, unico, alzandosi in piedi. Come conseguenza dopo di allora gli fu proibito recarsi all'estero anche per brevi viaggi di lavoro.
Ma per alleggerire l'atmosfera dell' aula universitaria lo scrittore ricorre a quella che chiama la sua ironia ebraica. "La mia protesta contro Stalin", afferma con un sorriso, "è stata di ordine morale, ma anche estetico. Lenin era per noi un romantico della rivoluzione, avevo una simpatia per quello che rappresentava dopo gli anni di Nicola II, un tiranno che oggi, nel mio paese senza gusto e senza senso della misura, dove c'è una profonda volgarità del potere, è diventato di moda lodare.
Ma con Stalin" continua Metter "nacque una terminologia grottesca. Quando lo sentii per la prima volta chiamare 'capo di tutti i popoli' sorrisi, ma quando si fece nominare 'corifeo di tutte le scienze' il mio scetticismo e il mio senso ebraico dell'ironia si sono ribellati". Metter spiega che a nessun costo vuole che il suo sia considerato un romanzo politico: "È soprattutto una storia d'amore, anche se è inserita in certe circostanze storiche che la rendono diversa da altri amori. Ho scritto sull' amore perché ritengo che non ci sia un sentimento più forte nella vita, e anche perché io sono sempre stato innamorato di qualcuno" e accennando alla moglie, una signora che conserva la grazia di quando era ballerina al teatro di Kirov: "sono sposato con lei da 5O anni, ma la Katia del racconto non è mia moglie e lei per molti anni non ha voluto sposarmi perché la donna racconto non è mia moglie e lei per molti anni non ha voluto sposarmi perché pensava che fossi sempre innamorato dell'altra donna".
Fra i vari argomenti toccati con gli studenti, Metter ha parlato anche del suo essere ebreo e russo: "Sono russo per cultura", ha detto, "ma i miei ricordi sono di una infanzia e di una adolescenza ebrea. Mi considero fortunato perché quando gli ebrei sono perseguitati penso: sono uno di loro, e quando va male per la Russia mi sento molto russo. Per questo non ho mai voluto cambiare il mio nome così esplicito, anche se quando vado in qualche ufficio e l'impiegato mi dice 'sei un bel tipo di muso ebreo' provo dentro di me la stessa sensazione che ha Evghenij, l'eroe di Puskin, quando si avvicina al monumento di Pietro I e gli sembra che il cavallo di bronzo lo insegua con i suoi zoccoli di ferro."
Che delusione il democratismo
Oggi gli scrittori russi tacciono cercando di capire quello che sta succedendo: "Siamo delusi da questo democratismo, non capiamo l'economia, le condizioni di vita sono terribili: la mia sensazione è che tanti sono destinati a morire di fame". Ancora una volta ricorre l'alta concezione della letteratura come interprete della realtà profonda dell' uomo: "Uno scrittore potrebbe scrivere di cose contingenti, come delle lunghe file davanti ai negozi, ma questo non significa scrivere della contemporaneità: contemporaneo è quello che è intensamente umano".
E quando gli studenti gli chiedono quali sono le opere da leggere per capire meglio il suo paese, senza esitazioni indica Puskin, lamentandosi che in occidente sia così poco conosciuto, e consiglia anche la lettura dei Demoni di Dostoevskij e Il demone meschino di Sologub: "Un racconto il cui personaggio Peredonov è diventato quasi un simbolo della meschinità spirituale che caratterizza la vita oggi in Russia".
Nonostante tutto però la stessa fede che Metter ripone nella letteratura nutre anche il suo atteggiamento nei confronti dell'uomo; le sue ultime parole agli studenti prima di lasciare l'aula sono di fiducia: "Non ho mai capito" dice "la formula di Dostoevskij: il mondo sarà salvato dalla bellezza. No, io credo che il mondo sarà salvato dalla bontà".