Da sempre un popolo invoca sua madre. La Madonna e i giganti della letteratura cristiana, di Giovanni Fighera
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Giovanni Fighera pubblicato il 15/8/2013. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/8/2013)
La tradizione della Chiesa ha da sempre riconosciuto nella Madonna la nostra avvocata e mediatrice presso il Figlio Gesù. La Madre, infatti, porta al Figlio e ce lo indica come unica via alla salvezza. Un fedele culto mariano non può che indirizzare a Colui che è «la via, la verità e la vita». Una vastissima produzione artistica e letteraria ha consacrato a chiare lettere, nel corso dei secoli, quella bellezza che tutta la tradizione cattolica ha fin da subito riconosciuto alla Madonna, la Madre di Dio.
Una incursione nel territorio della letteratura alta ci permette di rilevare come nel corso del Medioevo la devozione mariana sia centrale e diffusa nel popolo dei credenti come in quello degli intellettuali e dei letterati. Con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento prima e della Modernità poi, invece, si crea una frattura tra il popolo che continua ad essere devoto alla Madre di Dio e il mondo dei letterati che in rarissimi casi le dedicano componimenti. Questa spaccatura è ancor più evidente se si pensa che tutte le tre principali opere letterarie dell’Europa del Trecento, scritte da fiorentini, la Divina Commedia, il Canzoniere, il Decameron, si concludono idealmente con una preghiera alla Vergine (nei primi due casi) o con una chiara allusione a Lei (nel capolavoro del Boccaccio).
Partiamo nel nostro percorso dallo Stabat mater dolorosa. Attribuito dalla tradizione a Iacopone da Todi (1230-1306) e musicato da artisti come Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) e Antonin Dvorak (1841-1904), lo Stabat mater rappresenta la Vergine Maria in tutta la sua umanità, in tutto il suo dramma di madre sofferente ai piedi della croce, «afflitta e addolorata» per «le pene del suo figlio ripiegato».
Madre e figlio sono i due termini su cui il testo insiste continuamente, sono le due espressioni che attestano anche il rapporto di Maria con noi. Chi di noi non soffrirebbe, si chiede Iacopone, vedendo la madre di Cristo, ma anche madre nostra, soffrire in maniera così atroce. L’uomo può solo chiedere alla Madonna che gli venga permesso di piangere con Lei, può solo gridare con tutto il cuore.
Iacopone Le si rivolge allora così: «Permetti che il mio cuore si infiammi/ nell’amore per Cristo Dio,/ per piacere a lui!/ Santa Madre, fa’ in modo che/ le piaghe del crocifisso siano impresse/ profondamente nel mio cuore».
Lo scrittore chiede di poter condividere, compatire la pena per la crocefissione di Cristo, finché sarà in vita. Il centro, il motivo assiologico dell’intera lauda, sta tutto in quel «Fac ut ardeam cor meum», cioè «fa’ in modo che il mio cuore si infiammi tutto nell’ardore di Cristo Dio».
L’amore o si offre in forma totale, integrale, o non è vero amore. L’amore, dono commosso di sé agli altri, ci fa desiderare di aiutare Maria a portare la sua croce, di compatire con Lei, lì ai piedi della croce. Allo stesso modo, desideriamo un giorno gioire con Lei anche nel Paradiso: «Quando il corpo morirà/ fa’ in modo che all’anima/ sia donata/ la gloria del Paradiso». Come il Buon ladrone in presenza di Cristo, anche Iacopone alla presenza della Madonna chiede il Regno di Dio.
Qualche anno dopo lo Stabat Mater, il più grande autore della nostra letteratura mostrerà come la compassione della Madonna per il Figlio Gesù è diventata simpatia (nel senso etimologico del termine, «soffrire con») per tutti noi: la Madonna, prevenendo la richiesta di Dante, gli ha inviato in aiuto Santa Lucia. Questa chiederà in soccorso Beatrice, che, a sua volta, si recherà da Virgilio. L’autore dell’Eneide sarà la guida di Dante nella prima parte del viaggio verso la salvezza.
Nell’Inferno Dante vedrà tutto il male di cui l’uomo è capace, che lui stesso potrebbe compiere. Sperimenterà la necessità di qualcuno che vada incontro alla sua miseria e che lo guidi. Da solo, infatti, ha tentato di salire sul colle luminoso, preso dall’orgoglio e dalla presunzione, ferito nel cuore come ogni uomo per il peccato originale, che vorrebbe che ci muovessimo senza legami e senza Dio.
Come tutti noi, però, anche Dante sperimenta l’inanità della vita, il non senso che avanza nelle giornate, quando si esclude il Mistero. Ma il Mistero bussa sempre e nuovamente alla nostra porta con infinita misericordia. E così, mentre Dante sprofonda verso l’abisso, il fondo della valle, risospinto dalle tre fiere, «dinanzi agli occhi» gli viene «offerto chi per lungo silenzio» pare «fioco». Virgilio induce Dante a divenire consapevole della necessità di un aiuto. Così, l’homo viator verifica che l’unica condizione che davvero lo eleva e lo rende protagonista della propria storia è quella della mendicanza. La sua discesa agli inferi è, perciò, già una salita, una constatazione di tutto il male di cui il mondo è capace, di cui ogni uomo può macchiarsi.
Nel Purgatorio Dante vedrà, poi, la bellezza della comunione e della condivisione delle anime purganti, che procedono tutte insieme per «ire a farsi belle». È un popolo in cammino quello che sale quegli irti sentieri, è una moltitudine che richiama molto da vicino la ecclesia Dei che milita ancora sulla terra.
L’unica differenza è la certezza della salvezza che già inonda di gioia le anime purganti, certezza che, invece, la chiesa militante deve ancora conquistare. Umiltà e contrizione (cioè vero pentimento) contraddistinguono la condizione che Dante (e quindi ognuno di noi) deve assumere per poter realmente salire. Il viaggio del Purgatorio è il viaggio a cui noi siamo chiamati fin da oggi per purificare i nostri vizi capitali.
Nel Paradiso, infine, Dante vedrà uomini pienamente compiuti, definitivamente e pienamente felici, le anime dei santi. Per salire di cielo in cielo fino alla visio Dei Dante dovrà sostenere degli esami, dovrà rispondere alle domande sulla fede, sulla speranza e sulla carità. Risposte esatte significano esame superato, ma Dante non può ancora vedere Dio. Anzi, i suoi meriti sono così insufficienti e inadeguati che Beatrice stessa, già santa e in cielo, non può nulla.
Entra, quindi, in scena la figura di S. Bernardo, grande santo e mistico del Duecento, l’autore di una delle più belle preghiere mariane, quel Memorare che rappresenta il vertice della fiducia nella Madonna come corredentrice e soccorritrice dell’umanità sofferente. Tradotto dal latino, il testo suona così: «Ricordati, o piissima Vergine Maria, non essersi mai udito al mondo che alcuno abbia ricorso al tuo patrocinio, implorato il tuo aiuto, chiesto la tua protezione e sia stato abbandonato. Animato da tale confidenza, a te ricorro, o Madre, o Vergine delle vergini, a te vengo e, peccatore contrito, innanzi a te mi prostro. Non volere, o Madre del Verbo, disprezzare le mie preghiere, ma ascoltami propizia ed esaudiscimi. Amen».
Il Memorare ci insegna la virtù della mendicanza e della preghiera. Così come in vita Bernardo ha declamato la bellezza della Madonna, ora, santo in Paradiso, prega l’avvocata nostra, Colei che è «bellezza, che letizia/ era ne li occhi a tutti li altri santi», perché Dante possa finalmente vedere Dio, dopo la fatica di quel lungo viaggio che dalla selva oscura di Gerusalemme lo ha portato fino all’Empireo.
S. Bernardo rivolge, così, in Paradiso alla Vergine Maria una delle preghiere più belle che Le siano state mai dedicate: «Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’etterno consiglio,/ tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì, che ’l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura./ Nel ventre tuo si raccese l’amore,/ per lo cui caldo ne l’etterna pace/ così è germinato questo fiore./ Qui se’ a noi meridiana face/ di caritate, e giuso, intra ’ mortali,/ se’ di speranza fontana vivace./ Donna, se’ tanto grande e tanto vali,/ che qual vuol grazia e a te non ricorre/ sua disianza vuol volar sanz’ali./ La tua benignità non pur soccorre/ a chi domanda, ma molte fiate/ liberamente al dimandar precorre./ In te misericordia, in te pietate,/ in te magnificenza, in te s’aduna/ quantunque in creatura è di bontate».
La Madonna è, qui, presentata in tutta la sua umanità di madre, mamma di Gesù, ma anche nostra. In quanto tale, Maria non può non soccorrere tutti i suoi figli, non solo quelli che chiedono la sua intercessione, ma anche quelli che, orgogliosi o non riconoscenti o ancora convinti che nessuno possa aiutarli, a Lei non ricorrono.
Pensiamo alla storia che Dante racconta nella Divina commedia. Quando Dante decide finalmente di gridare «Miserere di me», mentre è risospinto nella selva oscura «là dove ‘l sol tace», in realtà la Madonna ha già visto le sue difficoltà e gli ha già inviato proprio quel Virgilio cui lui rivolge la sua richiesta di aiuto. Maria ha, qui, prevenuto il grido di Dante.
Oltre che madre, la Madonna è stata colei che ha contribuito alla redenzione dell’umanità attraverso l’incarnazione di Cristo. Il fiat che Maria rivolge all’Angelo è il mezzo grazie al quale Dio si è fatto carne. La Madonna ha collaborato alla redenzione del mondo, in un certo modo è corredentrice. Dio ha voluto tutta la disponibilità dell’uomo, Dio ha bisogno degli uomini come recita il titolo di un famoso film di Jean Delannoy (1950). Proprio in grazia dei suoi futuri meriti, Dio ha preservato Maria dal peccato, Lei è la sine labe concepta (la «partorita senza peccato»), l’Immacolata concezione, ricettacolo di misericordia, di pietà e di ogni tipo di carità.
La Madonna è per noi continua fonte di speranza cui guardare sempre, anche nei momenti di grande difficoltà: se qualcuno volesse una grazia e non ricorresse a Lei, sarebbe come se un essere vivente fosse sprovvisto di ali e volesse volare.
S. Bernardo, subito dopo, vuole spiegare alla Madonna le ragioni che hanno indotto Dante a compiere questo viaggio. Ovviamente, Lei già le conosce, ne sia prova il fatto che è intervenuta in soccorso del poeta ancor prima che lui chiedesse aiuto. Queste sono le parole che S. Bernardo Le rivolge: «Or questi, che da l’infima lacuna/ de l’universo infin qui ha vedute/ le vite spiritali ad una ad una,/ supplica a te, per grazia, di virtute/ tanto, che possa con li occhi levarsi/ più alto verso l’ultima salute./ E io, che mai per mio veder non arsi/ più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi/ ti porgo, e priego che non sieno scarsi,/ perché tu ogne nube li disleghi/ di sua mortalità co’ prieghi tuoi,/ sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi./ Ancor ti priego, regina, che puoi/ ciò che tu vuoli, che conservi sani,/ dopo tanto veder, li affetti suoi./ Vinca tua guardia i movimenti umani:/ vedi Beatrice con quanti beati/ per li miei prieghi ti chiudono le mani!»
Elevandosi sino alla visio Dei, Dante non deve, però, perdere le facoltà intellettive o sensitive. Dante deve, infatti, poter raccontare quello che ha visto, ovvero Dio, definito da S. Bernardo come «l’ultima salute», cioè l’estrema nostra possibilità di salvezza, e «sommo piacer», cioè felicità piena per l’essere umano, unica possibilità per soddisfare il desiderio di Infinito che contraddistingue il nostro cuore.
Come Dante ha concluso la Commedia, così anche Petrarca terminerà il suo capolavoro con un inno alla Vergine Maria. Il Rerum vulgarium fragmenta, più conosciuto come Canzoniere, è una sorta di breviario laico, composto di trecentosessantasei poesie, come fossero preghiere dedicate alla sua Madonna Laura, una per ciascun giorno dell’anno.
La lode alla Vergine che conclude l’opera è segno di omaggio al Sommo poeta, senz’altro, ma ancor più di indefettibile amore per Maria. Anche il percorso del Canzoniere appare salvifico, in un certo modo simile a quello della Commedia. Dalla situazione di difficoltà di «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono», dal perenne struggimento interiore per l’incapacità di rivolgersi definitivamente al bene l’autore passa, così, all’affidamento del proprio male e della propria malinconia a Colei che volentieri viene in nostro soccorso.
È una traiettoria di ascesi, delineata in maniera inaspettata, perché noi tutti, che abbiamo letto le poesie in cui l’autoascultazione e il compiacimento per la propria situazione sembrano trionfare sull’adesione al bene e al vero, mai ci saremmo aspettati una conclusione così consapevole e perentoria, una posizione così categorica che sembra sconfiggere e annichilire ogni accidia e pigrizia. Certo, la bellezza sta nel fatto che questo Petrarca rinnovato e «convertito» rimane ancora tutto se stesso, con i suoi «limiti», con la sua percezione dell’esistenza, abbracciati, però, da un amore più grande.
La sensibilità del Poeta, infatti, emerge in maniera antifrastica rispetto a quella di Dante. I due poeti che saranno considerati nella storia della letteratura italiana successiva come paradigmi di due modalità diverse, quasi opposte, di far poesia si trovano accomunati da un medesimo afflatus religioso, che non ha dubbi sulla bellezza del Cielo e della sua Regina. Nel caso di Petrarca tutta l’incertezza riguarda l’umano, ovvero la capacità nostra di aderire al progetto di bene che Dio ha pensato per noi, non certo la presenza e la bontà del Creatore nella nostra vita.
Il Cantore di Laura non ci presenta come primo tratto la maternità della Madonna (come fa Dante), bensì la sua bellezza con un tocco di sensualità e, nel contempo, memore dell’Apocalisse. Così, la apostrofa: «Vergine bella, che di sol vestita,/ coronata di stelle, al sommo Sole/ piacesti sì che ’n te sua luce ascose,/ amor mi spinge a dir di te parole;/ ma non so ’ncominciar senza tu’aita/ e di colui ch’amando in te si pose./ Invoco lei che ben sempre rispose,/ chi la chiamò con fede./ Vergine, s’a mercede/ miseria estrema de l’umane cose/ già mai ti volse, al mio prego t’inchina;/ soccorri a la mia guerra,/ ben ch’i’ sia terra e tu del ciel regina».
La tradizionale invocazione alle muse tipica della poesia epica è qui sostituita dalla richiesta di aiuto alla Vergine perché il Poeta possa incominciare la sua poesia. Petrarca sente tutta la sproporzione tra la sua pochezza e caducità e la grandezza di Maria, regina del cielo. La Madonna raffigurata da Dante è, invece, subito da noi percepita come intima, vicina, prossima alle nostre miserie.
Nel contempo, Petrarca cerca di colmare questo senso di sproporzione tra la sua piccolezza e la Regina del Cielo con un’invocazione lunga e che, in un certo senso, riasserisce con insistenza gli stessi concetti. La moltiplicazione dello stesso significato e della preghiera, oltre ad essere conforme alla poetica di Petrarca, ha come fine quello di presentare più volte di fronte alla Madonna le sue richieste.
La canzone petrarchesca si dispiega, così, in ben dieci stanze. La Vergine è dapprima apostrofata come una delle «vergini prudenti», dai «begli occhi/ che vider tristi la spietata stampa» dei chiodi della croce. La bellezza non viene in alcun modo sminuita dalla sofferenza, anzi viene accentuata dalla sovrabbondanza di amore con cui la Madre ha accompagnato la passione del Figlio.
Il dantesco «Vergine Madre, figlia del tuo figlio» si traduce in Petrarca in «del tuo parto gentil figliola e madre», mentre le bellissime espressioni dantesche «qui … meridiana face/ di caritate, e giuso, intra’ mortali… di speranza fontana vivace» sono diventate due azioni di Maria («Allumi questa vita e l’altra adorni»). Novella Eva, la Madonna è stata strumento del Cielo, grazie al suo «sì» sono state possibili l’incarnazione di Cristo e la redenzione dell’umanità.
«Madre, figliuola e sposa», la «Vergine gloriosa» è «vera Beatrice», colei che ha fatto ‘l mondo «libero e felice», grazia sovrabbondante che soccorre la miseria umana.
Petrarca rimpiange di aver perseguito per tanti anni «mortal bellezza, atti e parole», che gli hanno «tutta ingombrata l’alma» fra «miserie e peccati». Ora che, giunto «forse a l’ultimo anno», ripone tutta la sua speranza nella Madonna, il Poeta Le chiede di non guardare i suoi meriti e il suo valore, ma «l’alta… sembianza» di Dio impressa come un sigillo anche nel suo cuore misero.
Così, alla Vergine «umana e nemica d’orgoglio», la creatura umile per eccellenza, Petrarca rivolge alla fine l’ultima invocazione: «Miserere d’un cor contrito, umile,…/ raccomandami al tuo Figliuol, verace/ omo e verace Dio,/ ch’accolga ’l mio spirito in pace». La Madre non può che condurci al Figlio, al vero Redentore dell’Umanità, Gesù Cristo. In questa umiltà, in questo materno amore che vuole salvare tutti i suoi figli, traluce ancor più lo splendore della bellezza di Maria.
Non sarà un caso se anche il terzo capolavoro del Trecento, il Decameron, presenta un percorso di redenzione che, in qualche modo, richiama quelli della Divina commedia e del Canzoniere. L’opera di Giovanni Boccaccio da un lato è chiara espressione dell’Umanesimo incipiente, con la sua esaltazione dell’uomo e della sua capacità di affermarsi tramite il valore e l’intelligenza, dall’altro conserva aspetti ancora tipicamente medioevali e danteschi.
Si apre, infatti, con il più grande peccatore del mondo, quel Ser Ciappelletto che perfino in punto di morte ha il coraggio di sfidare Dio e di rilasciare una confessione che è un capolavoro di retorica assoggettata al male. Si concluderà con la figura di Griselda, donna che sopporta ogni genere di prova da parte del severo marito Gualtieri.
Certamente, Boccaccio non può concludere una «commedia» umana e mondana come il Decameron con la Madonna, Madre di Dio. L’autore pone, quindi, a degno congedo del corpus novellistico una Madonna tutta terrena, che presenta, senza dubbio, somiglianze con Maria. Basti pensare che Gualtieri, prima di sposarla, chiede a Griselda «s’ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai». Lei risponde «sì» come la Madonna all’angelo. L’avventura matrimoniale inizia solo dopo quel «sì».
«Di persona e di viso bella», Griselda risponde al marito che vuole sperimentare la sua virtù: «Fa’ di me quello che tu credi che più onore e consolazion sia, ché io sarò di tutto contenta […]; io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti». La donna emerge in tutta la sua umiltà e pazienza. Accetta anche il sacrificio dei figli e, quando viene ripudiata dal marito, gli dice: «Io vi priego, in premio della mia verginità, che io ci recai […], che almeno una sola camicia sopra la dote mia vi piaccia che io portar ne possa».
L’ultima prova cui Griselda è sottoposta è quella di acconciare la novella sposa di Gualtieri. Allora lei chiede al marito che l’ha ripudiata di non sottoporre la futura moglie a prove dure come quelle che ha dovuto sperimentare lei.
Solo a questo punto Gualtieri rivela che il suo comportamento è stato messo in atto ad arte per sperimentare la virtù di lei, che si è dimostrata la moglie migliore che uomo possa avere, «sopra tutti savissima», l’unica che avrebbe potuto sperimentare le «rigide e mai più udite prove da Gualtieri fatte». Griselda è, così, presentata come la più virtuosa donna che sia mai esistita in terra, dopo la Madonna.
La prospettiva tutta mondana dell’Umanesimo, che non rinnega il Cielo, ma auspica un’affermazione dell’uomo in Terra grazie all’eccellenza e alla virtù, è alle porte.