Grazia Deledda, una grande scrittrice del Novecento nel centenario di “Canne al vento”, di Giovanni Fighera

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 27 /06 /2013 - 23:02 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 18/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (23/6/2013)

La formazione, la consacrazione internazionale, l’oscurità

Scrittrice fecondissima, una delle più prolifiche (trecentocinquanta novelle, trentacinque romanzi oltre che poesie), Grazia Deledda (1871-1936) era convinta che non sarebbe mai riuscita «ad avere il dono della buona lingua», come rivela giovanissima allo scrittore Enrico Costa, a causa dell’influsso troppo forte della cultura e del dialetto sardi. La Deledda si forma con cura sulle grandi opere classiche (Bibbia, poemi omerici), sugli autori della tradizione italiana (da Tasso a Manzoni), sui contemporanei, dai romanzieri francesi (Hugo, Balzac) ai russi (Tolstoj, Dostoevskij) agli italiani (D’Annunzio, Fogazzaro, Verga). Conosce anche la produzione di un’altra grande poetessa italiana, nata l’anno prima (1870), quell’Ada Negri, che sarebbe anche lei sprofondata, dopo la grande fama in vita, in un precoce oblio. «Le sue predilette frequentazioni […] stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario» (Emilio Cecchi). Anche Verga, che è autore di quello che a torto o a ragione è considerato il secondo più grande romanzo dell’Ottocento italiano, quei Malavoglia che ottennero un successo di critica e non di pubblico, senz’altro è un riferimento importante per la scrittrice sarda. In realtà, però, le differenze tra la Deledda e Verga sono notevoli.

Contro le sue previsioni di gioventù, la Deledda ottiene un clamoroso successo, entrando a far parte della teoria dei letterati italiani insigniti del Premio Nobel, che comprende G. Carducci (1906), L. Pirandello (1934), S. Quasimodo (1959), E. Montale (1975), Dario Fo (1997). È l’unica donna italiana presente nel novero. Il fatto colpisce ancor più, perché il Nobel le venne conferito nel 1926 prima che a Pirandello. In dieci anni (tra il 1926 e il 1934) furono insigniti del Nobel due autori italiani, tra l’altro due isolani, una sarda e un siciliano. Queste furono le ragioni dell’importante riconoscimento: «Per la sua ispirazione idealistica, scritta con ispirazione di plastica chiarezza della sua isola nativa con profonda comprensione degli umani problemi». Per questo interrogano sia l’oscurità in cui è caduta in questi decenni sia lo spazio pressoché assente a lei riservato negli studi superiori. Un rapido questionario condotto tra gli studenti ci testimonierebbe che quasi nessuno di loro ha mai sentito parlare della scrittrice sarda. Molte sue opere, poi, sono state anche trasposte a livello cinematografico (tra queste Cenere, L’edera, Canne al vento). Ora se è vero che a ragione Dante scrive che «non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato» (Purgatorio XI), è anche vero che è dovere di ciascuno di noi procrastinare la memoria degli uomini e delle opere meritevoli. Per questo nel dicembre 2012 il Ministero della Pubblica Istruzione si è impegnato ad inserire lo studio dell’opera di Grazia Deledda (1871-1936) nei programmi scolastici, perché la scrittrice sarda «merita di essere un faro della letteratura italiana, per la sua storia, per la sua grandezza storica e culturale, per aver decantato come nessuno il fascino e la profondità della sua terra» (a detta del deputato sardo Mauro Pili).

Le opere

Nella sua produzione «mentre c’è il riferimento preciso ad un ambiente reale e caratteristico, tale ambiente viene anche ad assumere una funzione rappresentativa di valori trascendenti ed eterni» (E. Gioanola). La Sardegna «si allontana in un’atmosfera di mito e leggenda, luogo simbolico dell’eterno dramma del vivere e del morire» (Gioanola). Diventa terra ancestrale, dalle leggi immodificabili.

Molti ricorderanno i protagonisti dei romanzi verghiani, quei «vinti» che sono costretti a soggiacere alla vita e al progresso, sia che cerchino di staccarsi dallo scoglio senza ottenere fortuna (è il caso del giovane ‘Ntoni dei Malavoglia del 1881) sia che riescano, invece, ad ottenere fortuna abbandonando la propria classe sociale, trovando, poi, solo solitudine (come accade a Mastro don Gesualdo). In Verga non pare, però, di avvertire un destino buono e positivo. Quel Padron ‘Ntoni che lavorerà assieme ai nipoti Alessi e Mena per riconquistare la casa del nespolo muore alla fine solo in un ospedale e rappresenta la religione del lavoro e della fatica. Quale sia il fine della sofferenza e della fatica non è dato capire. Chi legge non avverte una positività e una possibilità di riscatto. L’ostrica rimane attaccata allo scoglio perché altrimenti soccombe in mezzo al mare, preda dei pesci. La legge di natura porta alla sopravvivenza finché si è in questo mondo. Del dopo non si parla. Ad una redenzione già nell’al di qua non si fa riferimento.

Così, non è, però, nei romanzi della Deledda. Si prenda in considerazione, ad esempio, il suo romanzo più noto: Canne al vento (1913). Tre sorelle nobili della famiglia Pintor, Esther, Ruth e Noemi, vedono scemare le loro ricchezze. Rimane loro fedele il servo Efix, che nasconde un orribile segreto: ha ucciso anni addietro il padrone di casa, Don Zame, per permettere la fuga a Lia, la più giovane delle figlie del padrone, che lui ama segretamente. Nella fedeltà alla famiglia Pintor il servo sta compiendo un viaggio di espiazione ed «è come un pellegrino con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo». Quando ritorna nella famiglia Pintor don Giacinto, figlio di Lia, che è dedito al gioco d’azzardo, Efix offre la propria fatica e sofferenza anche per lui. Fino alla fine il servo si voterà alla felicità altrui, come quando Noemi si sta per sposare con don Predu e lui, ormai morente, cerca di prolungare la sua vita per non guastare il matrimonio. Allora fa chiamare il prete e si confessa. Racconta il narratore: dopo «non parlò più, non si lamentò più». Efix esclama: «Come sono contento! Adesso posso morire».

Ad Efix è lasciata la confessione su chi sia l’uomo: una canna al vento. «La sorte è il vento. […] Perché questa sorte? Dio solo lo sa. Sia fatta allora la sua volontà». In un mondo in cui ci sono la sofferenza e la fatica come dato ineluttabile l’uomo può accettare la volontà di Dio o rifiutarla. Il grande filosofo Pascal aveva definito l’uomo «canna pensante» (Pensieri), Chretien de Troyes lo aveva descritto come «un peccatore che dipende da Dio» (Perceval). Per piccolo che sia, per peccatore che sia, nonostante il peso del rimorso del passato, l’uomo non è solo e il suo peccato può essere redento.

Anzi proprio il peccato è la scaturigine della dedizione e dell’offerta della vita di Efix. Ad un certo punto «Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera». La vita stessa e il nostro corpo possono divenire offerta e preghiera, come Cristo in croce. Così, anche all’inizio del romanzo, il narratore racconta riferendosi ad Efix: «Aveva lavorato tutto il giorno e adesso, in attesa della notte, mentre per non perder tempo intesseva una stuoia di giunchi, pregava perché Dio rendesse valido il suo lavoro. Che cosa è un piccolo argine se Dio non lo rende, col suo volere, formidabile come una montagna?». Efix ha lavorato al meglio con la consapevolezza che tutto dipende da un Altro, da quel Dio che ha creato tutto.

La realtà stessa sembra rendere gloria a Dio, mentre i personaggi pregano: «A quell’ora, mentre la luna sbocciava come una grande rosa fra i cespugli della collina e le euforbie odoravano lungo il fiume, anche le padrone di Efix pregavano: donna Ester, la più vecchia, benedetta ella sia, si ricordava di certo di lui peccatore: bastava questo perché egli si sentisse contento, compensato delle sue fatiche».

Si avverte la lezione dei grandi romanzieri russi, su tutti Dostoevskij, anche se, come avverte il critico Emilio Cecchi, «le sue [della Deledda] predilette frequentazioni della Bibbia, di Omero, dei romanzieri russi, del Manzoni e del Verga, stanno nella sua esperienza più come un fatto vissuto che come un fatto letterario». Ci insegna la scrittrice che la presenza del peccato come prova nella vita, se guardata e accettata, può esaltare la parte più alta e bella dell’umano. La consapevolezza del male compiuto e di quello di cui siamo capaci diventa la possibilità di comprendere che la necessità di una redenzione e di una salvezza che non possono che provenire da un Altro. La nostra redenzione inizia già in questa vita, come mostra il vecchio servo Efix.

[Brano proposto alla lettura]

Grazia Deledda, Canne al vento, capitolo XIII.

Fuori lo aspettava Zuannantoni. «Vi ho chiamato tre volte: andiamo, c’è nonna che sta male e vuol parlarvi: perché non venite? Non vi si prende il pane dalla bisaccia».

La vecchia stava ancora vestita sul letto, coi polsi nudi, rossicci e ardenti come tizzi accesi, pareva assopita, ma quando Efix si curvò su di lei gli disse con voce afona:
«Lo vedi? Essa è andata al fiume, per lavare, perché lavorare bisogna. E tu avevi detto che la sposava!». «Zia Pottoi! Pazienza bisogna avere. Siamo nati per patire».

La vecchia sollevò il braccio e lo attirò a sé tenacemente. Un odore di putrefazione e di tomba esalava dal lettuccio; ma egli non si scostò sebbene sentisse la collana di zia Pottoi, calda come fosse stata sul fuoco, sfiorargli il viso e l’alito di lei passargli sui capelli come un ragno.

«Ascoltami, Efix, siamo davanti a Dio. Io sto per partire: verrà lui stesso, a prendermi, don Zame, come avevamo convenuto al tempo della nostra fanciullezza. Adesso è tempo d’andarcene assieme. E per la strada gli dirò che non si fermi dov’è caduto, dove tu lo hai ucciso, e che ti perdoni per l’amore che hai portato alle sue figlie. Ti perdonerà, Efix; hai portato il carico abbastanza, ma tu, tu, Efix, a tua volta salva Grixenda mia: essa sta per perdersi; aspetta solo la mia morte per fuggire, e io non posso chiuder gli occhi tranquilla. Tu va’ dal ragazzo, e digli che non la perda, che si ricordi che ha promesso di sposarla. E che la sposi, sì, così anche donna Noemi non penserà più a lui. Va’».

Lo respinse ed egli spalancò gli occhi, ma gli parve di averli bruciati, coperti di cenere, come tornasse dall’inferno. La vecchia non aveva riaperto i suoi: con le mani rigide, le dita dure aperte, muoveva ancora le labbra violette orlate di nero, ma non parlava più. Non parlò più. Dal buco del tetto pioveva come da un imbuto capovolto un raggio dorato che illuminava sul lettuccio il suo corpo nero e le sue collane, lasciando scuro il resto della stanza desolata. Efix guardava come dal fondo di un pozzo quel punto alto lontano; ma d’improvviso gli parve che il raggio deviasse, piovesse su lui, illuminandolo. Tutto era chiaro, così. I suoi occhi oramai distinguevano tutto, gli errori scuri intorno, il centro luminoso, che era il castigo di Dio su lui. E riprese la bisaccia, senza più parlare, e se ne andò.

Passando davanti alla casa di don Predu chiamò Stefana e le disse ch’era costretto a partire per affari suoi e che non sapeva quando sarebbe tornato. «Di’ almeno dove vai.»
«A Nuoro». Per arrivare a Nuoro impiegò due giorni. Andava su, piano piano, a piccole tappe, buttandosi sull’orlo della strada quando era stanco. Chiudeva gli occhi, ma non dormiva: riaprendoli vedeva lo stradone giallognolo perdersi tra il verde e l’azzurro delle lontananze, su verso i monti del Nuorese, giù verso il mare della Baronia, e gli pareva di esser sempre vissuto così, sull’orlo d’una strada metà percorsa, metà da percorrere: laggiù in fondo, aveva lasciato il luogo del suo delitto, lassù, verso i monti, era il luogo della penitenza.

Il tempo era bello; le valli eran già coperte d’erba e le pervinche fiorivano sorridenti come occhi infantili. Reti d’acqua scintillavano tra il verde delle chine, e il fiume mormorava fra gli ontani. Qualche carro passava nello stradone, e ad Efix veniva desiderio di chiedere d’essere portato; ma subito se ne affliggeva. No, doveva camminare per penitenza, arrivare senza aiuto di nessuno. Questo suo primo viaggio aveva però uno scopo; egli quindi si preoccupava ancora delle cose del mondo, e di arrivare presto e di sbrigarsi: dopo, gli pareva, sarebbe stato libero, solo col suo carico da portare con pazienza fino alla morte.

[...]