Quasimodo, o della nostalgia di una compagnia e di una certezza, di Giovanni Fighera
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 12/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (26/6/2013)
La vita
Nativo di Modica nel ragusano, Salvatore Quasimodo (1901-1968) rappresenta un poeta atipico. Se il suo percorso scolastico è di natura tecnica, la sua formazione umanistica da autodidatta sarà tale che il poeta conseguirà una cultura classica di grande respiro e sarà in grado di tradurre i lirici greci con grande perizia e sensibilità linguistica e ancor giovane, nel 1929, entrerà negli ambienti letterari fiorentini. È senz’altro bene ricordare che a questo accesso, forse, non poco gli giova la parentela con Elio Vittorini di cui diventa cognato. La sua traduzione Lirici greci (1940) ottiene, poi, un notevole successo che gli permetterà di essere nominato professore di Letteratura italiana al conservatorio di Milano (1941). Ai primi riconoscimenti segue il conseguimento del premio Nobel nel 1959 che susciterà molto scalpore.
Poco nota è la querelle al riguardo che Ungaretti apre a distanza con Quasimodo definendolo «un pappagallo e un pagliaccio» (così in una lettera all’amico francese Jean Lescure presente nel carteggio pubblicato dall’editore Olschki). Ungaretti mette in dubbio anche i meriti politici e civili di Quasimodo, presentato dalla comunità intellettuale come chiaro letterato antifascista, quando, invece, aveva per tanti anni collaborato a riviste fasciste e aveva addirittura scritto un inno ai martiri fascisti nel 1933 («Coro di morti della rivoluzione»), mentre le sue poesie sulla Resistenza sono state composte finita la guerra, quando era di moda cantare l’antifascismo e la Resistenza. Insomma, Ungaretti mette in dubbio l’onestà della posizione culturale e politica di Quasimodo sottolineando l’opportunismo e addirittura i maneggi con la giuria.
Non ci interessa qui riaprire una polemica sul Premio Nobel per la letteratura o sull’assegnazione tanto contestata a Quasimodo. Giova, però, senz’altro sottolineare come la storia del Nobel per la letteratura sia costellata troppo spesso da assegnazioni avvenute per reali o presunti meriti di impegno civile e politico (Quasimodo fu comunista e si presentò nel Secondo dopoguerra come acceso antifascista) più che per conclamata grandezza artistica. Colpito da un ictus, Quasimodo muore nel 1968.
La poesia
Se la nostra attenzione si concentra ora sulla produzione di Quasimodo, possiamo constatare che essa fu innanzitutto di natura poetica. Nella prima fase le sue poesie possono essere ascritte all’Ermetismo, un movimento letterario (anche se il termine è in parte improprio) che si sviluppa negli anni Trenta a Firenze, ma che influenzerà a lungo la poesia successiva. Una deliberata oscurità, l’uso frequente dell’analogia, un’espressione criptica e non sempre chiara che tradisce un rifiuto e una fuga dalla contingenza storica percepita come negativa (negli anni del regime fascista in Italia) sono i tratti distintivi di una schiera di scrittori che comprende tra gli altri Mario Luzi (1914-2005), Alfonso Gatto (1909-1976), Carlo Bo (1911-2001). Nelle raccolte Acque e terre (1930) o Oboe sommerso (1932) dominano «la rivincita della parola sull’azione, il silenzio e lo spazio bianco che circondano il verso e la sua musica, l’oscuramento dei significati in nome di un linguaggio che diventasse […] l’espressione dell’io» (Gilberto Finzi).
Segue una seconda fase della produzione poetica, più impegnata, legata alle vicende della guerra. In tal senso spicca la raccolta Giorno dopo giorno (1947). Se di fronte alla morte Ungaretti grida il desiderio di vita e di amore (in «Veglia» scrive «versi pieni di amore», perché non è mai stato così «attaccato alla vita»), in «Alle fronde dei salici» rifacendosi al salmo 137 della Bibbia (in cui si descrive la situazione di schiavitù degli Ebrei in terra straniera) Quasimodo decide di non cantare più: «E come potevano noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore,/ fra i morti abbandonati nelle piazze/ sull’erba dura di ghiaccio, al lamento/ d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero/ della madre che andava incontro al figlio/ crocifisso sul palo del telegrafo?/ Alle fronde dei salici, per voto,/ anche le nostre cetre erano appese,/ oscillavano lievi al triste vento».
Le immagini sono forti, plastiche, quasi da film neorealista. Quella madre richiama l’Anna Magnani di «Roma città aperta» (1945). L’agnello e il telegrafo (trasformato in croce) da un lato ci testimoniano una morte innocente come quella di Cristo, dall’altra documentano il male che scaturisce dal cuore dell’uomo, nonostante tutte le conquiste tecnologiche. Sembra mancare la speranza per riprendere a vivere.
Quasimodo scrive in «Milano agosto 1943»: «Invano cerchi tra la polvere,/povera mano, la città è morta./È morta: s’è udito l’ultimo rombo/sul cuore del Naviglio. E l’usignolo/è caduto dall’antenna, alta sul convento,/dove cantava prima del tramonto./Non scavate pozzi nei cortili:/i vivi non hanno più sete./Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:/lasciateli nella terra delle loro case:/la città è morta, è morta». Ritornano la fine del canto (in questo caso dell’usignolo che è stato ucciso) e le immagini dalla forte religiosità (il convento). Ancora una volta sembra essere spento ogni desiderio per i vivi.
Nella raccolta Giorno dopo giorno potente e lucido è il giudizio su una contemporaneità che ha fatto del connubio tra scienza e tecnica l’idolo incontestabile, che ha creduto di poter conservare i valori portati dalla novità del cristianesimo e, nel contempo, eliminare Cristo ed è, così, ritornata all’epoca primitiva, al livello dell’uomo delle caverne, anche se può usufruire di ogni tecnologia. In maniera icastica lo afferma Quasimodo in «Uomo del mio tempo»: «Sei ancora quello della pietra e della fionda,/ uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,/ con le ali maligne, le meridiane di morte,/ - t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,/ alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,/ con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,/ senza amore, senza Cristo».
Qui, i richiami sono ancora, come spesso accade in Quasimodo, all’Antico Testamento, addirittura alla Genesi e all’episodio di Caino ed Abele: «Hai ucciso ancora,/ come sempre, come uccisero i padri, come uccisero/ gli animali che ti videro per la prima volta./ E questo sangue odora come nel giorno/ quando il fratello disse all’altro fratello:/ «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,/ è giunta fino a te, dentro la tua giornata».
In Giorno dopo giorno «l’epica della guerra», come nota Gilberto Finzi, trascina «le forme ermetiche verso la chiarezza del grido, dell’esclamazione e del rifiuto della violenza […] mentre le rovine dell’Italia e dell’Europa ancora fumano».
Nell’ultima raccolta Dare e avere (1966) le atmosfere nordiche e il senso della morte occupano gran parte della versificazione. Non cambia quella convinzione che caratterizzava già la poesia precedente, delineata nell’omonimo componimento che apre la prima raccolta «Ed è subito sera»: «Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera».
Qualcuno, però, c’è che può vivere una giovinezza piena di entusiasmo: «Le monache irlandesi/ non parlano mai di morte, sembrano/ mosse dal vento, non si meravigliano/ di essere giovani e gentili: un voto/ che si libera nelle preghiere aspre» (da «Ho fiori e di notte invito i pioppi»). Si avverte anche qui, nell’ultima raccolta, come altrove, quella nostalgia di una compagnia e di una certezza, che è sottolineata nei versi di Quasimodo dalle frequenti allusioni alla Bibbia e alla Commedia dantesca (soprattutto il Purgatorio).
Curzia Ferrari, l’ultima donna di Quasimodo, intervistata pochi anni fa in occasione della pubblicazione del suo libro «Dio del silenzio, apri la solitudine». La fede tormentata di Salvatore Quasimodo (edizioni Ancora), attesta: «Il suo rapporto con Dio è stato tormentato, ma Quasimodo non è mai stato ateo e durante la guerra matura l’idea del Dio non più generico, ma del Dio sulla croce. Quando passavamo davanti a una chiesa lui voleva entrarci e si faceva il segno della croce, anche se non voleva che lo vedessi. Nelle sue poesie c’è Dio e c’è la croce che lui definisce gentile, termine bellissimo. Dice di se stesso «in povertà di carne come sono eccomi Signore. Polvere di strada che il vento leva appena il suo perdono». Cioè un niente che si china di fronte a Dio. E il Signore è in quasi tutte le sue poesie e gli cammina a fianco. Inoltre quando traduce il vangelo di Giovanni dal greco è per lui un’esperienza straordinaria».
[Brano proposto alla lettura]
«Vento a Tindari» da Acque e terre (1920-1929)
Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima
A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.
Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.
Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.
[...]