Italo Svevo ovvero la coscienza dell’inettitudine, di Giovanni Fighera

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /06 /2013 - 14:01 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 7/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (23/6/2013)

La vita

Il triestino Svevo (1861-1928) non è un letterato di professione, così come molti intellettuali del Novecento, spesso lontani dalla formazione tradizionale umanistica e universitaria e più improntati ad una preparazione tecnica o scientifica. Fortemente condizionato dal suo mestiere, prima di impiegato di banca, poi di direttore di industria (dopo il matrimonio con Livia Veneziani avvenuto nel 1896), Svevo vive in una terra che rappresenta un’eccezionale occasione di cultura, una città mitteleuropea dove può leggere in lingua originale Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Darwin e Einstein, può apprezzare la musica tardo romantica di Brahms e di Mahler. Da autodidatta, si forma sui classici italiani, sulla narrativa francese dell’Ottocento, su Ibsen, Tolstoj e Dostoevskij. Conosce la lingua tedesca meglio dell’italiano (almeno secondo il giudizio del conterraneo U. Saba) e gli verrà talvolta mossa l’accusa di scrivere male.

La figura di Svevo precorre un fenomeno tipico dell’epoca contemporanea in campo editoriale, ovvero la ricerca di successi clamorosi, perché lui stesso rappresenta un «caso letterario», che ottiene la gloria tardivamente, solo pochi anni prima di morire, grazie all’amicizia dello scrittore James Joyce, che apprezzò la novità della sua produzione e la promosse in campo europeo. Siamo nel 1923, quando viene pubblicata La coscienza di Zeno. Allora verranno nuovamente pubblicati anche i primi romanzi, Una vita (edito per la prima volta nel 1892) e Senilità (prima edizione 1898). Nel 1928 Svevo morirà in un incidente automobilistico.

I romanzi

Nelle sue opere compaiono alcune profezie sulla modernità. Basti pensare all’ultima pagina de La coscienza di Zeno (1923) nella quale Svevo scrive che l’umanità rischia l’autodistruzione: «Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile […]. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto dove il suo effetto potrà essere il massimo». Oppure si ricordi la pièce teatrale La rigenerazione nella quale il protagonista, ultrasettantenne, vorrebbe ringiovanire sottoponendosi ad un’operazione.

Ma ancor più, Svevo è soprattutto un testimone del senso di inettitudine tipico dell’uomo contemporaneo. Una rapida incursione nel territorio della letteratura di quei decenni che sono stati definiti decadenti ci permetterebbe di sorprendere subito una caratteristica dei personaggi che popolano romanzi e versi scritti in questi anni. Già i titoli delle opere sottolineano la coscienza della crisi e la poca considerazione di sé proprie dell’uomo: Sogno di un uomo ridicolo (Dostoevskij), Il poeta come saltimbanco (Aldo Palazzeschi), Il fanciullino (Giovanni Pascoli).

Lungi dalla pretesa graniticità dell’eroe antico, l’uomo del Decadentismo mostra fino quasi all’ostentazione la propria pochezza e fragilità e non si illude più di poter fare a meno di Dio, non si propone più nel suo sforzo prometeico e titanico di accedere all’Olimpo o di carpire i segreti della conoscenza. Con disincantata ironia, anzi, toglie le maschere e le superbe vesti e palesa a tutti che, crollati i grandi progetti, i suoi discorsi non possono essere presi troppo sul serio, perché è un clown, un uomo ridicolo, un saltimbanco che ama giocare e scherzare, un bambino.

La produzione di Svevo comprende anche opere teatrali e novelle, anche se noi ci soffermeremo soltanto sui romanzi. Inettitudine è parola d’ordine di tutti i protagonisti dei romanzi di Svevo. In Una vita Alfonso Nitti metterà in atto il proposito del suicidio. In maniera significativa il primo titolo del romanzo, Un inetto, che venne rifiutato dalla casa editrice, esprime, però, perfettamente l’inadeguatezza del personaggio alla vita. Baciato dalla sorte, fidanzatosi quasi senza volerlo ad Annetta, affascinante e benestante ragazza dalle velleità intellettuali, Alfonso percepirà nel tempo di non essere all’altezza della situazione e, preso dalla paura di vivere, con la scusa della malattia della mamma ritornerà al suo paesino, ove troverà realmente la madre in gravi condizioni. La morte di lei porterà Alfonso di nuovo a Trieste ove cercherà di rivedere Annetta. Sarà, però, troppo tardi. La ragazza si è fidanzata con Macario, un partito migliore. Sfidato a duello dal nuovo fidanzato, Alfonso fugge dalla vita e si suicida con il gas dell’automobile.

Parodia dell’Andrea Sperelli dannunziano, Emilio Brentani si illude in Senilità di poter corteggiare la bella Angiolina, senza legarsi sentimentalmente e affettivamente a lei. Così, l’autore inizia il romanzo: «Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: -T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti-. La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui e un po’ franca avrebbe dovuto suonare così:- Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo-».

Brentani si inganna, non può instaurare una relazione senza creare un legame e alla fine ritornerà solo, lascerà Angiolina, dopo aver perso la sorella Amalia, che rappresenta ancor di più l’esasperazione dell’incapacità a vivere. La senilità, cioè una vecchiaia precoce, propria di chi pensa di saper già tutto della vita e dell’amore e che perciò la realtà non abbia più niente da insegnare, si impadronisce di Brentani, che, dopo la vicenda amorosa con Angiolina, ritorna all’occhio lucido, intellettuale, cinico e triste che aveva prima.

Così nell’ultima pagina Svevo scrive: «Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore […]. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio».

Tra gli inetti del mondo letterario di Svevo non si può, poi, trascurare quel Zeno Cosini, protagonista de La coscienza, che sembra non scegliere mai nella vita. Non sa scegliere l’università, non riesce a smettere di fumare, si sposa proprio con quella figlia del Malfenti che mai avrebbe voluto sposare perché brutta. Certo, nel corso delle sue memorie la sorte inizierà a cambiare, i suoi affari prenderanno a girare favorevolmente. Rimane, però, il fatto che sembrano sempre dominare una poca consapevolezza di sé e la scarsa libertà di azione, per cui anche il cambiamento nel protagonista non avviene per incontri o fatti accaduti di cui lui ha preso coscienza. Senza questa consapevolezza rimane il sospetto che il personaggio non sia davvero cambiato.

L’unica coscienza che sembra aver acquisito Zeno è che la malattia, più che carattere suo specifico, è attributo inscindibile della vita dell’uomo ed è sempre, per tutti una malattia mortale, da cui non si può guarire. La malattia è, quindi, prerogativa stessa della vita, condizione inalienabile dell’uomo, che solo una catastrofe inaudita potrebbe eliminare, estinguendo, però, al contempo il genere umano. Rispetto agli altri inetti sveviani, Zeno, pur non raggiungendo il suo obiettivo, ne ottiene altri.

Non si può dire, certo, che la sorte gli sia avversa, ma non si può neppure considerare un personaggio felice. Con toni di ironia e di pacata amarezza Svevo rappresenta una condizione umana di inettitudine, non più tragica. Se non c’è tragedia, non è certo perché siano individuate risposte al problema, bensì perché il senso di leggerezza dell’essere ha iniziato ad investire l’uomo, che inizia ad accontentarsi dei propri successi materiali ed evade totalmente la domanda sul destino.

[Brano proposto alla lettura]

Italo Svevo, Senilità (dal capitolo I)

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: – T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti. – La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così: – Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia.

La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l’egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.

La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, – soddisfazione di vanità più che d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta.

Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un’aspettativa non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte, di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata.

Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva. Quando credette di aver compreso disse: – Strano – timidamente guardandolo sottecchi. – Nessuno mi ha mai parlato così. – Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L’affetto ch’egli le offriva ne ebbe l’aspetto di fraternamente dolce.

Fatte quelle premesse, l’altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo, non avrebbe compromesso.

[...]