Carità intellettuale. Un'espressione di probabile ascendenza agostiniana che ricorre negli scritti di Giovanni Battista Montini, di Giovanni Maria Vian
Riprendiamo da L’Osservatore Romano dell’1/3/2013 un testo del suo direttore con la breve introduzione che lo accompagnava. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/3/2013)
Pubblichiamo il testo scritto del direttore del nostro giornale [Giovanni Maria Vian] per il libro Praedica verbum (Milano, Ambrosianeum, 2013, pagine IX + 254), raccolta di scritti – fra i quali anche un contributo del presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano – realizzata come omaggio per il settantesimo compleanno del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
La nomina pontificia, nel 2007, di Gianfranco Ravasi, prefetto per quasi un ventennio della Biblioteca Ambrosiana, alla guida dell'organismo preposto dalla Santa Sede alla cultura e, negli anni seguenti, l'impulso che come presidente ha impresso alla presenza della Chiesa di Roma nell'ambito culturale richiamano la dimensione della "carità intellettuale". L'espressione è di probabile ascendenza agostiniana e si ritrova in Rosmini e Fogazzaro, ma su di essa soprattutto riflette Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, Papa che per più di un aspetto può essere accostato a uno degli ultimi quattro cardinali da lui creati nel 1977, il teologo Joseph Ratzinger, dal 2005 suo successore con il nome di Benedetto XVI.
Nel 1930 "carità intellettuale" viene scelta da Montini - in quel momento funzionario della Segreteria di Stato e nello stesso tempo assistente ecclesiastico nazionale della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana - come titolo di un breve articolo scritto per la rivista studentesca "Azione fucina".
Prendendo spunto da un testo di Pierre de Nolhac, lo studioso che aveva scoperto in Biblioteca Vaticana l'autografo del Canzoniere di Petrarca, Montini riflette su "una delle documentazioni più commoventi che ci riconciliano con il mondo moderno", e cioè due testi di Erasmo e di Pascal.
"Anche la scienza può essere carità" scrive il giovane prelato bresciano, affermando subito dopo che "chiunque con l'attività del pensiero e della penna cerca diffondere la verità rende servizio alla carità". "L'attività intellettuale - continua Montini - che non accetta i limiti, i comandi, le applicazioni, i temperamenti, l'ardore, tutti elementi esteriori che non pregiudicano la onestà del suo operare, della vita vissuta, della sperimentale realtà umana, dove dolore, sentimento, moralità e bisogni sociali s'incontrano continuamente, rimane sterile".
E specifica, citando nel latino della Vulgata l'inizio dell'ottavo capitolo della prima lettera di san Paolo ai Corinzi, scientia inflat, dimostrandosi «avaramente soggettivista quando non sia socialmente distruttrice». Invece l'attività intellettuale «che si profonde nell'intenzione benefica per gli altri, oltre che arricchirsi di nuove esperienze, della più utile esperienza umana», si trasforma in carità, carità che dunque si può definire intellettuale nel senso più alto e profondo.
Cifra dell'intera vita di Montini, questa carità va intesa come testimonianza e annuncio della verità attraverso un'attività intellettuale posta al servizio della carità. A confermarlo è un testo del 1931, intitolato da un'espressione del vangelo di Giovanni, Spiritus veritatis: «Quando poi verrà lo spirito di verità v'insegnerà tutta la verità» (16,13). Destinate a pochissimi amici della Fuci e rimaste quasi sconosciute sin dopo la morte del papa, le note montiniane sono articolate in quattro direttive - morale, intellettuale, spirituale, sociale - e hanno un incipit solenne: «Voglio che la mia vita sia una testimonianza alla verità per imitare così Gesù Cristo, come a me si conviene. (Giovanni 18,37). Intendo per testimonianza la custodia, la ricerca, la professione della verità. Intendo per verità l'adesione ad ogni intelligibile realtà: Dio quindi somma e prima Verità».
Con l'intenzione «di contribuire all'incremento della vera e buona cultura - continua il testo montiniano nella parte dedicata alla direttiva intellettuale - mi farò precetto di conoscere con sufficiente esattezza ed ampiezza la dottrina cristiana. Ma tutto ciò per illuminare e sorreggere, non per sostituire o inceppare lo studio che mi sono scelto come ramo della mia competenza; perché devo dare alla mia preparazione professionale le migliori fatiche intellettuali, vincendo l'indolenza dilettantista per precisare un campo di studio e di lavoro. Questo proposito di serietà deve tradursi anche in una sincera probità scientifica ed in una misurata critica dell'opera mia, così che né fretta, né vanità mi tentino ad immature affermazioni e pubblicazioni; ma nello stesso tempo deve ancheinfondermi il coraggio e l'umiltà per tendere a qualche conclusivo risultato di mia ed altrui utilità e per far fruttare quanto meglio possibile i talenti intellettuali che Dio mi ha dato».
Si tratta di un programma di vita - scrive ancora l'assistente degli universitari cattolici - che «esige ch'io abbia intensità ed unità spirituali intimamente cristiane, superiori alla comune maniera di chi semplicemente si dice credente e praticante. Eppure nessuna regola, nessuna aggiunta straordinaria distingua la mia vita cristiana dalla sua forma normale ed essenziale. Anzi una sola nota mi sia straordinaria, e cioè un particolare amore a ciò che è essenziale e comune nella vita spirituale cattolica» si premura di aggiungere.
Montini torna poi sulla «verità confidatami da Dio, chiedendo a Lui la grazia di difenderla, senza esitazioni, restrizioni, compromessi, e di professarla, scevra da esibizioni, con pura libertà e cordiale fortezza di spirito, e di mostrarmi sempre coerente, nel pensiero, nella parola, nell'azione. Ma gli altri non si accorgano facilmente di questa interiore offerta alla verità, e solo s'avvedano che i miei rapporti con essi sono sempre improntati ad una grande umiltà, ad una grande bontà. Ed anche: ad una grande sincerità. Una primitiva sincerità di linguaggio e di modi deve essere riflesso esteriore dell'energia con cui voglio interiormente servire il vero». L'ultima parte dello scritto montiniano - quasi una regola monastica per il tempo della secolarizzazione - sottolinea la necessità di «favorire la diffusione della verità negli altri», accennando ai tramiti possibili: «La cattedra, la stampa, l'opera d'arte, la conferenza, la corrispondenza, il consiglio e sempre l'amicizia, e poi ogni altra forma di comunicazione con gli altri».
Proprio la necessità di comunicare la verità appare preoccupazione principale di Montini: "Bisogna sapere essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?" confida nel 1950, da oltre tredici anni ai vertici della Segreteria di Stato di Pio XII, durante il primo incontro con Jean Guitton.
E il vero – anzi, il «santo vero» cantato da Manzoni In morte di Carlo Imbonati – tornerà nel bilancio del pontificato, quasi le parole estreme pronunciate nel 1978 da Paolo VI durante la festa dei santi Pietro e Paolo, quando ricorre il quindicesimo anniversario dell’incoronazione e «il corso naturale della nostra vita volge al tramonto» sottolinea il papa, che morirà quasi improvvisamente cinque settimane più tardi.
Il rapporto con la verità segna Montini e la sua attività intellettuale, mai esercitata professionalmente ma che sempre gli fu propria come riflessione inesausta su Cristo e sulla necessità della sua presenza nel mondo contemporaneo. A indicarlo con chiarezza è un appunto posteriore al 1964 dove definisce la propria vita come «amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo: ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero». Ed è questa stessa linea che Paolo VI sostiene durante i dibattiti del concilio Vaticano II e poi segue nella sua applicazione.
In coerenza con questo indirizzo nel 1965 papa Montini istituisce un Segretariato per i non credenti. Il suo successore Giovanni Paolo II nel 1982 gli affianca un Pontificio Consiglio della Cultura e a questo nel 1993 unisce l'organismo voluto da Paolo VI. Proprio questa struttura assume una delle iniziative più suggestive di Benedetto XVI, che la propone nel 2009 ispirandosi alla visione universalista e al proselitismo dell’antico ebraismo: «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorta di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa». Il tentativo è insomma quello di lasciare aperto un rapporto con l’epoca contemporanea e con le sue culture, segnate dalla difficoltà – se non addirittura dalla dolorosa coscienza dell’impossibilità – di credere o, maggiormente, da una desolante indifferenza, spesso mescolata all’ignoranza che deriva dalla scristianizzazione o dal mancato annuncio del vangelo.
La coscienza di questa drammatica situazione viene avvertita già nel 1943 da Henri Godin e Yvan Daniel, cappellani della Jeunesse ouvrière catholique e autori di La France, pays de mission?, piccolo libro frutto di un rapporto commissionato dall’arcivescovo di Parigi, il cardinale Emmanuel Suhard. Ed è il 1957 quando nella diocesi più grande del mondo viene indetta la “missione di Milano”, che Montini, arcivescovo della metropoli lombarda da tre anni, presenta ai «lontani» con parole di inusuale e franca autocritica:
"Quando si avvicina un lontano, non si può non sentire un certo rimorso. Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato abbastanza amato. Non è stato abbastanza curato, istruito, introdotto nella gioia della fede. Perché ha giudicato la fede dalle nostre persone, che la predicano e la rappresentano; e dai nostri difetti ha imparato forse ad aver a noia, a disprezzare, a odiare la religione. Perché ha ascoltato più rimproveri, che ammonimenti ed inviti. Perché ha intravisto, forse, qualche interesse inferiore nel nostro ministero, e ne ha patito scandalo".
E la conseguenza per Montini è tanto chiara quando esigente: «I lontani spesso sono gente male impressionata di noi, ministri della religione; e ripudiano la religione, perché la religione coincide per essi con la nostra persona. Sono spesso più esigenti, che cattivi. Talora il loro anticlericalismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite. Ebbene, se così è, fratelli lontani, perdonateci. Se non vi abbiamo compreso, se vi abbiamo troppo facilmente respinti, se non ci siamo curati di voi, se non siamo stati bravi maestri di spirito e medici delle anime, se non siamo stati capaci di parlarvi di Dio come si doveva, se vi abbiamo trattato con l’ironia, con il dileggio, con la polemica, oggi vi chiediamo perdono. Ma ascoltateci». Una richiesta di perdono e di ascolto che significa volontà di onestà e di amicizia. Sotto il segno di una carità intellettuale che vuole servire solo la verità.
(©L'Osservatore Romano 1° marzo 2013)