L’omelia e l’Angelus di Paolo VI per la prima messa in italiano, 7 marzo 1965
Riprendiamo sul nostro sito l'omelia tenuta da Paolo VI nella I domenica di Quaresima 1965 nella parrocchia di Ognissanti in Roma, la prima messa in italiano, e l’Angelus della stessa domenica. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/11/2012)
1/ Santa Messa nella chiesa di Ognissanti. Omelia di Paolo VI. I Domenica di Quaresima, 7 marzo 1965
Che cosa stiamo facendo? Questo è il momento delle riflessioni, e si inserisce nel sacro Rito per suscitare i pensieri che lo devono accompagnare. Noi stiamo attuando una realtà, la quale, già di per sé, si presenta solenne ed ha due aspetti: l’uno straordinario; l’altro consueto e ordinario.
Straordinaria è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare la Santa Messa. Si inaugura, oggi, la nuova forma della Liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo. È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo.
«IL SIGNORE SIA CON VOI!»
Norma fondamentale è, d’ora in avanti, quella di pregare comprendendo le singole frasi e parole, di completarle con i nostri sentimenti personali, e di uniformare questi all’anima della comunità, che fa coro con noi.
V’è, poi, un’altra circostanza che rende singolare l’odierna solennità: la presenza del Papa, che, di per sé, autorizza a porre in risalto tutto quanto può divenire utile alla nostra vita cristiana.
Del resto, anche a voler considerare il secondo aspetto, cioè quello che è consueto in queste adunanze, tutto - lo sappiamo - presenta un carattere prezioso e degno della nostra riflessione.
E dapprima: che cosa è il Rito che stiamo celebrando? È un incontro di chi offre il Divin Sacrificio con il popolo che vi assiste. Tale incontro deve essere, perciò, pieno e cordiale. Non è pertanto fuori luogo che il celebrante - in questo caso il Papa - rivolga .molte volte agli astanti il saluto caratteristico: Il Signore sia con voi! Ecco: il Papa ripete il grande augurio non solo rivolgendosi con affettuoso gesto ai presenti, ma esprimendo il proposito di raggiungere l’intera popolazione cristiana di questa Città, della santa Diocesi di Pietro e Paolo, la Diocesi di Roma. Perciò, con tutto il cuore, con tutta la forza che Iddio pone nella sua voce, nel suo ministero, il Santo Padre esclama verso il popolo romano: Che Dio sia con te! Nel contempo Egli spera che ognuno risponda di buon grado: E con lo spirito tuo! In tal modo si inizia questo stupendo e fervido dialogo tra chi ha responsabilità di ufficio quale Ministro di Dio e il popolo cristiano; tra il Sacerdote e il singolo fedele, che riceve queste grazie; le commenta, se ne arricchisce e le porge, a sua volta, a tutta la comunità.
TUTTI CHIAMATI ALLA REDENZIONE E ALLA SALVEZZA
Come è ovvio, però, i diretti partecipanti all’Azione Liturgica ricevono il saluto in maniera speciale. Sia dunque il Signore - spiega il Santo Padre - con la diletta comunità di sacerdoti, chierici, studenti, che abitano nell’attigua casa di Don Orione; con il Parroco che ha la responsabilità pastorale di questa parte del gregge diocesano; con tutti i fedeli affidati alle sue sollecitudini. Sia il Signore con le comunità religiose poco prima salutate; con i carissimi infermi i quali, per indovinato pensiero, sono al primo posto nella adunanza e tanto impetrano mercé le loro preghiere e sofferenze offerte a vantaggio di tutti gli altri; con i fanciulli del piccolo clero, che adornano l’altare e rappresentano tutti i loro coetanei, speranze della famiglia, della Chiesa e della società; sia con le varie Associazioni, maschili e femminili di Azione Cattolica e di carattere religioso; e giunga infine l’augurio benedicente in ogni casa, apportandovi la grazia e la pace del Signore!
Né l’auspicio si limita alle persone: esso si estende pure alle attività temporali: allo studio, al lavoro, alla fatica, alle professioni, affinché anche l’insieme della vita materiale, il procurarsi il pane quotidiano, ricevano un saldo elemento di pace, d’armonia, di prosperità.
E quelli lontani? C’è qualcuno - chiede con paterna preoccupazione il Santo Padre - che manca qui all’appello? Ebbene - Egli soggiunge - io avrei il diritto di chiamare uno ad uno i cristiani di questa parrocchia, e di chiedere loro se sono fedeli. Dovrei ricordare, a ciascuno di essi, il carattere che portano impresso nella loro anima per conoscere, amare e servire Cristo. E se qualcuno fosse o dimentico o inerte, accolga oggi da me l’invito più cordiale e paterno: Tu che non comprendi le cose della Chiesa, tu che non sai più pregare, che ti credi lontano, che ti consideri forse escluso dalla grande Famiglia e guardato male, sappi invece che la Chiesa ti cerca, ti chiama, ti sollecita, ti aspetta. Perché? Ma perché anche in te splende il diritto dei figli di Dio; hai quindi il dovere di rispondere al grande appello della tua salvezza. Tutti infatti abbiamo per vocazione suprema la sorte di condividere la grande storia della nostra Redenzione.
CRISTO PRESENTE NELLA PREGHIERA E CON LA PAROLA
Secondo pensiero. Oltre che per l’incontro, pur così indicativo e promettente, noi siamo qui per celebrare il grande Rito sacrificale, eucaristico: la Santa Messa; il che vuol dire la presenza di Cristo in mezzo a noi. Ora il Papa, prima ancora di accennare a questa presenza sacramentale e reale, desidera riproporre ai diletti ascoltatori un’altra grande verità. Per il semplice fatto che noi ci troviamo insieme, congregati nel nome di Cristo, uniti per pensare a Lui e pregarlo, noi già possediamo la sua presenza. Gesù medesimo l’ha assicurato: tutte le volte che sia pure due o tre individui converranno nel mio nome - ecco il mistero della presenza mistica di Cristo - Io sarò in mezzo a loro. Noi quindi possiamo renderci conto di questa aleggiante e misteriosa presenza di Gesù tra noi, oggi, appunto concentrandoci su tale realtà, e proprio perché il suo Nome ci raccoglie, a 1965 anni dalla sua nascita; perché in Lui crediamo; e tra poco celebreremo i suoi Misteri sacramentali.
Cristo è qui: la parrocchia attua la sua presenza in mezzo ai fedeli, e in tal modo lo stesso popolo cristiano diventa, si può dire, sacramento, segno sacro, cioè, della presenza del Signore. E non è tutto. Stiamo godendo di un’altra presenza del Signore: la sua parola; il suo Vangelo. C’è una coincidenza tra la vita di Gesù e la sua parola, poiché Egli è il Verbo, è la Parola. Quando noi ripetiamo le sue parole, rendiamo, in certo qual modo, Gesù presente con noi. Fra un maestro e ciò che insegna esiste una certa distanza; tra Gesù e la sua parola v’è coincidenza. Mentre noi vogliamo che il Signore sia con noi, la sua parola già ce lo porta. In. tal modo - pur esso misterioso, ma quasi più vicino alla nostra capacità di apprendere - questa sua presenza vive nelle nostre anime, la sua voce echeggia nei nostri cuori, il suo pensiero si fa nostro, il suo insegnamento circola nel nostro essere. Riassumendo: noi entriamo in comunione con Cristo se ascoltiamo bene la parola di Dio.
Ci troviamo, così, ben preparati al grande e misterioso Rito della Cena sacrificale: la Santa Messa. Si è soliti, a questo punto, commentare la parola del Signore. È evidente che desideriamo acquisirla, introdurla dalle orecchie al cuore, ascoltarla interiormente, fissarla in noi, farne come una provvista di energie per l’intelletto e il cuore, osservarla sempre nella pratica, viverla. Se, in questo momento, il Papa chiedesse ai fanciulli del piccolo clero che cosa hanno poco fa ascoltato nella lettura del Santo Vangelo, essi subito risponderebbero: abbiamo udito il racconto della tentazione di Gesù. La risposta è precisa.
IL DUELLO FRA IL BENE E IL MALE
Si tratta di una pagina grande, arcana, del Vangelo. Dopo trent’anni di vita nascosta ed operosa in Nazaret, Gesù si accinge ad iniziare la sua predicazione; ma prima si reca nel sud della Giudea, al Giordano, ove vuol ricevere il Battesimo di penitenza dal Precursore, Giovanni Battista. Poi sale sui monti circostanti che costituiscono un paesaggio privo di vegetazione, orrido, senza vita (il Santo Padre lo ha a lungo considerato durante il viaggio in Palestina) e, in una solitudine non certo riposante, bensì di pauroso silenzio, Gesù digiuna per quaranta giorni e quaranta notti.
Ed ecco apparire un personaggio spirituale, ma tremendo e cattivo: è il demonio; ed osa tentare il Salvatore. Non staremo a soffermarci sulle singole tre proposte fatte dal maligno; basterà por mente al semplice quadro che ci raffigura l’urto tra lo spirito del male e il Figlio di Dio fatto Uomo. Il Vangelo ci presenta appunto questo dramma, questo duello tra Gesù e Satana. Gesù è tentato. Anche Egli, cioè, vuoi conoscere il combattimento tra l’anima che intende restare fedele a Dio e l’invasore che la raggira per distoglierla e indurla al male. Qui va ricordato che quanto si riferisce a Gesù tocca pure noi. La vita di Gesù si configura alla nostra: quello che avviene a Lui si riflette in noi.
È stato tentato Gesù? Tanto più possiamo e dobbiamo esserlo noi. Appare logica, anzi, la domanda, giacché noi viviamo in un mondo tutto insidiato e turbato da questa inimicizia nascosta di coloro che San Paolo chiama «rectores tenebrarum harum». Siamo come circondati da qualche cosa di funesto, cattivo, perverso, che eccita le nostre passioni, approfitta delle nostre debolezze, si insinua nelle nostre abitudini, viene dietro ai nostri passi e ci suggerisce il male. La tentazione è, dunque, l’incontro fra la buona coscienza e l’attrattiva del male; e nella forma più insidiosa di tutte. Il male infatti non ci si presenta col suo reale volto che è nemico, orribile e spaventoso. Accade proprio il contrario. La tentazione è la simulazione del bene; è l’inganno per cui il male assume la maschera del bene; è la confusione tra il bene e il male. Questo equivoco, che può essere continuamente davanti a noi, tende a farci ritenere il bene là dove, al contrario, è il male.
MANCHEVOLEZZE RINUNCE EGOISMI DELL'UOMO MODERNO
E qui entriamo non più nella scena evangelica, ma nella nostra vita ed esperienza, nel mondo in cui ci troviamo. È di tutti i momenti ed ore; è di ogni specie questa confusione. È propria, si direbbe, dell’uomo moderno, il quale ha perduto il giusto criterio del bene e del male. Ha perduto il senso del peccato, come spiegano i maestri di vita spirituale.
L’uomo moderno si adatta ad ogni cosa; è capace di farsi l’avvocato delle cose cattive pur di sostenere la libertà del proprio piacimento, e che tutto può e deve manifestarsi, senza alcuna preclusione nei confronti del male; una libertà indiscriminata per ciò che è illecito. Si finisce così per autorizzare tutte le espressioni della vita inferiore; l’istinto prende il sopravvento sulla ragione, l’interesse sul dovere, il vantaggio personale sul benessere comune. L’egoismo diviene perciò sovrano nella vita dell’individuo e di quella sociale. Perché? Perché si è dimenticato, e non si ha più il senso di distinguere: questo è bene, questo è male. Non si conosce più la norma assoluta per tale distinzione, vale a dire la legge di Dio. Chi non tiene più conto della legge del Signore, dei suoi Comandamenti e Precetti e non li sente più riflessi nella propria coscienza, vive in una grande confusione e diventa nemico di se stesso. È innegabile, infatti, che tanti e tanti malanni nostri sono procurati dalle nostre stesse mani, dalla sciocca cattiveria, ostinata nel ricercare non ciò che giova, ma quel ch’è nocivo alla esistenza.
Bisogna dunque rinnovare, rinvigorire la nostra capacità di giudicare, di discernere il bene dal male. In conseguenza, allorché il male - tutto quanto, cioè, è proibito, è contrario alla legge di Dio, al buon costume e al giudizio sano della ragione - si presenta attraente, lusinghiero, seducente, utile, facile, piacevole, noi dobbiamo dimostrare energia e sapienza, sì da dire recisamente e con risolutezza: no. Questo il modo per respingere e superare la tentazione. Del resto, il finale del tratto di Vangelo di questa prima Domenica di Quaresima dà alla vita cristiana proprio un concetto militante. Può un cristiano vero essere debole, pauroso, vile, traditore del proprio nome, della propria coscienza, del proprio dovere? No, affatto. L’autentico cristiano è forte, coraggioso, leale, coerente, eroico, se occorre: il cristiano - lo sappiamo dalla nostra Cresima - è militante, miles Christi: soldato di Cristo.
La vita cristiana è combattimento: noi dobbiamo stare all’erta di continuo; dobbiamo essere sempre in grado di sceverare, distinguere il bene dal male, e decidere: io sto per il bene; per la virtù; per il mio dovere; per le promesse fatte. Cercherò, pertanto, di essere veramente pronto a superare ogni attrattiva che potrebbe ridurmi debole e vile davanti alla presentazione del male camuffato da bene.
È chiaro, allora, che la grande lezione di vita cristiana con cui si inizia la Quaresima esige da noi due espliciti e grandi ricordi. Dobbiamo essere anzitutto saggi, disposti al buon giudizio, alacri, cioè, nel riflettere e nel tenere la lampada della nostra coscienza e del nostro pensiero sempre accesa dinanzi a noi. Non dobbiamo camminare all’oscuro, bensì portando alto questo splendore che Iddio ha deposto nelle nostre anime e che si chiama la nostra coscienza. Non inganniamo noi stessi, non spegniamo la voce della coscienza, non cerchiamo mai di deformare la sua rettitudine di giudizio. Siamo semplici e lineari: «Est, est; non, non». Sì, sì; no, no. Bisogna essere davvero consapevoli di questa necessaria limpidezza di giudizio e di condotta.
SEMPRE NELLA LUCE E SULLA DIFESA IL «MILES CHRISTI»
Il secondo insegnamento è quello di essere forti. E come piace - spiega il Santo Padre -, e quanto è consolante, figliuoli miei, che il santo ministero mi autorizzi, anzi mi comandi di dire a quelli che considero figli e fratelli: dobbiamo essere forti! Se la mia predicazione dovesse dire: è preferibile essere furbi, deboli, possibilisti, accomodanti, inclini al compromesso; e mascherare la nostra viltà con dei complimenti, con delle ipocrisie, come sarebbe brutta la mia parola rivolta a voi, come tradirebbe la vostra dignità umana, cercando di sminuire la bellezza della vostra statura cristiana!
Ma, al contrario, la mia voce - anche se la debolezza non conforta, quanto dovrebbe, questa testimonianza al Vangelo del Signore - vi dice: figli miei, se vogliamo essere cristiani, oggi specialmente, dobbiamo essere forti. Giovani che mi ascoltate, voi in modo particolare dovete raccogliere questa chiara voce, questo messaggio del Vangelo: bisogna vivere il Cristianesimo con fortezza, con coscienza militante; è necessario sostenere anche qualche sacrificio, per custodire intatta la propria fede e per mantenere l’impegno assunto con Cristo, con la comunità cristiana, con la Chiesa.
E il Signore, mercé l’insegnamento di questo dramma delle sue tentazioni, indica un luminoso epilogo: la tentazione, la malvagità permanente che insidia i nostri passi e la nostra incolumità, si può si può vincere. Con che cosa? Sempre con la parola di Dio, con la sua grazia, la quale non manca mai a chi la desidera e la cerca.
Figliuoli, non abbiate timore ad essere forti. Avrete Cristo con voi; e avrete il senso della dignità della vita cristiana; avrete esatta la percezione dei suoi destini, che sono ottimi in questo mondo; felici ed eterni nella vita del Cielo.
2/ Paolo VI. Angelus. I Domenica di Quaresima, 7 marzo 1965
Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico, come avete già visto questa mattina.
La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento - il Concilio lo ha suggerito e deliberato - e questo per rendere intelligibile e far capire la sua preghiera. Il bene del popolo esige questa premura, sì da rendere possibile la partecipazione attiva dei fedeli al culto pubblico della Chiesa.
È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante. Ha sacrificato tradizioni di secoli e soprattutto sacrifica l'unità di linguaggio nei vari popoli, in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti.
E questo per voi, fedeli, perché sappiate meglio unirvi alla preghiera della Chiesa, perché sappiate passare da uno stato di semplici spettatori a quello di fedeli partecipanti ed attivi e se saprete davvero corrispondere a questa premura della Chiesa, avrete la grande gioia, il merito e la fortuna di un vero rinnovamento spirituale.
E noi pregheremo ancora la Madonna, la pregheremo ancora in latino per ora, perché ci dia questo desiderio della vita spirituale attiva e autentica e ci dia questo risvegliato senso della comunità, della fraternità, della collettività che prega insieme, del popolo di Dio, perché allora avremo certamente assicurati a noi i vantaggi di questa grande riforma liturgica.