L'adulto oggi dinanzi alla fede. Appunti da due relazioni di Alessandro Castegnaro e Marco Cangiotti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /08 /2011 - 20:06 pm | Permalink | Homepage
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Ripresentiamo sul nostro sito alcuni appunti presi ascoltando le relazioni di Alessandro Castegnaro e Marco Cangiotti nel corso della tavola rotonda che si è tenuta il 21/6/2011 all'interno del Convegno nazionale dei direttori degli Uffici catechistici tenutosi a Pesaro sul tema Essere credenti adulti in Italia oggi. Ovviamente i due relatori non hanno rivisto questi appunti ed essi debbono pertanto essere considerati parziali. Li presentiamo lo stesso perché possono essere motivo di interesse per chi non ha potuto ascoltare direttamente le due relazioni. Alle due relazioni qui sintetizzate sono seguiti due ulteriori interventi di Pio Zuppa e di Paola Dal Toso ed un successivo dibattito, sui quali non è stato possibile reperire appunti fedeli.
Sullo stesso convegno vedi su questo sito anche la relazione
  Il cantiere dell’educazione cristiana”: annuncio – celebrazione – testimonianza e ambiti della vita quotidiana, di Andrea Lonardo e gli appunti della relazione La celebrazione domenicale, luogo educativo e rivelativo: vera catechesi in atto. Appunti da una relazione di Luigi Girardi.

Il Centro culturale Gli scritti (19/8/2011)

1/ Appunti dalla relazione del prof. Alessandro Castegnaro

Non è facile dire oggi chi sia l'adulto credente, dal punto di vita della sociologia. Apparentemente siamo alla ricerca di uno “zoccolo duro”. Ma – dobbiamo dire subito – che non è facile trovarlo a differenza di quanto sembrerebbe a prima vista.

La pratica religiosa (cioè la frequenza a messa), infatti, non sembra più essere un indicatore univoco. Si pensi ad un'indagine che abbiamo fatto su 200.000 pellegrini giunti a Padova per venerare le reliquie di S. Antonio: il 50% di loro non va abitualmente a messa, secondo le nostre interviste!

Siamo troppo abituati ad utilizzare uno schema che è ormai superato. Questo schema ormai datato prevedeva tre cerchi: cattolici praticanti, cattolici saltuari, cattolici non praticanti. Questa tripartizione – lo dico subito – oggi è molto debole.

Per cercare di mostrarvi cosa questo vuol dire tenterò ora una sia pur sommaria presentazione della situazione attuale considerata dal punto di vista sociologico, anche se sono cosciente che le strade “pratiche” sono sempre dubbiose.

Se noi analizziamo alcuni dati relativi ai praticanti – così come le indagini sociologiche li presentano – ci accorgiamo che dal punto di vista anagrafico più del 60% sono sopra i 50 anni, più del 60% sono donne, la maggioranza sono inattivi (cioè in età pensionistica). Invece – ed è interessante – fra i saltuariamente praticanti le proporzioni si rovesciano, crescono i maschi, crescono le persone sotto i 50 anni, crescono le persone attivamente impegnate.

Un altro dato interessante è questo: 1 persona su 3 di quelle che praticano non prega mai, mentre in proporzione 1 e mezza su 3 di quelle che non praticano prega.

Fra coloro che sono praticanti 2 su 10 dicono di non credere in Dio, 2 su 10 dichiarano di non credere che Gesù sia Dio o Figlio di Dio, 4 su 10 di non credere alla vita eterna, 4 su 10 di non credere ad un volto personale di Dio, 5/6 su 10 di non credere che ci sarà un giudizio nella vita eterna. Perché allora vengono in chiesa, perché vengono a messa? Vengono perché “vorrebbero” credere, desidererebbero credere.

Analoghe proporzioni che non ci aspetteremmo a prima vista incontriamo analizzando le dichiarazioni dei praticanti sulla chiesa, quando viene chiesto loro un giudizio su di essa: 3 su 10 ritengono la chiesa troppo severa, 3 su 10 non ritengono giusto che il magistero dichiari cosa è peccato e cosa non lo è, ancora 3 su 10 hanno un giudizio incerto o negativo sulla chiesa. Si potrebbe dire che sono dei “riformatori”, che sono nella chiesa desiderando una sua riforma, un suo cambiamento.

Nel valutare questi dati, non dobbiamo dimenticare che abbiamo un “pubblico” scolarizzato! Non dobbiamo dimenticare nemmeno che nell'intera società c'è una rivisitazione del rapporto persona-istituzione. Oggi c'è sempre uno scarto fra le due: la persona si sente distante da qualsiasi istituzione.

Siamo passati da una società in cui era virtualmente impossibile non credere ad una società in cui credere è solo una possibilità fra le tante. Oggi credere non è semplice, né facile, né ingenuo. L'analisi sociologica rileva che si sviluppano posizioni “intermedie” di cui nessuno parla, di cui pochi si interessano.

Certo è che la fede non viene ereditata in modo automatico. In campo educativo sembra essere trasmessa solo l'idea della libertà religiosa. Le differenti agenzie educative ritengono giusto insegnare che bisogna essere liberi nella religione, ma non ritengono che bisogna spingersi oltre questo: la libertà religiosa sembrerebbe essere l'unico elemento religioso che viene trasmesso.

Dal mio punto di vista – quello sociologico - si potrebbe dire che oggi le persone sono delle “traiettorie”, dei “campi di forza”. Con l'espressione “campi di forza” intendo dire che le persone avvertono il fascino di narrazioni diverse ed oscillano fra diversi racconti.

Quali gli esiti di questa situazione? Soprattutto – potremmo dire – una condizione di grande differenziazione. I cristiani adulti sono molto diversi fra di loro dal punto di vista spirituale.

Questo ci provoca su due dimensioni su cui dobbiamo ragionare. Innanzitutto esiste una contrapposizione irrisolta tra il dimorare e – potremmo dire – l'attraversare (le persone desiderano autonomia e personalizzazione. In questa tensione emerge come le persone da un lato esprimano il desiderio di trovare un gruppo, una chiesa, qualcosa a cui appartenere, dall'altra hanno il desiderio di restare autonomi.

Un secondo asse problematico può essere individuato nella tensione fra una spiritualità del trovare ed una spiritualità del cercare. Si cerca di trovare riposo in una credenza certa e definita. C'è chi l'ha vissuta e la racconta, testimoniando come ha trovato se stesso – si pensi ad espressioni ricorrenti come “ho trovato me stesso”, “sono rinato”. D'altro canto molti si riconoscono nell'immagine del pellegrino che sente di dover sperimentare l'innovazione con gli atteggiamenti della selezione, della scomposizione, dell'innovazione. L'uomo spirituale sembra essere oggi non solo colui che ha trovato ma anche colui che non trova.

Questo tipo di persone, queste persone che hanno questa idea di spiritualità sono anche qui, sono anche nelle nostre chiese fra i praticanti, non sono solo altrove: questi “cercatori” non sono solo fuori, sono anche dentro i praticanti!

Voglio concludere con due domande da approfondire. Primo: se pensiamo all'offerta spirituale che le nostre comunità propongono, da un punti di vista liturgico, catechetico, ecc., a chi si rivolgono in prevalenza? La seconda domanda è speculare. Chi viene trascurato dalle nostre proposte? E chi non dovrebbe essere trascurato?

2/ Appunti dalla relazione del prof. Marco Cangiotti

Il tempo presente è il tempo di una grande controversia sull'umano. L'umano è una questione che attraversa tutti, non solo gli “altri”. Esiste un potere di agire, esiste la questione della titolarietà dell'azione, ma agere sequitur esse - l'azione è manifestazione dell'essere.

Dobbiamo essere coscienti che ci si concentra spesso sul risultato, sul bene, sull'azione dell'uomo, ma, dal punto di vista antropologico, non è questo il punto primario.

Per approfondire questa affermazione è importante avere presente ciò che Tommaso d'Aquino dice in proposito. Egli sottolinea a ragione che l'azione umana ha una doppia dimensione. Da un lato essa è transitiva, cioè produce un risultato esterno. Ma, da un altro, è anche intransitiva, produce un risultato in chi la compie, modifica internamente colui che agisce.

L'agire, insomma, non solo modifica il mondo esterno, ma costruisce la persona stessa, la modifica. Potremmo chiamare tutto questo autodeterminazione. Il potere dell'adulto è innanzitutto quello della responsabilità di ciò che si è, di ciò che attraverso le proprie azioni si è fatto di se stessi. L'adulto così edifica se stessa, nel senso del bene, se lo realizza o, nel senso del male, se dissipa se stesso.

Esistono infatti azioni che non hanno per oggetto le cose, ma hanno per oggetto le persone: queste azioni sono le relazioni.

Pensiamo innanzitutto alla generazione, alle relazioni di paternità e maternità. La generazione è una relazione di particolare significato. Si può essere padri e madri in diversi modi (è evidente che qui siamo dinanzi ad un'azione – quella di generare - in cui l'io si autodetermina).

Fino ad ieri era consentita nel nostro modi di pensare un'unica azione generativa che possiamo indicare con il termine di “avvenimento” - questo era il concetto di “generazione”.

Oggi l'uomo può non essere dinanzi ad un “avvenimento”, ma dinanzi ad un controllo che elimina in qualche modo l'alterità. Ci si può sottrarre alle leggi naturali e divenire totalmente artificiali: il concetto di “progetto” sembra sostituire quello di “avvenimento” nella relazione di generazione.

Nasce dinanzi a questa evoluzione del costume una domanda ineliminabile: l'uomo contemporaneo sta donando il fuoco all'umanità – per usare la metafora di Prometeo – oppure sta commettendo il più grave peccato di orgoglio? E che tipo di uomo è colui che vive secondo la logica del “progetto”?

Il “progetto” appartiene alla dimensione “fabbrile” dell'esistenza. Prima di passare all'azione il fabbro deve lavorare su di un'immagine astratta dell'oggetto che vuole produrre ed elaborare delle pratiche per giungere alla sua realizzazione.

In questa prospettiva, la cosa a cui si deve dare vita non esiste ancora; è del tutto assente: senza di me, senza il mio “progetto”, non sarebbe nulla. L'oggetto progettato è tutto una mia opera. La materia sola sembra pre-esistere al mio “progetto”.

Ma nella realtà non esiste mai un materiale inerte che aspetti solo il fabbricatore. In realtà, ogni cosa ha anche una sua sia pur flebile forma. Per poterla trasformare, debbo prima toglierle con la violenza la sua forma originaria - si pensi, ad esempio, al passaggio da un albero ad un tavolo. In questo senso io sono il dominatore di ciò che c'è già. Così progetto, possesso, violazione vanno insieme.

Tutto ciò non fa problema con le cose. Ma se passiamo alla generazione tutto muta. Se però resto in questa logica, il partner non può che apparire anch'egli che come uno strumento: un quid, non un egli, non un lui. Crolla così la comune genitorialità. Uno dei due è solo strumento, l'altro è invece l'unico generatore.

Questo si registra oggi nella figura paterna con le nuove ipotesi di fecondazione artificiale, ma in futuro le nuove tecniche potrebbe far scomparire piuttosto la figura materna. Il figlio si configura così come il “mio prodotto”: “mio” non nel senso di un coinvolgimento totale del “mio” destino con il “suo”, “mio” piuttosto nel senso del “possesso”.

Siamo dinanzi a due grandi possibilità. “Sei mio figlio” può significare “io sono tuo”, “io mi offro al tuo destino di bene e di felicità”, ma anche “sei mio figlio” cioè “io ti possiedo, perché senza di me tu saresti l'inerte nulla”.

Se si segue la seconda logica, ne consegue che il prodotto del mio agire deve corrispondere al mio progetto. Ne consegue, per esempio, che si ritiene opportuno scartare un prodotto che non corrisponde al “mio progetto”, ad esempio all'idea di sanità e di perfezione fisica che si voleva raggiungere. Non scarta forse il fabbro l'opera riuscita male?

Nella logica dell'“avvenimento” invece la generazione è qualcosa di nuovo che accade in maniera autonoma da me, anche se io non ne sono escluso: mi rende supremamente attivo, pur avvenendo al di là di me.

La generazione deve essere collocata nella sfera dell'“avvenimento”. È banale dire che la generazione sfocerà nella nascita del figlio; ma la generazione è al tempo stesso la nascita del padre e della madre. La generazione è una questione che implica una svolta radicale: l'accettazione del nuovo essere. Accettare un nuovo essere non è solo un atto psicologico, ma anche un atto concreto che chiede uno spazio fisico, psicologico, affettivo!

I genitori debbono accettare che il significato della loro unione risieda nella loro capacità di offrirsi ad un terzo uomo. Il figlio è una nuova identità su cui misurare la propria umanità. Qui il dire “sei mio” implica proclamare il proprio legame. Ecco la domanda decisiva riguardo all'umano: la più vera identità dell'uomo risiede allora nell'essere persona?

Siamo insomma dinanzi ad un bivio: fabbrilità o paternità, progetto o avvenimento? Tutto sembrerebbe congiurare nel contesto di pensiero in cui viviamo a privilegiare la prima possibilità. Per questo la chiesa, madre e maestra, deve porre tutta la sua attenzione nella catechesi perché emerga invece la seconda possibilità.