Quel che resta del Muro, di Luigi Geninazzi
Riprendiamo da Avvenire del 9/8/2011 un articolo scritto da Luigi Geninazzi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Sulla Ddr vedi su questo steso sito la recensione al film Le vite degli altri, di Florian Henckel Von Donnersmarck (2006): un film da non perdere, di Andrea Lonardo.
Il Centro culturale Gli scritti (18/8/2011)
Era ancora buio quando, il 13 agosto 1961, a Berlino migliaia di soldati della Germania comunista iniziarono a chiudere le strade, installando posti di blocco e srotolando reticolati di filo spinato, mentre squadre di operai lavoravano alacremente per innalzare una barriera di cemento. La "cortina di ferro", evocata qualche anno prima da Churchill, uscì dall’allegoria politica per diventare una mostruosa realtà. Quella notte d’estate cominciò un lungo inverno all’ombra del Muro, tragico simbolo della divisione tra Est ed Ovest conficcato nel cuore dell’Europa. Un incubo che sarebbe durato ventotto anni, fino alla sua caduta il 9 novembre dell’89.
Costruito lungo la linea di demarcazione tra il settore orientale e quello occidentale dell’ex capitale tedesca, il "muro della vergogna" cancellava definitivamente gli accordi del 1945 che avevano previsto libertà di circolazione all’interno della città. Ma la Ddr, la Germania comunista, era impegnata soprattutto a impedire la fuga dei suoi cittadini verso il mondo capitalista. Impresa molto difficile a Berlino dove il confine correva fra un marciapiede e l’altro. Non per nulla qualcuno ironicamente aveva paragonato la Ddr ad un carcere con il portone principale sempre aperto.
Negli anni Cinquanta, su un totale di venti milioni d’abitanti, furono più di tre milioni i cittadini tedesco-orientali che emigrarono nella Bundesrepublik. Una situazione intollerabile per i comunisti prussiani che, pungolati da Mosca, si decisero ad un gesto di forza dietro cui si celava una grande debolezza. La barriera di cemento, alta tre metri e mezzo, non divideva solo i due settori di Berlino ma circondava completamente la zona occidentale della città per 155 chilometri, sorvegliata da 14 mila Vopos (le guardie di frontiera della Ddr) e attorniata da cavalli di Frisia, campi minati e filo spinato. Eppure furono migliaia i tentativi di fuga.
Il primo fu un militare della Germania Est, Conrad Schumann, che scappò via durante i lavori. L’immagine di quel giovane in divisa con il fucile in spalla, mentre compie il grande salto verso la libertà, fece il giro del mondo. Ci fu chi si nascose in un minuscolo bagagliaio ricavato sotto il motore dell’auto, chi scavò tunnel sotterranei, chi s’avventurò su una mongolfiera. In ventotto anni furono più di tremila le persone arrestate mentre tentavano di scappare. I più sfortunati persero la vita cadendo nella "striscia della morte", abbattuti senza pietà in base al famigerato SchiessBefehl, l’ordine di sparare a vista. Era stato introdotto da Erich Honecker, il rigido capomastro addetto alla costruzione del Muro che avrebbe poi preso il posto di Walter Ulbricht alla guida della Ddr.
Vien da sorridere tristemente leggendo in questi giorni che un tedesco su sei giustifica in qualche modo la costruzione del Muro. In realtà, per la prima volta nella storia, venne edificata una barriera non per difendersi da attacchi esterni bensì per tenere prigionieri i propri cittadini. Un dramma che si rispecchiava nell’angoscia dei berlinesi dell’Ovest, costretti a vivere un’ossessiva lacerazione rispetto ai parenti, agli amici ed ai connazionali rimasti dall’altra parte. Il Muro era un osceno monumento all’inimicizia che poteva essere attraversato da un parte sola.
Da cittadino straniero l’ho varcato tante volte, in un clima di nervosismo e di paura, al check-point Charlie, sotto il grande cartello che avvertiva: «State lasciando il settore americano». Ci si inoltrava in un zig zag di camminamenti fino ad una baracca dove si veniva sottoposti ai controlli più severi, spesso seguiti da interrogatori e perquisizioni minuziose. Lo sguardo truce dei Vopos esaminava accuratamente il passaporto controllando le orecchie di chi stava davanti (si diceva che fosse l’unico particolare non falsificabile della foto). Dopo un’ora o più si otteneva il visto d’ingresso per un giorno, fino a mezzanotte, si cambiava una quantità obbligatoria di marchi occidentali in quelli orientali e dopo aver superato una selva di sbarre ci si trovava finalmente nella Berlino «capitale della Germania democratica», un piccolo mondo orwelliano dove gli angeli custodi della Stasi, i servizi di sicurezza, ti stavano addosso col fiato sul collo. A suo modo un’esperienza unica, assolutamente irripetibile dopo la caduta del Muro. Chi non l’ha provata può cercare di riviverla guardando qualche vecchio film di spionaggio ambientato a Berlino. Ma senza alcuna nostalgia per il mondo di ieri.
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