Socrate e Gesù, fatti o retorica?, di Gianfranco Ravasi
Riprendiamo da Il sole 24ore del 31 luglio 2011 un articolo scritto da Gianfranco Ravasi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi vedi la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (2/8/2011)
Provate a cliccare su Google il blog http://fiak.wordpress.com e con sorpresa scoprirete ben nove concordanze tra Gesù e Socrate. Che siano attendibili è un altro discorso, ma è l'indizio di una curiosità che ha visto, tra l'altro, entrare in passato nelle nostre librerie ben due saggi sull'argomento, quelli di Anne Baudart (2002) e di Francesco Tomatis (2007).
Lapidario era Kierkegaard che nel 1841 nel suo Diario annotava: «La somiglianza fra Cristo e Socrate si trova nella loro dissomiglianza!». Eppure, anche nell'ultimo numero di un'importante rivista scientifica come «Ricerche Storico Bibliche», destinato a raccogliere gli atti del XIII Convegno di Studi Neotestamentari svoltosi ad Ariccia nel 2009, ci imbattiamo in una godibilissima ma rigorosa relazione di uno dei massimi esegeti italiani, Romano Penna, proprio sugli «elementi di grecità in Gesù di Nazaret», titolo che è però accompagnato da un punto di domanda.
La questione, infatti, dell'ipotetica comparazione Gesù-Socrate può essere seriamente impostata solo in ambito contestuale. Il primo cerchio, il più largo, di questo orizzonte riguarda la Galilea, la regione sede del ministero pubblico più rilevante di Cristo, spesso sbrigativamente considerata, come scrive l'evangelista Matteo (4,15), «Galilea delle genti», citando il profeta Isaia (8,23) che parlava di una Galilea dei goyîm, in pratica dei pagani. In realtà, le accurate ricerche condotte da Mark A. Chancey (The Myth of a Gentile Galilee del 2002 e Greco-Roman Culture and the Galilee of Jesus del 2005, in terza edizione nel 2007, entrambi pubblicati presso la Cambridge University Press) hanno inferto un duro colpo a una visione multiculturale di quell'area geografica.
Certo, l'architettura greco-romana s'era insediata a opera del re Erode il Grande, come attesta l'archeologia; un paio di discepoli di Gesù avevano nomi greci, Andrea e Filippo (e forse Bartolomeo e Simone); il greco era noto e usato dalle classi ebraiche abbienti. Ma quell'orizzonte rimaneva sostanzialmente giudaico, e per Gesù si può con sicurezza affermare solo quello che osserva lo studioso catalano, Armand Puig i Tàrrech, nel suo Gesù, la risposta agli enigmi (San Paolo 2007): «Non è da escludere che Gesù avesse una conoscenza elementare della lingua greca orale, che gli permetteva di farne un uso colloquiale, ma non per parlare in pubblico... e non sembra che scrivesse o leggesse il greco».
Questo, però, non toglie che i documenti capitali per conoscere le sue parole e i suoi atti, cioè i Vangeli, siano stati redatti in greco, talora persino in un buon greco, come riconosceva san Girolamo a proposito dell'evangelista Luca, graeci sermonis peritissimus.
Anzi, non mancano in quelle pagine riflessi socio-culturali greco-romani, come ad esempio nella formulazione della critica di Gesù al divorzio, chiaramente impostata da Marco (10, 11-12) sulla base del diritto ellenistico, dato che si introduce sorprendentemente anche il caso del ripudio del marito da parte della donna e non solo quello giudaico tradizionale che vedeva come unico attore il marito. Curioso – tanto per fare un altro esempio – è l'uso messo in bocca a Gesù da Matteo (16,18) del sintagma «le porte dell'Ade».
Il cerchio più ristretto è quello che riguarda direttamente la figura del Gesù storico. L'entusiastica comparazione che Gerald F. Downing aveva sviluppato tra Gesù e i filosofi cinici in due studi, Christ and the Cynics (Sheffield Academic Press 1988) e Cynics and Christian Origins (T&T Clark, Edimburgo 1992), è stata di molto ridimensionata da altri studiosi. I nessi parallelistici erano, infatti, molto generici: l'itineranza, l'opzione per la povertà, la sobrietà, la semplicità, la pratica del celibato, la generosità, la pietà verso i miseri, il rifiuto dei privilegi e dell'opinione dominante, il perdono. Tra l'altro, sorprendentemente Gesù invita i suoi discepoli a non recare con sé né un bastone né una bisaccia (Luca 9,3) che, al contrario, erano i segni distintivi dei filosofi cinici itineranti.
Restringiamo ancor più il nostro cerchio d'analisi, fermandoci infine sulle parole di Cristo. Si potrebbe gettare qualche ponte tra alcuni suoi detti e i paralleli greco-romani. Lasciando stare i temi più vaghi come il dominio sull'ira e il rigetto della vendetta, potremmo citare due esempi più circoscritti. Innanzitutto la "regola d'oro" enunciata nel Discorso della montagna: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Matteo 7,12). Essa ricorre al negativo in Erodoto e, in positivo (come fa Gesù), in Seneca. C'è, poi, il lóghion o "detto" sul «profeta disprezzato in patria» (Marco 6,4) che è presente anche in Dione di Prusa («A tutti i filosofi è difficile la vita in patria») e in Epitteto («i filosofi invitano ad allontanarsi dalla loro patria»).
Tuttavia, con Penna si deve concludere che anche in questi casi e altri affini Gesù condivide «un patrimonio comune in ambito greco, frutto di un esteso scambio interculturale». Tra l'altro, non si tratta neppure di categorie capitali del pensiero di Cristo, il quale rimane saldamente ancorato alla sua matrice giudaica, sia pure con un'originalità così spiccata, una libertà e persino una difformità da far risultare alla fine la figura dell'uomo di Nazaret un caso a sé stante.
E, allora, che dire ritornando a Gesù e Socrate? Come affermava Luciano Canfora, sia pure su altro tema, si tratta di una comparazione che appartiene «al versante della retorica piuttosto che a quello della ricerca».