Appunti per l’omelia della XVIII domenica del tempo ordinario A, di Andrea Lonardo
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Ripresentiamo sul nostro sito alcuni appunti scritti da Andrea Lonardo per il sito www.omelie.org.
Il centro culturale Gli scritti (30/7/2011)
In uno straordinario libro degli anni settanta, Jean Vanier scrisse che il nostro tempo aveva perso il senso della festa e lo aveva sostituito con quello del party: «Le società diventate ricche hanno perso il senso della festa perdendo il senso della tradizione. La festa si ricollega ad una tradizione familiare e religiosa. Non appena la festa si allontana dalla tradizione tende a divenire artificiale e occorrono, per attivarla, degli stimolanti come l’alcool. Non è più festa. La nostra epoca ha il senso del “party”, cioè dell’incontro in cui si beve e si mangia; si organizzano dei balli, ma è spesso una questione di coppia e a volte addirittura una faccenda molto individuale. La nostra epoca ama lo spettacolo, il teatro, il cinema, la televisione, ma ha perso il senso della festa» (La comunità, luogo della festa e del perdono).
È evidente, invece, che il vangelo di Matteo ci racconta della festa originaria che Gesù donò sulle rive del lago a quei cinquemila che lo avevano cercato insieme alle loro famiglie, insieme alle donne ed ai bambini.
Quel popolo era un “non-popolo” prima di incontrare Gesù. Egli si era commosso per loro, perché lo seguivano, perché sentivano che la loro vita non bastava a se stessa. In un altro luogo i vangeli dicono espressamente che tutti costoro erano «come pecore senza pastore».
In quel commuoversi, in quel «sentire compassione» di Gesù sono dette insieme tutta la grandezza della vita umana e tutta la sua pochezza che il Signore ben conosce. L’uomo è, infatti, la creatura che Dio ha voluto per se stessa. La vita umana, ogni vita umana, ha una dignità incomparabile. E questa dignità le deriva proprio dal suo essere fatta per la relazione con Dio, a differenza degli animali che non possono avere un dialogo libero con il loro Signore. Per questo la creatura umana ha bisogno di “stare” con il suo Creatore, ma non può darsi da sola questa comunione: la può invece ricevere come un dono.
Questo è vero di ogni dialogo. Se l’altro non mi rivolge la sua parola, resto rinchiuso nel mio monologo o nel mio silenzio. Ma questo è massimamente vero dinanzi a Dio. La creatura ha sete di una parola di amore, di perdono, di rivelazione che Dio le possa rivolgere. Solo questa parola, solo questa presenza genera la festa. La creatura ha sete di essere ascoltata: solo Dio che le porge l’orecchio e il cuore le può venire incontro.
Ed ecco la moltiplicazione dei pani: Gesù «alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla». I verbi sono evidentemente quelli dell’ultima cena. Se gli apostoli debbono aver capito solo allora che cosa il Maestro aveva inteso prefigurare nella moltiplicazione, egli invece doveva essere ben cosciente che il cibo di cui essi si dovevano nutrire era la sua stessa vita, il suo corpo ed il suo sangue.
Certamente Gesù, come tutta l’Antica alleanza già insegnava, voleva confermare i suoi discepoli che il cibo che si riceve deve essere preso benedicendo Colui che ne è l’origine. Nel suo levare gli occhi al cielo, nel suo rendere grazie, voleva ancora una volta manifestare il legame con il Padre suo. Ma ora il pane non era più solo quello di farina ed acqua. Ora come fosse pane i discepoli si preparavano a nutrirsi della presenza stessa di Gesù.
Si rivela nuovamente nella moltiplicazione dei pani il duplice senso dei miracoli del Signore: miracoli reali, ma anche segni di una realtà più grande.
Del pane si vive. Esso è il cibo quotidiano. Proprio perché è quotidiano è ciò cui meno si fa caso.
Ricordo una omelia struggente di un vescovo in occasione di una morte per incidente di un parroco. La chiesa gremita. Dappertutto gente in lacrime. Ed il vescovo che dice: «Oggi che vi è stato tolto il vostro parroco voi vi accorgete che esso è come il pane sulla vostra tavola. È sempre lì, per cui non ci si fa neanche caso. Lo si disprezza quasi. Lo si trascura. Ma se su quella tavola manca il pane, tutti si accorgono che è necessario. Così è stato il vostro parroco. Anche chi non veniva mai in chiesa ed oggi è qui a salutarlo, si accorge che egli è stato il suo pane. Che era lì, sempre».
Insieme al pane il pesce. Perché non si vive solo del necessario. Il pane è necessario. Ma bisogna anche far festa. Ed ecco i pesciolini. Il com-panatico, ciò che accompagna il pane. Nell’ultima cena sarà presente il vino, il segno stesso della gioia. Ciò che non è essenziale come il pane. Ciò che però, insieme al pane, manifesta la gioia, è segno d’allegrezza.
Questo pane e questi pesciolini offre Gesù ai cinquemila ed alle loro donne e bambini. Ma in essi Gesù vuole che si preparino a ricevere la sua stessa vita, come ricorderà Giovanni raccontando il discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Il pane di cui non si può fare a meno, il pane senza cui si muore è il corpo di Gesù. Quello è l’alimento quotidiano necessario alla vita.
Ed il vino della festa è il suo sangue, il suo sacrificio. Così anche quel pesciolino diverrà simbolo
del suo dono. Dappertutto i cristiani, fin dalle catacombe, nel segno del pesce, dell’icthus, rappresenteranno la presenza stessa del Signore che si dona ai suoi.
Un sublime versetto mostra le conseguenze del dono di quella moltiplicazione: «Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene». Mangiare a sazietà. Portarsi con sé un avanzo pieno per nutrirsi ancora, anzi per nutrire il mondo intero come faranno i dodici. Tutti questi sono segni di una festa, non di un party.
La verità di un incontro appare proprio nel prosieguo del tempo. Il party eccita, ma alla fine lascia vuoti, stanchi, svuotati. Non ha reso la vita più bella, più piena. L’ha solamente fatta dimenticare. Per cui quando si ritorna ad essa, non si è in grado di amarla di più, di scoprirne la meraviglia. Il party è evasione, non “nuova creazione” della vita. La vita resta quella di prima, invivibile, da dimenticare in fretta con un altro party.
Nella festa, invece, si scopre l’abbondanza, la grazia della vita. Per cui si ritorna ad essa con gioia, amandola. Ecco che i discepoli mangiarono “a sazietà”. Eccoli non alterati e fuori di sé a causa di sostanze eccitanti, bensì carichi per aver ricevuto l’essenziale e la gioia per vivere. Carichi di un avanzo che si porta con sé, che continua a fiorire, che può essere diviso con altri nel cammino della vita.
Immagine che illumina anche la nostra estate. L’estate che ricrea non è quella che fa dimenticare la vita, che fa fuggire da essa. Piuttosto è quella che porta all’incontro con il Signore e la sua bellezza, con Dio e con i suoi figli, per ritrovare senso alla vita che ci chiederà di nuovo di metterci all’ultimo posto per servire con gioia nel suo nome.
Quante volte sentiamo ripetere da tanti: «Padre, non mi chieda di andare a messa la domenica. Non perché io non creda, ma perché ho faticato talmente tanto che almeno un giorno a settimana debbo riposare e stare con la mia famiglia». Solo che poi la domenica quella stessa persona in verità non riesce a riposare, a ri-crearsi, e le sue ore passano senza che quell’uomo o quella donna abbia realmente condiviso la festa con i suoi cari. Noi sappiamo che è faticoso levarsi per quell’eucarestia, ma sappiamo anche che essa poi riposa veramente, restituisce la gioia e la speranza. E sappiamo che essa fa incontrare moglie e marito, genitori e figli, intorno alla presenza di Dio. Quante volte abbiamo sentito: «Esco rasserenato dalla messa, anche se mi ha chiesto di convertirmi. Esco sereno perché vedo meglio ciò che il Signore mi chiedo, perché comprendo il senso della fatica che sto vivendo». Quante volte genitori e figli si riscoprono famiglia proprio perché si trovano intorno a quel “pane” e a quel “vino”, mentre senza l’eucarestia vivrebbero ognuno chiuso nella propria camera!
Come quando ci si confessa. Quanto sembra difficile alzarsi per chiedere quel perdono e come si torna a casa diversi, felici, sanati!