Da Parigi al Meeting con il Giobbe di Hadjadj, di Gianfranco Ravasi
Riprendiamo da Avvenire del 24/7/2011 un testo di mons. Gianfranco Ravasi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sul libro di Giobbe vedi su questo stesso sito la sezione Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2011)
Anticipiamo in queste colonne ampi stralci dell’introduzione di Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della Cultura, al dramma di Fabrice Hadjadj Giobbe o la tortura dagli amici, edito da Marietti 1820 (pagine 92,00, euro 10,00) con prefazione di Sandro Lombardi. L’opera è stata parzialmente rappresentata per la prima volta a Parigi il 25 marzo scorso, nel contesto della manifestazione 'Il cortile dei gentili'; la prima rappresentazione italiana si terrà il prossimo 24 agosto a Rimini, in occasione della XXXII edizione del Meeting per l’amicizia tra i popoli, con produzione del Teatro degli Incamminati. L’opera andrà in scena alle 19.45 nel teatro D2; sul palco Roberto Trifirò e Andrea Maria Carabelli.
La mia sarà solo una premessa generale che punta al retroterra del Giobbe hadjadjano risalendo fino alla sua matrice biblica. Certo, il dramma coglie un aspetto molto rilevante nell’originale ebraico, cioè il lungo confronto-scontro del protagonista coi suoi tre amici “teologi”: Elifaz, Bildad e Zofar, a cui si aggiungerà alla fine Elihu.
In realtà la loro retorica argomentativa, il loro sottile dogmatismo, l’artificiosa enfasi consolatoria, il loro implicito cinismo li rendono alla fine veri e propri avversari che soffocano il grande sofferente con gli assalti di un’ipocrita sollecitudine. Scriveva uno dei più famosi innamorati di questo libro, il filosofo danese ottocentesco Søren Kierkegaard: «Giobbe sopportò tutto: soltanto quando vennero i suoi amici per consolarlo perdette la pazienza» (Diario I, 829).
L’incandescente verità sull’uomo e su Dio non può essere compressa in uno stampo freddo teorico, ma si proclama in un grido verso l’alto e ha come sbocco una ferita mistica che diventa una feritoia attraverso la quale passa la luce divina.
Come Hadjadj, attorno al testo biblico di Giobbe fatto di 8343 parole ebraiche (il 2,78 % delle Sacre Scritture ebraiche, suddivise dalla tradizione in 1047 versetti e 42 capitoli) si sono appostati tanti interpreti, anche perché esso è simile – come scriveva un importante esegeta, Luis Alonso Schökel – a un «ciclope gigantesco a cui manchi un occhio o abbia dita in eccedenza: la sua imperfezione e incompiutezza è forse segno dell’insufficienza umana di fronte ai problemi ultimi dell’uomo».
Aveva ragione il vecchio e rude san Girolamo, il traduttore dalmata delle S. Scritture in latino, il quale, in modo lapidario e folgorante, dichiarava che spiegare Giobbe è come «tenere tra le mani un’anguilla o una piccola murena: quanto più la premi, tanto più velocemente ti scivola via».
Questa impressione si conferma vagliando la sterminata bibliografia che attorno all’opera sacra si è ininterrottamente addensata e la si riprova catalogando l’insonne ripresa del personaggio da parte della letteratura e delle varie arti, una sorta di immenso “paratesto” che ha strattonato l’antico “figlio d’Oriente”, non ebreo, simile a uno sceicco sfortunato, verso direzioni impreviste e imprevedibili. Tanto per fare qualche esempio tra i mille e mille, pensiamo al cuore del dibattito presente nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, al Leviatan che dal libro di Giobbe migra nel Moby Dick di Melville, ai due prologhi in cielo e in terra che sono ripresi dal Faust di Goethe, al capovolgimento interpretativo operato dalla Risposta a Giobbe di Jung, al Giobbe, “storia di un uomo semplice” ebreo mitteleuropeo di Roth, al Processo di Kafka o persino al Candido di Voltaire che Federico II definiva come «un Giobbe rivestito di panni moderni»…
Ininterrotto è, dunque, il fascino che questo poema drammatico ha esercitato fino ai nostri giorni, tant’è vero che anche il film The Tree of Life di Terrence Malick che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2011 si apre con una citazione giobbica. Ma già un Foscolo fremente non esitava a copiarlo da una versione greca e latina, rimanendone abbacinato e proclamandolo ben superiore a Epitteto: «Sublime libro! Come è pieno di grande e magnanimo dolore!… E vi fu chi ardiva tradurlo in versi, in rime, e con fredde eleganze?» (così scriveva il 19 gennaio 1808 a Isabella Teotochi Albrizzi).
Certo è che l’itinerario di protesta e di fede, di desolazione e di speranza del protagonista ha come meta quell’incontro trascendente e supremo. La voce di questo credente estremo, fatta di “sussurri e grida” – per usare il titolo del film di Bergman che ha al centro un Giobbe al femminile, Agnese – è destinata ad attraversare i secoli e a giungere intatta al cuore di ogni uomo che s’interroga sul senso ultimo dell’esistere e sul mistero che lo avvolge. È ciò che mostra anche il potente testo di Hadjadj. È ciò che confessava il citato filosofo ottocentesco Søren Kierkegaard, che nella sua opera La ripresa, tutta modellata sui temi giobbici, dichiarava:
«Se io non avessi Giobbe! Non posso spiegarvi minutamente e sottilmente quale significato e quanti significati abbia per me! Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto sul cuore. Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la sua lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima. Ora svegliandomi dal mio letargo la sua parola mi desta a una nuova inquietudine, ora placa la sterile furia che è in me, mette fine a quel che di atroce vi è nei muti spasimi della passione».