Se il vicino di banco si chiama Dante, un'intervista di Bianca Garavelli a Luca Serianni
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Riprendiamo da Avvenire del 20/7/2011 un’intervista di Bianca Garavelli al prof. Luca Serianni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, vedi la sezione Letteratura, su questo stesso sito.
Il Centro culturale Gli scritti (20/7/2011)
Luca Serianni ha una grande esperienza in fatto di lingua italiana: è autore di fondamentali testi di grammatica, è accademico della Crusca, ha studiato approfonditamente i fenomeni della lingua italiana legati ai cambiamenti della società e della storia. È ordinario di Storia della lingua italiana all’Università La Sapienza di Roma e recentemente ha dato un contributo importante al dibattito sulla scuola italiana e sul rapporto fra i giovani, la nostra e lingua e la letteratura, con il saggio L’ora di italiano (Laterza). Su questi temi abbiamo dialogato con lui, avviando così una serie di conversazioni sul futuro della nostra lingua.
È vero, come sembra da molti segnali, che i giovani stanno disimparando la lingua italiana?
«Sì e no. In generale si resta colpiti dalle limitate risorse espressive del parlato giovanile. Ma il parlato è per sua natura povero: anche gli adulti, nel registro colloquiale, adoperano un numero ridotto di parole e non si preoccupano della tenuta della sintassi. L’allarme è fondato, invece, se guardiamo alla limitata dimestichezza dei ragazzi con la lingua propria della scrittura argomentativa, a partire dall’editoriale di un quotidiano. È importante non solo essere in grado di scrivere un testo ben articolato intorno a una certa tesi, ma ancor di più, direi, capire davvero quel che si legge; e in proposito, anche se è sempre sbagliato generalizzare, un certo pessimismo è giustificato».
Quali rimedi, concretamente, potrebbero modificare questa tendenza?
«Credo che, nella scuola, si dovrebbero variare le prove scritte, spodestando il tradizionale 'tema' (anche nella versione aggiornata del 'saggio breve') dal trono di prova principe per saggiare le capacità di scrittura e di ideazione. Il 'tema' può essere al più un punto d’arrivo: ma bisogna arrivarci per gradi».
Bisogna fare un distinguo fra gli autori classici? Quali possono essere più produttivi e, naturalmente, in quale tipo di scuola?
«Pochissimi autori dovrebbero esser letti in tutte le scuole (in misura e con impegno critico diversi) perché, oltre al valore artistico, rappresentano parte della nostra identità culturale: autori come Dante, Manzoni, Leopardi. Per il resto, occorre conciliare l’opportunità di dare rappresentanza alle varie tipologie di testi letterari, ma anche non letterari (saggi storici e scientifici o gli stessi articoli di giornale) con la necessità di alimentare negli alunni la curiosità per la lettura: una fiammella che in genere si accende nei pre-adolescenti e che la scuola dovrebbe tener viva anche negli anni successivi (e so bene quanto sia difficile)».
Come può un insegnante, magari afflitto da problemi disciplinari, far apprezzare la lettura di un classico?
«La sfida che ogni insegnante di lettere ingaggia ogni anno con la sua classe è proprio questa. Ma credo che anche oggi un canto dell’Inferno possa stimolare l’interesse degli alunni più riottosi. In un liceo classico o scientifico, si potrebbe fare emergere ciò che ci unisce e ciò che ci separa dalla lingua antica, magari valorizzando la presenza della civiltà latina nell’orizzonte culturale del poeta ( Virgilio...) e la sua disposizione ad accogliere sincreticamente civiltà pagana e civiltà cristiana (Minosse è un giudice infernale; Catone, pagano e suicida, è il custode del Purgatorio...). Niente di tutto ciò in un istituto tecnico o in un professionale: qui bisognerebbe cercare di far sentire il fascino di certi episodi famosi, senza preoccuparsi troppo che la lettera del testo sia perfettamente compresa in tutto il suo significato. Del resto è quello che ogni insegnante coscienzioso fa già, sulla base della propria esperienza».
Quanto pensa che sarebbe utile ai giovani la lettura di libri contemporanei? Si potrebbe proporre anche in classe?
«È utilissima, ovviamente. Bisognerebbe però lasciarla il più possibile all’iniziativa dei ragazzi, magari proponendo loro un’ampia rosa di possibilità. E bisognerebbe evitare di sottoporre questi testi a verifiche scritte. Molto meglio chiedere ai singoli alunni, stimolando il naturale egocentrismo di bambini e ragazzi, di presentare il libro oralmente ai compagni, illustrando perché valga la pena o non valga la pena di leggerlo; naturalmente dopo aver stilato una scaletta, con la collaborazione dell’insegnante, che renda coesa ed efficace l’esposizione».
Esiste una contrapposizione fra cultura umanistica e scientifica nella scuola? Perché ritiene che l’italiano sia l’asse portante nella didattica di qualunque indirizzo?
«Perché è attraverso la lingua materna che esploriamo in prima istanza l’universo della conoscenza e ne organizziamo i contenuti, anche quando ci muoviamo in settori che si servono di codici formalizzati (matematica, chimica), visivi (storia dell’arte) o auditivi (musica)».
Consigli a un insegnante un po’ demotivato…
«Gli (o le) direi che, a differenza di altri mestieri, quello dell’insegnante non è mai ripetitivo. I verbi transitivi o il Verismo restano, ma i ragazzi cambiano e sarebbe sbagliato pensare che cambino in peggio. Insegnare significa ogni volta mettere in discussione sé stesso, far valere la propria capacità di guida, diciamo pure il proprio carisma. Come tutte le sfide, si può vincere o perdere, ma se si vince, ogni docente resterà un punto di riferimento per l’allievo, anche diventato adulto, e la sua lezione non andrà dispersa».