Ipocondria. E un doloretto diventa malanno, di Riccardo Maccioni
Riprendiamo da Avvenire del 17/7/2011 tre articoli di Riccardo Maccioni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (17/7/2011)
1/ Ipocondria. E un doloretto diventa malanno
Per combattere il male che non c’è, «un clistere insinuativo» e di sera un «giulebbe epatico». Senza dimenticare «una buona medicina purgativa» e «una pozione analgesica e astringente», da abbinare a «una dose di fermenti lattici» e a una «pozione cordiale e preservativa». Il malato immaginario di Molière è un concentrato di paradossi terapeutici e assurdità farmacologiche.
Perché Argante, il protagonista, non soffre nel fisico ma nell’animo. La sua patologia si chiama male di vivere, è l’ingenua, miracolistica fiducia in una classe medica che non può curare ciò che non conosce, è l’affetto verso chi gli sgomita intorno solo per avere libero accesso al suo patrimonio. Eppure quella maschera tragicamente comica è più attuale di quanto si creda. La ritrovi in chi abbina un piccolo dolore a una grande malattia, nei voraci consumatori delle riviste mediche, nelle migliaia di pagine internet con domande e risposte sulle sindromi più improbabili. Anzi, proprio la maniacale ricerca di conferme alla gravità del proprio stato è a suo modo patologica.
«Molti guardano all’ipocondriaco come a un 'malato immaginario' o come a qualcuno che trae gratificazione dal presentarsi agli altri come ammalato – spiega lo psichiatra e psicoterapeuta Daniele Piacentini, responsabile dell’ambulatorio psicosociale di Zogno, presso l’azienda ospedaliera di Treviglio, in provincia di Bergamo –. La realtà è invece molto diversa: l’ipocondria determina un reale stato di sofferenza. Però mentre il soggetto lo attribuisce alla presenza di un disturbo organico, il problema ha invece un’origine prevalentemente psicogena».
Daniele Piacentini, assieme a Daniela Leveni e Marco Lussetti è autore del recente volume Ipocondria. Guida per il clinico e manuale per chi soffre del disturbo (edizioni Erickson, pagine 250, euro 21). Punto di partenza e la messa al bando di ogni tipo di sottovalutazione. Perché l’ipocondria, a dispetto della valenza negativa data alla parola, è a tutti gli effetti, una malattia. «Negli ultimi anni – prosegue il dottor Piacentini – si è via via diffuso il termine di disturbo d’ansia per la salute. Si prevede che la prossima edizione del Manuale internazionale di classificazione dei disturbi mentali (ovvero il Dsm-V, ndr) adotterà proprio questa definizione». La patologia, in una diversa gradualità di forme e sintomi, è molto diffusa.
Per averne conferme forse basterebbe contare la pastiglie che abbiamo nelle tasche della giacca oppure passare in rassegna quelle fornitissime farmacie che sono i nostri bagni. Per tacere delle ore passate davanti allo specchio a misurare la grandezza di nei e foruncoli.
«Circa il 10%-20% delle persone sane presentano periodicamente preoccupazioni eccessive sul proprio stato di salute – prosegue Piacentini –. E dal 30% all’80% di chi si rivolge al medico lamenta sintomi che non hanno riscontri obiettivi». La diagnosi di ipocondria però non è facile. Chi ritiene di essere malato nel fisico accetta con grande difficoltà di soffrire nello spirito.
Di qui l’importanza della collaborazione tra lo psicoterapeuta e il medico di base, primo referente del malato. «Nessun invio per un trattamento psichiatrico dovrebbe essere fatto prima di aver ragionevolmente escluso malattie fisiche – spiega Piacentini –. Rassicurazioni sbrigative, prescrizioni di psicofarmaci o invii prematuri ai servizi di salute mentale potrebbero far pensare al paziente di non essere preso sul serio e impedire che si crei un rapporto di collaborazione e fiducia. In ogni caso è necessario fargli capire che si comprendono il suo dolore e le sue sofferenze». Una complicità, un’accettazione reciproca, tra medico e malato, che va cementata giorno dopo giorno. «Il fulcro centrale dell’ansia per la salute – aggiunge Piacentini – è la preoccupazione di avere una malattia fisica e di essere in pericolo di vita, quindi è abbastanza ovvio aspettarsi una certa incredulità se non addirittura ostilità nei confronti di un trattamento che ha come scopo, semplicemente 'interrompere' la preoccupazione».
L’obiettivo terapeutico del paziente è infatti completamente diverso: vuol essere sicuro di non stare per morire. Qualunque altra proposta appare insufficiente e limitata. «Molti arrivano dal terapeuta con un profondo senso di imbarazzo e un’altrettanta intensa paura di non essere capiti. È importante allora rendergli chiaro che si considerano i sintomi reali e non il frutto d’immaginazione». L’ipocondria si cura. «Sono disponibili terapie efficaci sia farmacologiche che psicoterapiche – continua il dottor Piacentini –. I dati più esaustivi si riferiscono alle psicoterapie ad orientamento cognitivo comportamentale, che dovrebbero pertanto essere considerate di prima scelta, anche perché preferibili dalla maggior parte dei pazienti».
L’obiettivo principale è ridurre l’intensità e la frequenza delle preoccupazioni, migliorando il rapporto con gli altri oltreché con se stessi, facendo diminuire il bisogno di rassicurazioni. Senza dimenticare – sottolinea ancora lo psichiatra Piacentini – che se il paziente sta meglio si riduce «l’uso improprio delle risorse offerte dal sistema sanitario».
L’Argante di Molière in fondo ce lo insegna: le malattie, anche quelle solo immaginarie, fiaccano il fisico e alleggeriscono le tasche. Il rimedio è nel coraggio della realtà, nell’amore magari un po’ ruvido di parenti affezionati e veri amici. A suo modo, una psicoterapia anche quella.
2/ Malati e creativi. Darwin, dalla gastrite all’evoluzionismo
Da Charlotte Brönte ad Andy Warhol l’ipocondria è stata spesso compagna della creatività e della cultura. Anzi, il cinismo di qualche critico l’ha persino benedetta perché la malattia nelle forme più gravi finisce per isolare l’artista costringendolo a concentrarsi sul lavoro. Celebri gli eccessi del pianista canadese Glenn Gould che, ossessionato dai germi, vestiva pesante anche d’estate e non stringeva la mano a nessuno. Charles Darwin conviveva con attacchi di panico e disturbi gastrici attribuiti a un parassita tropicale mentre Florence Nightingale patì gli effetti di un misterioso virus contratto in Crimea e della scarsa fiducia nella classe medica. Cosa che non gli impedì di vivere 90 anni ponendo le basi dell’assistenza infermieristica moderna.
Tra gli italiani, per loro stessa ammissione, soffrono del problema Carlo Verdone e Paolo Villaggio. Il regista romano ha affrontato il tema nel film Maledetto il giorno che t’ho incontrato, in cui racconta la storia di due ipocondriaci che finiscono per innamorarsi. Dal cinema alla letteratura, quella di Charlotte Brönte era probabilmente una larvata forma di depressione mentre il maestro della pop art Andy Warhol era così ossessionato da mali inesistenti che finì per trascurare la patologia che l’avrebbe ucciso. Sul tema disturbi falsi e paure vere, implacabile l’autoironia di Woody Allen: «Quando si tratta di malattia – spiega il regista statunitense – non direi mai di essere un ipocondriaco. Semmai sono un allarmista. Non è che mi senta malato di continuo ma quando mi ammalo penso subito che sia la volta buona».
3/ Chi rimugina rischia di entrare... in un film dell’orrore
Ci sono storie che ricordano i film dell’orrore, quelli con l’assassino insospettabile e la musica che ti avvolge poco a poco, insinuante come un brivido. Perché l’ipocondria può farti sprofondare in un tunnel di pessimismo, è l’allucinazione che oscura la vista, la paura che impedisce di vedere le cose come stanno. Guarire significa uscire dalla pellicola per recuperare la realtà, un viaggio alla riconquista di se stessi che non si percorre da soli.
«È una malattia molto democratica – spiega la psichiatra e psicoterapeuta Daniela Leveni, coordinatrice del Centro per il trattamento dei disturbi d’ansia dell’Azienda ospedaliera di Treviglio, in provincia di Bergamo – perché colpisce in ugual misura sia gli uomini che le donne». Lo stesso discorso vale per l’età. «Anche in questo caso non si sono predilezioni o differenze – aggiunge –. Tuttavia quanto più il disturbo è di lunga durata, quanto più diventa stile di comportamento, tanto più è difficile da smantellare».
Daniela Leveni è autrice assieme a Marco Lussetti e Daniele Piacentini del volume Ipocondria. Guida per il clinico e manuale per chi soffre del disturbo. Un testo che dopo la prima parte dedicata agli psichiatri e agli psicologi, si rivolge direttamente ai pazienti. Per così dire diventa un manuale da utilizzare come quaderno di lavoro, che, oltre ai concetti, fornisce indicazioni e materiali per gli esercizi pratici. Negli ipocondriaci – aggiunge Leveni – «l’intensità della sintomatologia e quindi la gravità del disturbo è direttamente proporzionale al grado di convinzione di essere in pericolo di vita, cioè strettamente legato al modo di interpretare il proprio stato di salute e al significato che si attribuisce alle sensazioni corporee». Nel libro si sottolinea la diversità tra la riflessione costruttiva sul proprio stato di salute ed il rimuginio.
«Una differenza sottile ma fondamentale – prosegue Leveni –. Bisogna partire da una constatazione: tutti noi abbiamo paura di morire e della sofferenza, quindi è abbastanza normale preoccuparci se non ci sentiamo bene. Chi non cade nell’ipocondria affronta il suo malessere come un problema cui trovare una possibile soluzione, cercando spiegazioni plausibili tra quelle più probabili e stabilendo un piano d’azione. Chi cade nel rimuginio salta subito alle conclusioni più catastrofiche, per quanto poco probabili».
Come metafora viene usata l’immagine dei film dell’orrore. «Si tratta di un modo per aiutare la persona a riconoscere il rimuginio dalla preoccupazione sana. I film dell’orrore – quelli fatti bene – hanno la caratteristica di spaventarci perché ci proiettano in una situazione verosimile e coinvolgente emotivamente e li apprezziamo quanto più si avvicinano alla realtà». Il richiamo immediato è al rimuginìo del malato. «Nell’ipocondriaco – prosegue Leveni – è un flusso continuo di scenari catastrofici, a volte molto verosimili che la persona confonde con la realtà grazie al meccanismo dell’autosuggestione. Interrompere i film dell’orrore significa innanzitutto riconoscere la 'natura virtuale' di tali scenari, individuarne gli effetti in termini emotivi e di sofferenza, quindi classificarli come 'frutto della mia immaginazione' per concentrarsi sul qui e ora, sui fatti, su elementi tangibili e verificabili».
Ma dell’ipocondria si guarisce o bisogna semplicemente imparare a convivere con il disturbo? «È una domanda più difficile di quanto sembri. Bisogna infatti considerare che dal 30 all’80 % delle persone che si rivolgono al medico lamentano sintomi che non hanno in realtà riscontri obiettivi e a molti di noi, pur non essendo ipocondriaci è capitato di farsi prescrivere un esame o di fare una visita specialistica in più 'perché non si sa mai, con quello che si sente in giro…'». La linea di confine tra un comportamento sano e uno patologico è insomma molto sottile.
«Se una persona, nonostante la sua predisposizione biologico-genetica, riesce a condurre una vita soddisfacente, a raggiungere i suoi obiettivi di vita in ambito lavorativo, affettivo e sociale, e gestisce con efficacia il suo 'tallone d’Achille', allora è 'guarito', anche se, qualche volta nell’arco della vita, invece di andare a prendere un aperitivo va a fare un controllo dal dermatologo. Certo sono necessari molta disciplina e autocontrollo».