Vasari. La lingua che imita il bello, di Antonio Paolucci
Riprendiamo da Avvenire del 10/7/2011 un articolo scritto da Antonio Paolucci. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2011)
Di fronte alla Pietà di San Pietro che Michelangelo firmò all’anno 1499, la prima impressione, fulmineamente esatta, è quella che Giorgio Vasari registra: «È un miracolo che un sasso, da principio senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione che la natura a fatica suol formare nella carne». Lasciamo da parte per un attimo i principi dell’estetica cinquecentesca impliciti in questa frase: l’arte che si confronta con la natura e la vince, l’artificio (inteso come primato dell’intelletto e dei saperi tecnici) che domina e plasma la bruta materia.
Dimentichiamo la teoria e mettiamoci nei panni del Vasari che vede per la prima volta la Pietà di San Pietro. Ebbene il suo stupore è sostanzialmente uguale, almeno come impatto emotivo di origine, a quello che, più di mezzo millennio dopo, provano le migliaia di turisti che ogni giorno sfilano davanti a quella scultura. Per noi, come per il Vasari, la Pietà è un miracolo, un miracolo di suprema bravura. La scultura sta davanti ai nostri occhi come un gioiello: pura, levigata, lucente. Al cospetto della Pietà Giorgio Vasari (di cui ricorrono a giorni i 500 anni dalla nascita, avvenuta ad Arezzo il 30 luglio 1511) prova stupore, riconosce il 'miracolo' e poi 'entra' nella mimesi verbale dell’opera. Il commento del Vasari è vivo, commosso, al tempo stesso tumultuoso e straordinariamente preciso. Aderisce alla scultura come un occhio che guarda e una mano che accarezza. L’artista Vasari gode, si direbbe in modo quasi tattile, di quel marmo «traforato tanto con arte», si ferma intimidito di fronte ai panni che altro non sa definire se non «divini» e poi si incanta davanti al corpo di Cristo con splendida elencazione da anatomista pittore: muscoli, vene, «nervi sopra l’ossatura di quel corpo», «polsi e vene lavorate», «appiccature e congiunture delle braccia». Se ho citato la Pietà di Michelangelo a San Pietro e la descrizione che ne fa il Vasari è solo perché non sarà mai abbastanza sottolineata la magnifica qualità e soprattutto la straordinaria rivoluzionaria originalità della sua lingua.
Vasari è un tecnico che conosce a perfezione i termini dei saperi e dei mestieri artistici. Li usa con precisione implacabile, con eleganza, con duttilità, con sontuosa sagacia. Ma Vasari è molto di più. La sua lingua sa aderire all’opera oggetto della attenzione critica. È la prima volta che questo succede – almeno in modo così vasto, sistematico e consapevole – nella storiografia artistica. L’autore delle Vite sa che l’opera d’arte è per sua natura 'ineffabile'. Perché parli e il suo messaggio possa essere inteso è necessario che lo spettatore sia convenientemente attrezzato in termini di preventiva conoscenza tecnica e storica. Deve sapere chi è l’autore, quali i suoi maestri, quale il suo stile, come si colloca quella specifica opera nel suo percorso biografico e professionale. Deve anche sapere quali sono le specifiche tecniche dell’opera o delle opere proposte alla sua attenzione, quali difficoltà sono state superate, quali i risultati che il mestiere, l’invenzione, l’artificio hanno prodotto. Quale la quota di novità, di originalità, di 'progresso' che in quell’opera è rappresentata.
In questo senso le Vite sono un formidabile strumento di educazione visiva e di comprensione del fenomeno artistico per via analogica, grazie all’utilizzo cioè dello strumento della lingua. L’italiano letterario usato dal Vasari – mirabile impasto di tecnicismi e di stile 'alto', duttile, iridescente, percettivo – ha insegnato alle future generazioni di storici dell’arte che la parola può essere mimetica dell’arte figurativa, può significarla, evocarla, farla emergere nei suoi caratteri distintivi, nei suoi valori poetici. Un’altra cosa ci ha fatto capire il Vasari delle Vite ed è una cognizione fondamentale, vera e propria pietra angolare sulla quale riposa la ragione stessa dei nostri studi. Ci ha fatto capire che l’opera d’arte è squisitamente 'relativa'. Di più, che essa è un sistema di relazioni. Ogni artista è in relazione con chi l’ha preceduto e condiziona chi viene dopo di lui, ogni 'scuola' deve qualcosa ad altre scuole, ogni percorso stilistico è calato nella storia e quindi è il risultato di vicende biografiche, di viaggi, di committenze, di incontri. Per Giorgio Vasari il mondo delle arti è la storia che si fa figura e nella storia tutto si tiene, tutto è in relazione con tutto.
Su questa consapevolezza della 'relatività' di ogni opera e di ogni autore nel quadro generale della storia, Giorgio Vasari ha costruito il suo formidabile disegno fiorentinocentrico. Ogni artista vale per sé, è in relazione con gli altri, porta più o meno consapevolmente il suo contributo al progresso delle arti, ma un disegno provvidenziale governa il vasto fenomeno e il risultato fatale, in certo senso inevitabile, non può essere altri che Michelangelo.
Quanto questa visione 'teologica' della storia delle arti sia in contraddizione con il variegato mondo degli autori e delle scuole che l’autore delle Vite ci fa contemporaneamente scoprire, è di tutta evidenza. Su questa antinomia di fondo riposa l’immenso capolavoro delle Vite.