La “nuova evangelizzazione”: una sfida e una promessa, di Bruno Forte
Riprendiamo dall’agenzia Zenit del 18/6/2011, il testo della relazione pronunciata da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, il 14 giugno 2011, presso il Santuario della Madonna dei Miracoli, a Casalbordino (Chieti). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Catechesi e pastorale.
Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2011)
1. La sfida della crisi
L’istituzione del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (28 Giugno 2010) e la prossima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, chiamata a riflettere nell’ottobre 2012 su Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede cristiana, dicono quanto sia rilevante questo tema per Benedetto XVI. È stato lui stesso a renderne ragione nel discorso alla prima Assemblea Plenaria del nuovo Consiglio il 30 Maggio 2011, con parole tanto più incisive in quanto radicate nella sua storia personale di studioso e di pastore: “Quando lo scorso 28 giugno, ai Primi Vespri della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo annunciai di voler istituire un Dicastero per la promozione della nuova evangelizzazione, davo uno sbocco operativo alla riflessione che avevo condotto da lungo tempo sulla necessità di offrire una risposta particolare al momento di crisi della vita cristiana, che si sta verificando in tanti Paesi, soprattutto di antica tradizione cristiana”.
Il Papa mostra come all’origine della riflessione sull’urgenza di una nuova evangelizzazione sia la constatazione di una diffusa situazione di crisi, percepibile soprattutto nei Paesi di antica cristianità. In che consiste questa crisi? Quali ne sono le cause? Rispondere a queste domande è punto di partenza necessario per proporre un efficace progetto per la nuova evangelizzazione.
Nel “Motu proprio” Ubicumque et semper del 21 Settembre 2010, con il quale viene istituito il nuovo Pontificio Consiglio, lo stesso Benedetto XVI descrive così la crisi di cui parliamo: “Uno dei tratti singolari del nostro tempo è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo. Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo. Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli. Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo. E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr 1Pt 3,15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale”.
La crisi, nell’analisi del Papa teologo, ha dunque radici lontane: sul piano culturale si potrebbe individuarne l’origine in quel processo di autonomia del mondano, che ha inizio col “secolo dei Lumi” e si sviluppa nelle varie forme e stagioni dell’ideologia moderna del “regnum hominis” quale regola assoluta dell’agire. Un grande pensatore cristiano del Novecento, Romano Guardini, presenta così il processo indicato: “L’esigenza morale diviene sempre più una legislazione autonoma dell’uomo, mentre il richiamo del sentimento a Dio svanisce progressivamente e il bene, staccato dalla sua radice metafisica, perde la sua forza vincolante. Di qui la profonda crisi della coscienza morale del nostro tempo” (Etica, Morcelliana, Brescia 2001, 467s).
Si comprende allora come “dietro l’idea di autonomia ci sia una pretesa che non solo vuole fondare l’uomo in se stesso, ma attacca Dio. Ciò che essa afferma è che l’uomo, nel suo carattere etico, sia assoluto. Ma tale egli non è. Se ciò nonostante l’uomo mantiene la pretesa, ne deriva una solitudine interiore, là dove sensatamente si dovrebbe trovare una comunione, e appunto perciò uno sforzo eccessivo e spasmodico, che necessariamente nello sviluppo storico deve rovesciarsi nello scetticismo e nel nichilismo o nell’abbandono di sé in balia della violenza” (ib., 486).
È un’etica della solitudine quella che la pretesa assoluta della ragione moderna finisce col produrre: l’altro diventa uno “straniero morale”; il Trascendente è negato; l’io è solo. “L’uomo moderno ha perduto il punto di riferimento esistenziale; non è più in relazione con il Dio sovrano che è al di sopra del mondo. Il mondo ricade su se medesimo e aspira a essere l’Universo. Ora l’uomo non può tuttavia eliminare il dato di fatto su cui si fonda il suo essere, ossia il rapporto personale con Dio” (ib., 555).
Dell’uomo lasciato in balia di se stesso la volontà di potenza della ragione ideologica ha facile gioco: dove è persa la relazione col Trascendente è aperta la strada a ogni possibile manipolazione dell’uomo sull’uomo. Alla base della crisi della modernità - esplosa in piena evidenza nella parabola tragica dell’ideologia in tutte le sue espressioni, di destra come di sinistra - sta la perdita del senso della verità su Dio e sull’uomo davanti a Lui e conseguentemente l’oblio del valore infinito della persona e della sua libertà: “Una verità, vale a dire una validità assoluta della conoscenza che si attui in maniera giusta; un’esigenza morale, vale a dire un incondizionato legame della libertà: questi due valori, su cui si fonda semplicemente l’esistenza umana, non possono essere fondati se si parte dalla tesi dell’autonomia” (ib., 1022).
Per uscire dalla crisi non c’è per Guardini che una sola via, coincidente con quella più volte proposta da Benedetto XVI: aprire gli occhi di fronte alla verità, uscire nell’ipertrofia del soggetto. Bisogna guardare fuori di sé alla verità delle cose, misurarsi con la realtà dell’altro, sia prossimo e immediato, che trascendente e sovrano. Occorre riscoprire il primato del logos sull’ethos, dove con logos s’intende l’ultimo fondamento della realtà, che non richiede né fondazione, né riconoscimento per essere vero.
Papa Benedetto testimonia di continuo la fiducia nella forza unificante e liberante del logos, precisamente perché ne coglie le conseguenze decisive per il mondo uscito dalla crisi della modernità, alla ricerca di orizzonti affidabili in questa inquieta post-modernità. Se per l’ideologia moderna Dio risultava “mortuus, inutilis, otiosus” davanti alle pretese assolute dell’autonomia dell’uomo, uno sguardo alla realtà privo di pregiudizi ne mostra invece il valore fondante per ancorare la vita e la storia a una autentica riserva di senso.
Se le volgarizzazioni del positivismo scientifico e le realizzazioni storiche dei modelli ideologici davano per scontata la morte di Dio, e questa pretesa si affaccia nelle recenti proposte divulgative di un certo ateismo postulatorio (cf. Richard Dawkins, Christopher Hitchens, Michel Onfray, Piergiorgio Odifreddi), il ritorno alla realtà risveglia il bisogno dell’incontro liberante col Dio vivo. Ci si rende conto “del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose” (Ubicumque et semper).
Il volto propriamente “post-moderno” di questo processo di crisi si manifesta nel rifiuto di un qualsivoglia orizzonte ideologico, perché visto come totalitario e violento. La massificazione tipica delle ideologie spinge per reazione l’uomo post-moderno a vivere di frammenti: tempo della contaminazione (tutto è sporco, contaminato, nulla ha veramente valore) e della fruizione (tanto vale bruciare l’adesso, consumando il piacere possibile), il post-moderno si rivela tempo della frustrazione, stagione di un “lungo addio” da ogni certezza totalizzante (Gianni Vattimo).
Anche la proposta religiosa viene da molti equiparata a quella delle ideologie e ciò ne motiva un pregiudiziale rigetto. Occorre allora aver chiaro che il Dio cristiano non ha nulla della totalità onnicomprensiva e violenta della ragione ideologica: al contrario, è un Dio che ha scelto la debolezza e l’abbandono della Croce per manifestare al mondo la forza del Suo amore infinito.
Inoltre, se il rifiuto degli orizzonti totali spinge molti figli del post-moderno a chiudersi in se stessi in una sorta di riflusso nel privato, che produce una vera e propria “folla delle solitudini”, la proposta cristiana della carità va più che mai avanzata come buona novella contro la solitudine e via percorribile per creare ponti d’incontro e di solidarietà.
Nel cristianesimo il Tutto viene a offrirsi nell’umiltà del frammento, com’è avvenuto in modo esemplare una volta per sempre nel Figlio abbandonato alla morte di Croce e risorto alla vita. E poiché il “Tutto nel frammento” può considerarsi l’altro nome del “bello” - termine che viene da “bonicellum”, piccolo bene, infinito che si fa presente nel finito, eternità che entra nel tempo - il cristianesimo risulta significativo nel post-moderno proprio in quanto annuncio di una bellezza umile, eppure infinita e salvifica, quella del più bello dei figli degli uomini, il Dio crocifisso.
Le conseguenze etiche di questi processi sono evidenti: l’arcipelago prodotto dalla frammentazione tipica del post-moderno riduce l’altro a “straniero morale” da cui guardarsi. “Oggi - dice Benedetto XVI nel discorso del 30 maggio 2011- si assiste al dramma della frammentarietà che non consente più di avere un riferimento unificante”. Proprio questo favorisce una nuova enfasi dell’io, che si propone come metro di tutto.
Si delinea così la cosiddetta “modernità liquida”, più volte descritta dal sociologo e filosofo britannico di origini ebraico-polacche Zygmunt Bauman (Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002). Nel nostro tempo “modelli e configurazioni non sono più ‘dati’, e tanto meno ‘assiomatici’: ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione… Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il profondo mutamento che l’avvento della modernità fluida ha introdotto nella condizione umana” (XIII).
Mancando punti di riferimento certi, tutto appare giustificato o giustificabile in rapporto all’onda del momento. Gli stessi parametri etici che il “grande Codice” della Bibbia aveva affidato all’Occidente, sembrano diluiti, poco reperibili ed evidenti. Si parla di “relativismo”, di “nichilismo”, di “pensiero debole”. Questo volto fluido della post-modernità si manifesta in particolare nella volatilità delle informazioni offerte dal “web” e nella fragilità delle sicurezze promesse dall’”economia virtuale”, sempre più separata dall’economia reale. Crollata la maschera del massimo vantaggio al minimo rischio, restano le macerie di una situazione economico-finanziaria fluida su tutti i livelli. Trovare punti di riferimento, indicare linee guida affidabili è, la sfida titanica per governanti e amministratori. Come Benedetto XVI ha evidenziato nell’Enciclica Caritas in veritate, anche l’economia cerca salvezza bussando alle porte dell’etica!
2. In che senso “nuova” evangelizzazione?
Di fronte al mutato contesto culturale dell’Occidente e all’impatto che tutto questo ha sulla vita degli uomini, nasce la domanda su come si possa annunciare oggi credibilmente la buona novella di Gesù. Afferma Benedetto XVI nel discorso citato del 30 maggio 2011: “Il termine ‘nuova evangelizzazione’ richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana. Il Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e aprirla a un futuro di speranza affidabile e forte. Sottolineare che in questo momento della storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione, vuol dire intensificare l’azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore”.
Ciò che cambia, insomma, non è il Vangelo, ma il destinatario cui va annunciato: occorre aprirsi alle nuove sfide, apprendere nuovi linguaggi, tentare nuove forme di approccio. “La nuova evangelizzazione - afferma ancora il Papa - dovrà farsi carico di trovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza, senza del quale l’esistenza personale permane nella sua contraddittorietà e priva dell’essenziale. Anche in chi resta legato alle radici cristiane, ma vive il difficile rapporto con la modernità, è importante far comprendere che l’essere cristiano non è una specie di abito da vestire in privato o in particolari occasioni, ma è qualcosa di vivo e totalizzante, capace di assumere tutto ciò che di buono vi è nella modernità”.
Alla radice di questa novità di linguaggi e di approcci sta sempre però la novità dell’incontro col Cristo vissuto da chi crede: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Deus caritas est, 1).
In questo senso, l’aggettivo “nuova” posto innanzi al termine “evangelizzazione” va ben compreso: non si tratta di una semplice novità cronologica, quasi che quanto fatto finora è stato sbagliato o parziale, e ora inizi l’anno zero della proclamazione del Vangelo al mondo. Una simile lettura sarebbe fuorviante: dal passato ci vengono straordinari esempi di rinnovato slancio evangelizzatore in epoche di grande creatività pastorale e missionaria. Si pensi, per fare solo un esempio, all’opera delle missioni nell’età moderna, che ha conquistato al Vangelo interi popoli e diversissime culture.
Ciò che deve essere nuovo nello sforzo dell’evangelizzazione oggi richiesto si pone piuttosto sul piano qualitativo: per ricorrere alla terminologia del greco neotestamentario, in gioco è la novità del “kainós”, non quella del “neós”, la novità qualitativa ed escatologica, non quella meramente cronologica di ciò che accade adesso e prima non era accaduto. Non a caso Gesù chiama “kainé” il suo comandamento nuovo: “entolé kainé” (1 Gv 2,7s), per indicare che solo gli uomini nuovi, resi tali dal Figlio, possono vivere la novità dell’amore da Lui richiesto e darne testimonianza credibile.
In questa luce, l’evangelizzazione sarà “nuova” se nascerà da un impegno di profondo rinnovamento e riforma di tutta la Chiesa e di ciascuno dei protagonisti che la vivranno: il Papa afferma che “non si deve pensare che la grazia dell’evangelizzazione si sia estesa fino agli Apostoli e con loro quella sorgente di grazia si sia esaurita”.
Citando Sant’Agostino, osserva che “questa sorgente si palesa quando fluisce, non quando cessa di versare. E fu in tal modo che la grazia tramite gli Apostoli raggiunse anche altri, che vennero inviati ad annunciare il Vangelo… anzi, ha continuato a chiamare fino a questi ultimi giorni l’intero corpo del suo Figlio Unigenito, cioè la sua Chiesa diffusa su tutta la terra” (Sermo 239,1). Benedetto XVI conclude perciò affermando che “la grazia della missione ha sempre bisogno di nuovi evangelizzatori capaci di accoglierla, perché l’annuncio salvifico della Parola di Dio non venga mai meno, nelle mutevoli condizioni della storia” (discorso del 30 Maggio 2011).
È giustificato, allora, ricorrere a modelli del passato e pensare, ad esempio, che la “nuova evangelizzazione” possa stare al Concilio Vaticano II come il grande processo della “riforma cattolica” stette al Concilio di Trento: quello che lo Spirito ha detto alla Chiesa attraverso questi grandi eventi conciliari, va tradotto nella vita nuova dei battezzati, nel nuovo entusiasmo dell’incontro col Signore risorto, che la Chiesa rende sempre di nuovo possibile, e nello slancio a trasmettere agli altri credibilmente ciò che ha segnato e trasformato la nostra vita di discepoli di Gesù.
Anche in questa convinta chiamata alla “nuova evangelizzazione” si manifesta, allora, quella che sempre più si rivela come una caratteristica fondamentale di questo Pontificato: l’impegno per la riforma della Chiesa a partire dalla conversione dei cuori. Già da Cardinale Joseph Ratzinger non aveva nascosto la sua sofferenza davanti a ciò che aveva definito la “sporcizia” nella Chiesa. I Suoi interventi da Papa hanno affrontato con fermezza e veracità la sfida della purificazione della comunità ecclesiale. Nessuno come Benedetto XVI ha parlato con tanto coraggio della pedofilia, una piaga atroce che tocca l’intera società e purtroppo anche alcuni uomini di Chiesa. Gli attacchi che ne sono conseguiti contro di Lui sono facilmente spiegabili: questo Papa che ama la verità, la dice senza giri di parole. E questo, in una “società liquida” come la nostra, senza appigli né certezze, appare a molti come una sfida che dà fastidio.
Per chi ama la Chiesa, per chi nella Chiesa ha trovato il dono della fede, questi attacchi non fanno paura. Gesù li ha preannunciati ai suoi ed ha assicurato: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Chi crede nella forza della verità sa che prima o poi essa vincerà sul pregiudizio e sulla menzogna. È su questa convinzione che Benedetto XVI chiama tutta la Chiesa a camminare fiduciosa “fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, come ripeteva Agostino (De civitate Dei 18, 51, 2).
Certo, dalla ferita del male non ci si libera con un banale colpo di spugna o peggio ancora chiudendo gli occhi: il rinnovamento della vita ecclesiale - scriveva il giovane Professore, oggi Papa - “non consiste in una quantità di esercizi e istituzioni esteriori, ma nell’appartenere unicamente e interamente alla fraternità di Gesù Cristo… Rinnovamento è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplici, del rivolgersi a quella vera semplicità… che in fondo è un’eco della semplicità del Dio uno. Diventare semplici in questo senso - questo sarebbe il vero rinnovamento per noi cristiani, per ciascuno di noi e per la Chiesa intera” (Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 301. 303).
L’autentica riforma passa attraverso l’amore, e questo vuol dire farsi carico delle colpe, fare penitenza e camminare speditamente sulla via della conversione, volere la giustizia, anche umana, e la giusta riparazione, stando accanto alle vittime senza alcuna ipocrisia: ispirato dal primato della carità e dei bisogni reali, chi intende operare per il rinnovamento della vita ecclesiale, dovrà tornare all’amore, con la pazienza di rispettare anche i cammini più lenti, nella docilità e nella decisa obbedienza allo Spirito. È la via cui Benedetto XVI sta chiamando la Chiesa intera, a tutti i livelli. Proprio così questo Papa si rivela un “riformatore”: e la riforma che persegue è quella profonda della “metànoia” evangelica, la sola capace di riportare la Chiesa alla sua bellezza originaria e di farla risplendere così come segno levato fra i popoli...
3. Alcune scelte pastorali al servizio della “nuova evangelizzazione”
Come vivere dunque l’annuncio della buona novella rendendo ragione della nostra fede in situazioni così differenti da quelle del passato cosiddetto “di cristianità”? “La crisi che si sperimenta - diceva ancora Benedetto XVI alla recente Plenaria del Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione - porta con sé i tratti dell’esclusione di Dio dalla vita delle persone, di una generalizzata indifferenza nei confronti della stessa fede cristiana, fino al tentativo di marginalizzarla dalla vita pubblica… Oggi si verifica spesso il fenomeno di persone che desiderano appartenere alla Chiesa, ma sono fortemente plasmate da una visione della vita in contrasto con la fede”.
Occorre, perciò, procedere su due direttrici, entrambe necessarie e urgenti. La prima è il rinnovamento della pastorale ordinaria, teso a cogliere tutte le occasioni per far risuonare la freschezza della buona novella; la seconda è costituita da nuove proposte e iniziative di evangelizzazione da mettere in atto con creatività e audacia.
Su entrambi i fronti, quello che sarà necessario è mostrare credibilmente agli uomini la bellezza di Cristo: se è vero che la Chiesa, “dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr At 2,14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso ‘ieri, oggi e sempre’ (Eb 13,8)” (Ubicumque et semper), non è meno vero che di fronte alla crisi della totalità moderna e al trionfo della frammentazione post-moderna è più che mai urgente proporre agli uomini del nostro tempo quel “Tutto nel frammento”, che è appunto la bellezza che salva, il Vangelo del Pastore buono e bello, Gesù (cf. Gv 10,11).
La grande tradizione cristiana ci insegna come una tale bellezza si sperimenti in modo specialissimo nella preghiera di adorazione, nell’ascolto credente della Parola di Dio, nella liturgia ben celebrata, nella comunione e nel servizio della carità. Sono queste le vie - tradizionali e insieme da vivere con sempre nuova novità di cuore - in cui la bellezza di Cristo ci raggiunge e ci cambia, rendendoci capaci di annunciare credibilmente ad altri questa stessa bellezza.
“Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia - ha detto Joseph Ratzinger qualche settimana prima di diventare Papa - sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta dell’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini” (Subiaco, 1 Aprile 2005).
La testimonianza di uomini così ha espresso nella storia e potrà esprimere ancora oggi tante e diverse forme di bellezza, dall’arte figurativa e plastica alla musica, alla poesia, alla letteratura, all’architettura, tutti canali possibili della bellezza cha apre a Dio: una bellezza che deve essere per tutti, perché nessuno va escluso dal dono e in particolare i poveri hanno diritto alla bellezza.
Un primo campo in cui annunciare oggi la bellezza del Dio di Gesù Cristo è dunque quello della pastorale ordinaria: se la scelta di celebrare con i sacramenti le tappe fondamentali della vita è ancora abbastanza diffusa fra noi, questo potenziale va valorizzato per far risuonare sempre l’annuncio centrale della fede, il “kérygma” pasquale del Cristo morto e risorto.
A tal fine occorre curare con grande attenzione sia la catechesi dell’iniziazione cristiana, che quella degli adulti, come pure la predicazione - ancora troppo spesso poco preparata e prolissa - e le occasioni di grazia delle feste e dei pellegrinaggi, la celebrazione dei sacramenti e la proclamazione e meditazione della Parola di Dio (“lectio divina”, esercizi spirituali per tutti, ecc.).
Una particolare occasione di nuova evangelizzazione è rappresentata dai corsi di preparazione al matrimonio, che raggiungono coppie, di cui non poche da tempo lontane dall’effettiva pratica dei sacramenti e diverse già conviventi. Parimenti, l’accompagnamento delle famiglie, specialmente giovani, risulta essere un effettivo esercizio di evangelizzazione permanente.
Lo stesso insegnamento della religione cattolica nelle scuole - benché abbia una finalità anzitutto culturale e informativa - può costituire un prezioso veicolo di evangelizzazione se passerà attraverso la testimonianza eloquente della vita e dell’impegno dei docenti. Per tutte queste vie, unite alla quotidiana testimonianza della vita specialmente dei genitori e in generale degli educatori, Cristo apparirà alle donne e agli uomini di oggi, e specialmente ai giovani, non solo come la verità, che in persona egli è, non solo come il bene, che è e di cui ci rende capaci, ma anche come la bellezza che salva, il Tutto dell’amore eterno che si dona nei frammenti dell’esistenza toccata e redenta dalla grazia.
Ci sono, poi, da valorizzare le nuove occasioni e i nuovi strumenti dell’evangelizzazione. Fra le prime vorrei citare alcune delle esperienze vissute in questi anni nella nostra vita diocesana: le “quaestiones quodlibetales”, incontri pubblici promossi dall’Arcidiocesi in collaborazione col Rettorato dell’Università per discutere questioni etiche, teologiche e filosofiche di fondo, mettendo sempre a confronto la posizione della Chiesa con quella di interlocutori aperti al dialogo e alla ricerca.
I “laboratori della fede” prima, e i “dialoghi con il Vescovo” poi, sono stati luoghi concreti e significativi di evangelizzazione dei giovani: nel primo caso presentando figure bibliche nella concreta storia di fede e di amore a Dio e al prossimo da esse vissuta; nel secondo caso dibattendo temi cruciali per i ragazzi (dall’amicizia con gli altri all’incontro con Cristo, dalla giustizia all’amore, dall’educazione alla pace alla speranza…).
Un certo impatto mi sembra abbiano avuto gli incontri che ho tenuti nelle scuole superiori a tappeto: le domande dei giovani non sono state mai banali; il loro ascolto attento e profondo. L’esperienza dell’evangelizzazione di strada, poi, si sta rivelando come una via preziosa a raggiungere tanti con la freschezza del primo annuncio: vi giocano un ruolo fondamentale la preparazione orante, l’accompagnamento che alcuni fanno con l’adorazione all’azione missionaria di quelli che, a due a due, annunciano ai passanti il Vangelo, invitandoli a un’esperienza di preghiera comunitaria.
Una via privilegiata di “nuova evangelizzazione” è, infine, rappresentata dalle opere segno della Caritas diocesana, che manifestano il volto concreto di una Chiesa accogliente, pronta a servire e sostenere i più deboli e bisognosi.
Una speciale iniziativa di “nuova evangelizzazione” è quella della missione popolare parrocchiale, che vado proponendo alle varie Parrocchie come frutto della visita pastorale. Ciò di cui c’è bisogno oggi mi sembra sono missioni popolari animate dalla stessa comunità parrocchiale, per una conversione progressiva anzitutto degli stessi protagonisti della missione e l’annuncio della salvezza a quanti è possibile raggiungere attraverso il dialogo, l’evangelizzazione e la promozione umana. La missione popolare in una Parrocchia consiste nell’annuncio straordinario della Parola di Dio, messo in atto dalla comunità intera sotto la responsabilità e la guida del Parroco, coadiuvato dal Consiglio pastorale. Lo scopo è che nella potenza dello Spirito Santo e nella comunione piena con il Vescovo e con tutta la Chiesa la buona novella di Gesù raggiunga ogni cuore e lo chiami alla conversione in modo da rifondare, rinnovare e far crescere la comunità cristiana.
Pur non presentando speciali novità nel contesto della vita sacramentaria e nell’esercizio della carità, la missione popolare mette in movimento un insieme di energie naturali e soprannaturali che nella pastorale ordinaria difficilmente si sprigionano. L’intera Comunità parrocchiale ne deve essere protagonista per assumere nuova consapevolezza della propria fede e vivere un cammino rinnovato di comunione e di missione. I “missionari” (catechisti, operatori pastorali, persone consacrate, membri dell’Azione Cattolica e delle varie Aggregazioni Ecclesiali, “frequentanti”, ecc.) – sono convocati e formati a portare a tappeto nella case il Vangelo, accompagnandone il dono con un breve annuncio kérygmatico e l’invito a momenti di approfondimento e a esperienze di preghiera e di condivisione in Parrocchia.
Per offrire agli operatori delle basi “teologiche” minime, sarà opportuno strutturare un programma formativo diocesano, curato dall’Ufficio Catechistico per Zone o gruppi di Zone pastorali. Il contenuto da trasmettere è l’incontro con Gesù Cristo, il rapporto con la Parola di Dio, l’esperienza dell’atto di fede, della partecipazione ai sacramenti e della carità vissuta (uno strumento valido di cui servirsi è la Lettera ai cercatori di Dio, pubblicata dai Vescovi Italiani nel 2009, da usare nella proposta e nell’accompagnamento di cammini di apertura alla fede).
Su queste esperienze e su altre già in atto o da realizzarsi tutti dobbiamo sentirci chiamati a coinvolgerci. Come dice ancora Papa Benedetto XVI nel suo discorso del 30 Maggio 2011, “annunciare Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, oggi appare più complesso che nel passato; ma il nostro compito permane identico come agli albori della nostra storia. La missione non è mutata, così come non devono mutare l’entusiasmo e il coraggio che mossero gli Apostoli e i primi discepoli. Lo Spirito Santo che li spinse ad aprire le porte del cenacolo, costituendoli evangelizzatori (cfr At 2,1-4), è lo stesso Spirito che muove oggi la Chiesa per un rinnovato annuncio di speranza agli uomini del nostro tempo”. Non siamo soli, insomma: ci accompagna il grande evangelizzatore, lo Spirito di Gesù, e la Chiesa tutta comunità evangelizzante. Ci sostiene Gesù, vivo e presente fra noi. Guida i nostri passi lo sguardo del Padre, meta ultima di bellezza e di pace dell’umanità riconciliata nel Suo amore.