La felicità? È il test di prova delle democrazie (Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky faccia a faccia), di Carlo Cardia
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Riprendiamo da Avvenire del 10/6/2011 un articolo scritto da Carlo Cardia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (10/6/2011)
Il titolo del libro-dialogo tra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (La felicità della democrazia. Un dialogo) da poco edito da Laterza non deve trarre in inganno. Gli autori non pensano che la democrazia dispensi felicità, anzi a volte sono pessimisti. Per Zagrebelsky il nostro è un tempo «in cui tante acquisizioni civili del passato sembrano vacillare o addirittura rovesciare nel loro contrario» (p. 33). Lo dimostrano il mondo del lavoro dove rischia di affermarsi il principio di «retribuzione in cambio di diritti» (p. 26), e l’ergersi sui cittadini, per dirla con Tocqueville, di «un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte».
L’immagine «non è molto diversa dalla vivida impressione (…) della società 'ugualizzata' che si deve essere impressa nella mente di Dostoevskij quando, nel 1862 (…), a Kensington, visitava il Palazzo dell’esposizione universale» (p. 223). Certamente i pericoli esistono, ma la memoria dell’Ottocento è fuorviante, se si pensa a cos’era allora la democrazia: una polis per pochi, dove si lottava perché i bambini lavorassero meno di 12 ore al giorno, gli anziani potessero sperare in una misera pensione. Il cammino compiuto dà qualche ottimismo.
Il discorso sulla democrazia si fa stretto quando affronta il rapporto con la religione e le chiese. C’è asimmetria nell’approccio alle culture e tradizioni proprie dell’immigrazione, poi alle nostre chiese. L’apertura alle prime è ampio: «garantire tutto a tutti senza imporre nulla a nessuno, fino a quando non si incontra il limite della violenza».
Per la chiesa cattolica, invece, solo barriere, confini rigidi, quasi un’incomunicabilità, perché non si è evoluta, ritiene di avere la verità necessaria alla salvezza, vuole sostenere la compagine sociale mentre la religione di Gesù è «la religione della libertà delle coscienze, non dell’ordine costituito» (p. 132). Poiché «dal tempo di Costantino e Teodosio la Chiesa (ha) offerto le sue prestazioni (…), per il dominio delle società, significa solo che da molto tempo la 'buona novella' è stata corrotta» (p. 132).
Per questo peccato d’origine essa non può parlare nella 'piazza pubblica' con le sue istituzioni e i vescovi, altrimenti rischia l’ingerenza. La sola presenza consentita è ai singoli credenti, «purché sia una presenza di cittadini cattolici – diremmo di cattolici adulti disposti al confronto con le ragioni degli altri e a trovare (…) i possibili punti di convergenza primo fra tutti (il) 'permittere' di cui abbiamo detto sopra» (p. 152).
Quando Mauro osserva che molti cittadini seguono la Chiesa «in perfetta libertà, perché sono osservanti e liberamente accettano l’autorità della Chiesa», Zagrebelsky risponde: «Davvero dicono così? Non ci posso credere!» (p. 152) Inoltre, non deve esserci rapporto tra principi etici religiosi e legge dello Stato. Mauro resiste ancora: «ma neanche se questo rapporto è semplice e spontaneo?».
La risposta è negativa, e chi legge non può non pensare alla larga corrispondenza esistente da secoli tra il Decalogo e la legislazione degli Stati. Infine, Zagrebelsky è contrario all’obiezione di coscienza in materie eticamente sensibili, perché ha «simpatia a chi si ribella alla legge», ma assai di meno «per la cosiddetta obiezione di coscienza legalizzata» (p. 143).
Dimenticando che la testimonianza dell’obiettore chiede sempre il riconoscimento civile, come è avvenuto per l’obiezione al servizio militare. Il punto essenziale, però, riguarda il tipo di democrazia che avremmo se le Chiese, le loro istituzioni, la coscienza religiosa, dovessero tacere. Sarebbe una democrazia limitata, lontana dai sui ideali originari e dai bisogni della gente.