Lumi al supermercato delle fedi. Charles Taylor a colloquio con Christian Schlüter
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Riprendiamo da Avvenire del 5/6/2011 un’intervista di Christian Schlüter a Charles Taylor. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (6/6/2011)
Charles Taylor è nato a Montreal nel 1931. Professore di diritto e filosofia alla Northwestern University di Evanston (Illinois), ha insegnato anche alla McGill University (1961-76) di Montreal, all’università di Oxford (1976-81) e, dal 1982, di nuovo alla McGill University. Pur appartenendo alla tradizione analitica, è stato particolarmente influenzato dalla filosofia hegeliana (alla quale ha dedicato l’importante monografia Hegel e la società moderna , 1984) e dalla filosofia ermeneutica contemporanea. Segnalatosi nei primi anni Sessanta con alcuni studi dove criticava le teorie comportamentistiche e, in generale, gli approcci esplicativi e meccanicistici all’azione umana, proponendo in loro vece un approccio di tipo teleologico, ha successivamente approfondito le sue ricerche nella direzione di una filosofia volta a sottolineare il ruolo costitutivo del linguaggio e dei contesti storico-culturali nella comprensione dell’agire umano. Vita e Pensiero ha pubblicato il suo saggio Etica e umanità e Feltrinelli il monumentale studio L’età secolare.
Il pensatore canadese Charles Taylor ha partecipato nei mesi scorsi a un dibattito col cardinale Christoph Schönborn (foto a fianco), arcivescovo di Vienna, sui temi della fede. Nel prossimo numero della rivista «La civiltà cattolica», padre Giandomenico Mucci dà conto di quanto emerso durante la discussione e mette in evidenza i punti di contatto nel pensiero dei due interlocutori e le divergenze nell’interpretazione degli effetti del secolarismo sulla Chiesa. [...]
Professor Taylor, non è sorprendente che dopo più di duecento anni di illuminismo Dio non sia ancora morto?
«No, non lo è per niente. La sorpresa alla quale lei si riferisce risale a una concezione fin troppo semplice di illuminismo. Consiste nel collegare il concetto di illuminismo ad una semplice storia di successo, nella quale la ragione ha continuato ad espandersi, le scienze naturali hanno soppiantato qualsiasi fattore religioso e le Chiese hanno perso il loro potere temporale. Oggi, così prosegue questo racconto, viviamo nel migliore dei mondi, Stato e Chiesa sono separati e la religione è solo un fatto privato, una situazione emotiva intima».
Dobbiamo ammettere che questa idea sembra alquanto semplice: non pare cattiva e soprattutto lusinga straordinariamente un europeo 'illuminato'...
«All’avanzare della ragione, se vuole alla crescita del suo potere temporale, è stata sempre collegata anche la sua declinazione verso una razionalità strumentale puramente calcolatrice, che reifica la vita umana. La ragione ha effetti disciplinanti e può anche restringersi in modo scientista; non è morale di per sé. Dispone di enormi forze distruttrici e nella sua pretesa di imporsi può essere totalitaria. La teoria critica ha descritto tutto ciò come 'dialettica dell’illuminismo': in ogni conquista, in ogni progresso è insita una tendenza contraria».
Il fatto che Dio non sia ancora morto è dovuto allora al fallimento della ragione?
«A mio parere la ragione non ha assolutamente fallito. Io vorrei solo giungere a un altro concetto della storia. Le faccio un esempio: per il sociologo Max Weber quella ragione è nata dalle religioni monoteiste, laddove ne doveva contendere il ruolo. L’ironia sta nel fatto che dalla stessa religione sarebbe nata un’istanza destinata a metterla in dubbio, a limitarla, e che per contro anche l’origine della ragione e dell’illuminismo è da ricercarsi nelle religioni. Un altro punto, per me molto più interessante, è invece che questo esempio ci riporta davanti agli occhi le tendenze contrarie della storia. Quanto più attentamente guardiamo, tanto maggiore è la moltitudine, la miscela di tendenze concorrenti e confluenti, prive di un obiettivo predestinato. La storia non è teologica, ma contingente».
Ma la secolarizzazione, ossia la presa del potere da parte dello Stato e l’esautorazione della Chiesa, di fatto ha avuto luogo.
«Sì, anche se il fenomeno che noi chiamiamo secolarizzazione non dovrebbe essere inteso come una situazione valida per sempre, ma come un avvenimento, il cui esito non è assolutamente certo. Le faccio un altro esempio: la Chiesa cattolica a metà del XV secolo ha assolutamente sottostimato l’invenzione della stampa, in un certo senso ha perso il collegamento tecnico-mediatico e in questo modo ha reso possibile la Riforma di Martin Lutero. Un’altra versione di questa storia afferma che la stampa e una cultura più diffusa non hanno solo incentivato l’illuminismo, ma hanno dato vita ad altre forme di pratica religiosa. Il rito (cattolico) ha perso di importanza, anche in pubblico, e per contro è stato sostituito dal dialogo personale con Dio, dalla lettura della Bibbia in prima persona, non più guidata da un sacerdote. Possiamo descrivere questo fenomeno come una privatizzazione della fede e quindi come la perdita della sua validità pubblica o come un proseguimento della religione in condizioni mediatiche diverse, una trasformazione della fede, che dura ancora oggi».
Nel suo libro L’età secolare lei distingue tra le forme di secolarizzazione. In questo modo si dovrebbe fare un po’ di ordine in questa confusione.
«Certo. C’è dapprima la secolarizzazione nel senso di una separazione fra Stato e Chiesa, una divisione dei poteri nell’ambito della quale scema l’importanza pubblica delle religioni. Secondo questa concezione le Chiese vengono controllate dallo Stato, quindi respinte entro determinati limiti, a volta addirittura anche vietate. Poi possiamo intendere la secolarizzazione come la scomparsa delle convinzioni e dei legami religiosi, che si manifestano tra l’altro in una frequenza sempre minore alla celebrazione della messa o nel minor numero di matrimoni religiosi. Infine la secolarizzazione può significare ancora che nelle società moderne, proprio per il loro elevato livello di differenziazione, domina una molteplicità di offerte di fede, che pur essendo ammesse nel senso della libertà di religione e all’interno dei confini giuridici di uno Stato, si svalutano reciprocamente. Questa terza forma mi sembra oggi la più interessante».
Differenziazione e pluralismo possono portare quindi a una specie di indifferenza nelle questioni di fede. Questo tuttavia non significa che gli uomini credano meno, credono solo in modo diverso. Nel supermercato delle religioni ognuno si crea una versione propria. È così?
«Io definisco questo fenomeno come un pluralismo esistenziale. Il nostro tempo attinge a una molteplicità di sorgenti; noi riusciamo a vivere bene addirittura con opzioni valoriali incompatibili fra loro: un po’ di cattolicesimo qui, un po’ di buddismo e di confucianesimo lì. Mentre nella società occidentale ancora nel ’500 era quasi impossibile non credere in Dio, oggi le nostre società secolarizzate si contraddistinguono per un pluralismo all’interno del quale la fede in Dio non è più cosa ovvia, lasciandoci al contempo una scelta più o meno libera. Noi possiamo decidere di non credere in Dio, una posizione valida al pari delle altre».
Dall’altro lato esiste però un gran bisogno di purezza, di vera fede, con tutte le conseguenze fatali, anche violente.
«Lei si riferisce al fondamentalismo religioso. Tuttavia per me questo non ha nulla a che fare con la fede vera e autentica, e non perché credo di sapere in che cosa essa consista, ma perché attributi come 'vero' o 'autentico' servono solo a mascherare il fatto che abbiamo sempre a che fare con una miscela religiosa dovuta a una molteplicità di origini, interessi strategici o ideologici. Dovremmo sempre diffidare dei comandamenti di purezza politici e religiosi. Inoltre vorrei ricordare che la fede non comprende solo l’obbedienza, ma anche il dubbio. E alla fede possono essere collegate anche cose inaccettabili, addirittura delle vittime. Ogni fede, ogni religione nasconde un potenziale di violenza non esiguo».
La questione del potenziale di violenza è decisiva. La sua versione del pluralismo religioso mi sembra alquanto minimizzante.
«No, storia e presente non sono privi di violenza. Affermarlo sarebbe assurdo. Le società plurali sono piene di conflitti, un terreno ideale per liti e lotte. Da un lato perché grazie alla grande offerta di senso domina una concorrenza proporzionalmente elevata, a volte dura, ma anche perché nelle società plurali esiste una certa apertura o permeabilità delle quali gli altri possono abusare. Essere controverse e soggette ad abusi è proprio una caratteristica tipica delle società plurali. Questo è il prezzo della nostra libertà».
Per quel che riguarda le religioni, in tutta Europa si discute del velo delle donne musulmane, se vietarlo o meno.
«Sì, questa discussione c’è anche in Canada. Nella mia attività di consulenza per il governo del Québec mi sono occupato anche di risolvere il quesito se il velo fosse da intendere come l’esposizione di simboli religiosi in pubblico o come un costume semplicemente da tollerare. Si trattava quindi di individuare quali fossero i diritti legittimi per le minoranze in una società multiculturale. Io sono a favore del non vietare il velo, perché tali divieti portano comunque ad un irrigidimento dei fronti. In questo modo spingiamo le persone nei loro ghetti. Inoltre non possiamo modificare la realtà, ovvero il fatto che presso di noi vivono persone di fede diversa, a meno che non siamo pronti a pagare un prezzo elevatissimo, quello della limitazione degli elementari diritti di libertà. Infine disponiamo delle leggi che ci consentono di punire in modo opportuno le violazioni contro la dignità umana, sia in nome di una religione, sia di una dottrina politica».
Da noi ci sono critici dell’islam che temono una sua strisciante infiltrazione nella cultura democratica.
«Ci sono anche in Canada. Ma sorprendente è soprattutto il fatto che in questo lamento continuano a ricadere i rappresentanti della società liberale. Si è aperti a tutto, ma non appena il discorso si sposta sui musulmani che vivono a casa nostra, il divertimento finisce: le persone di fede islamica sono indottrinate, hanno un rapporto precario con la violenza, sottomettono le donne e per il resto fanno solo finta di adattarsi alla nostra cultura. In altre parole abbiamo sempre molti motivi, più o meno buoni, per non occuparci più approfonditamente dei musulmani, invece di riflettere su cosa potremmo imparare da loro. E siamo scossi quando i musulmani si pongono di fronte a noi sicuri di sé».
Come spiega questo atteggiamento di difesa?
«Io credo che abbia a che fare con la concezione piuttosto semplice di illuminismo e secolarizzazione della quale abbiamo parlato all’inizio. Chi vuole intendere l’illuminismo come la storia di vittorie e vincitori della propria cultura, non può capire perché gli uomini continuano a credere in Dio e ancor meno perché essi credono in un Dio diverso. Se a noi occidentali sta a cuore la nostra cultura, un po’ di curiosità non ci farebbe male. E anche un po’ più di voglia di confrontarci. Nessuno dice che tutto ciò sia semplice, ma ne trarremmo tutti beneficio. È un grande spreco non approfittare del potenziale degli immigrati!».
Lei non ha paura di un’infiltrazione?
«No, fintanto che le regole sono chiare. Per un’integrazione riuscita, oltre a una sana curiosità e a una voglia di confronto, c’è bisogno di altre due cose: gli immigrati devono imparare la lingua del Paese in cui vivono, e in questo senso dovrebbero prendere confidenza anche con la cultura locale. Per il resto, per loro valgono le stesse regole che valgono per gli altri, ovvero le leggi. Si può anche dire che senza un minimo di cultura che faccia guida, il tutto non funziona. Dovremmo guardarci dal volere imporre regolamentazioni eccessive. Di nuovo: lingua e legge; non c’è bisogno di altro».
È sorprendente che lei, da cattolico praticante, la veda così semplice.
«Dice? Io non ho mai inteso il cattolicesimo come una sorta di fortezza. La mia fede ha più a che fare con un incontrarsi di uomini, con un senso di comunità: Dio è là dove gli uomini si incontrano. A tale scopo è necessaria sempre anche la controversia».
Mi sembra che la sua fede sia come il substrato che alimenta il suo concetto di società pluralistica.
«Sì, si può dire così. Ma la fede non aiuta da sola, dobbiamo poterci fidare dei nostri argomenti, se essi sono ragionevoli e solidi».
Ragione e fede possono andare d’accordo?
«Come ho già detto, alla fede appartiene anche il dubbio, che è sempre una sfida. Fede e ragione non sempre giungono a una sintesi. La fede è come un’antistruttura nel sistema della ragione».
Una sorta di esercizio di scioglimento?
[ride] «Se la vede così. Io preferisco il concetto di meditazione cristiana, nella quale si tratta di raggiungere uno stato di pace e tranquillità. Quasi di vuoto».
Adesso sono veramente meravigliato. Esistono per lei altre possibilità di meditazione o, se mi concede il termine, di rilassamento?
«Oh certo, le trovo soprattutto nella musica. I quartetti d’archi di Beethoven sono semplicemente meravigliosi».
© «Frankfurter Rundschau per la Germania e «Avvenire» per l’Italia