La Confraternita dei Catecumeni e Neofiti dalle origini alla Rivoluzione francese. S. Maria ai Monti: Chiesa ed ebraismo a Roma, di Federico Corrubolo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /05 /2011 - 18:14 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione la trascrizione di una relazione tenuta nella primavera del 2009 da don Federico Corrubolo, allora parroco della parrocchia di S. Maria ai Monti, per un gruppo di catechisti romani. Il testo conserva i tratti di un intervento pronunciato a voce e, conseguentemente, non completo e non pienamente sistematico. Nonostante questo, lo mettiamo lo stesso a disposizione come traccia utile per ulteriori approfondimenti e ricerche.

Il Centro culturale Gli scritti (12/5/2011)

 

Questa esposizione riguarda in realtà una parte soltanto della storia della Confraternita dei catecumeni e neofiti, quella per la quale sono riuscito a trovare delle fonti significative. Partendo dalle origini ci fermeremo grosso modo alla Rivoluzione francese, non solo per i motivi tecnici che vi ho esposto, ma anche perché nell’ ‘800 e nel ‘900, di fatto, una vera e propria Confraternita non esiste più. Anche l’ecclesiologia, la concezione della catechesi e la stessa mentalità, non solo della Chiesa, dopo la Rivoluzione francese cambia profondamente. In realtà l’attività del battesimo per i non cristiani continua, anche se in forme diverse, in nuove forme istituzionali.

Si può indicare il 1962 come l’anno della conclusione dell’esperienza del catecumenato in questo luogo. E’ l’anno in cui l’archivio della Congregazione dei catecumeni viene versato nell’Archivio Storico del Vicariato di Roma. Questo archivio è importante, comprende 140 buste (raccoglitori) e comprende moltissimi documenti, in massima parte amministrativi, giuridici e contabili. Abbiamo quindi poco materiale sugli aspetti che invece più desidereremmo conoscere, che sono le lezioni, i libri, gli insegnanti e anche gli alunni. Per certi versi questo rende abbastanza difficoltoso ricostruire la storia del catecumenato a Roma nell’età moderna: tuttavia possediamo anche delle fonti di primo piano assolutamente importanti.

a) prima fase: le origini fino al pontificato di Gregorio XIII (1542-1577)

Una prima tappa da tenere presente è quella che va dall’origine della Confraternita dei catecumeni e neofiti (1542), fino alla fine degli anni 70 del ‘500, proprio sotto il pontificato di Gregorio XIII. La Confraternita nasce per un’intuizione di S. Ignazio di Loyola, il quale già a casa sua, qui a Roma (dove arriva nel 1538), riceve alcuni ebrei, predica loro il vangelo e li battezza. La Confraternita nasce formalmente nel 1542 su indicazione di S. Ignazio e con la sua assistenza; la presidenza viene affidata ad un parroco romano, don Giovanni da Torano (o Forano, dalle fonti non si capisce bene), parroco di una chiesa oggi sparita, S. Giovanni in Mercatello (si trovava più o meno dove oggi è la scalinata dell’Aracoeli). In quest’epoca la Confraternita inizia la sua missione in maniera molto artigianale, ma con buon successo, se le fonti ci parlano addirittura di qualche centinaio di catecumeni alloggiati in una casa privata della chiesa di S. Giovanni in Mercatello, di proprietà di Giovanni da Torano.

Di quest’epoca ci è rimasto solo un documento, però fondamentale, il registro dei battesimi. Sembrerebbe una cosa ovvia, ma non lo è affatto, perché il registro dei battesimi diventa obbligatorio solo dopo il Concilio di Trento, dopo il 1565 e questa normativa si applica con molta lentezza. Conosco un po’ meglio la storia della Repubblica di Venezia e so che lì i primi libri di battesimo regolari, cioè che iniziano una serie, risalgono al 1608-1609, quindi ci vogliono circa quarant’anni perché una disposizione del Concilio di Trento venga applicata. Siamo molto fortunati con questo registro perché è il primo, ci è giunto in originale ed è conservato nell’archivio storico del Vicariato[1]. Ne esiste una edizione fatta in una tesi di vent’anni fa.

Si capisce subito che non è un registro come gli altri, perché c’è scritto: Battesimi diversi dei Iudei venuti alla fede. Questo è un primo punto essenziale da ricordarci: motivo della nascita della Confraternita è principalmente il battesimo degli ebrei, e poi degli altri non cristiani. Il primo annuncio della fede e la prima attività di evangelizzazione viene rivolta agli ebrei. C’è un motivo storico: S. Ignazio viene dalla Spagna, sapete che la Spagna, la Francia, l’Inghilterra e le altre nazioni europee, nei confronti delle comunità ebraiche hanno fatto la scelta di procedere all’espulsione, alla cacciata degli ebrei. L’Inghilterra alla fine del ‘200, la Francia alla fine del ‘300 e la Spagna nel 1492. Questo ha provocato diverse ondate di immigrazione che si sono riversate soprattutto in Italia e in Germania, che sono due Stati non unitari, in cui ogni città, ogni Comune, ogni Stato si regola come vuole. Diversi di loro sono venuti anche a Roma, dove una comunità ebraica esisteva fin dall’antichità. Gli ebrei in questo periodo vivono a Trastevere, ed hanno una relazione molto libera con la città, si possono muovere liberamente e liberamente possono esercitare il commercio, per quanto sappiamo dalle fonti, che va detto sono poche.

Il primo registro della Confraternita inizia dal 1542 proprio l’anno della fondazione. Si tratta di un registro molto diverso da quelli ai quali siamo abituati. Non riporta solamente il nome e l’età del battezzato, riporta alcune notizie, a volte nemmeno complete, che però tutte insieme formano un quadro abbastanza preciso della situazione degli ebrei che venivano alla fede cattolica. Tra il 1542 e il 1563, i primi ventuno anni di attività sono registrati 141 battesimi. Le notizie sono scritte in una lingua a volte molto difficile da capire, con qualche coloritura napoletana, il che è molto interessante, perché sappiamo che il dialetto romanesco a quell’epoca aveva un tono decisamente “meridionale”. Solamente dopo la fine del ‘500 comincia a prendere quella forma che tutti oggi conosciamo.

Ecco qualcuno di questi atti di battesimo:

Addì 13 de luglio 1543, ai 14 de octobro fo baptizato Amadio de Arimino, iudeo, et le fo imposto nome Ioanne Baptista. Subito che fo baptizato andò ad Arimini dove stanno lo patri et la matre judei si domandano lo patri Tobia, e la matre Sarra. [2]

Qui abbiamo un ebreo che si battezza e poi torna a casa sua dai genitori che si chiamano Tobia e Sara, e sono rimasti ebrei. Subito dopo:

Adì 15 de aprile 1543 fu baptizata una putta mora et fo nello baptismo chiamata Mattea per causa che casa de’ Mathei la rescactaro dala servitude de uno judeo napolitano la quale l’haveva comparate scuti 60. [3]

Una schiava musulmana di proprietà di un ricco mercante ebreo di Napoli, comprata dalla famiglia Mattei, famiglia nobile romana, per 60 scudi, che è una bella somma, e con lo scopo di battezzarla. Questa nel battesimo prende il nome di Mattea. Questo atto di battesimo ci dice molte cose, ci dice intanto delle relazioni fuori Roma. Una famiglia che ha a che fare con un mercante ebreo di Napoli. Ci dice anche una cosa interessante sul nome cristiano. Questa donna prende il nome di Mattea, dal nome della famiglia che l’ha riscattata, quindi il nome indica una storia.

Era considerata un’opera altamente meritoria dare il battesimo e la libertà a un “moro”. Era una grazia che si faceva solo a persone molto fidate, e in genere i musulmani schiavi riscattati lo erano. Difficilmente diventavano poi cristiani come gli altri, ma anche gli ebrei, una volta battezzati, non possiamo immaginare che diventassero esattamente come gli altri. I sacerdoti che uscivano dal Collegio dei Neofiti, non potevano diventare parroci e avevano delle restrizioni quanto alla predicazione perché la paura era che tornassero “a giudaizzare”. Non sempre questo cambiamento di appartenenza religiosa comportava un innalzamento nella scala sociale. Poteva succedere, ma non era detto.

C’è un altro caso simile in cui il nome indica una storia:

Il 1 maggio 1544 fo baptizato Isaac Rabbi de Colorna et Perna romano, fo chiamato nelo baptismo Filippo cum il quali fo baptisato lo medesmo iorno uno suo figlio de etadi de anni 12 circa lo quale se chiamava similmente Isaac, como il padre et per havire dubitato prima del baptismo volendo per ragione dela scriptura esseri certo dela fide fo nello baptismo chiamato Thomasso.[4]

Un bambino di dodici anni, figlio di un rabbino, che vuole proprio vedere se la Scrittura dice esattamente le cose che gli vengono riferite, e allora viene chiamato Tommaso. Anche qui il nome indica il percorso, la storia di fede della persona.

Sempre lo stesso giorno

Fu baptizata Leonora iudea napolitana, de etadi de anni 25 vel circa. Quista haveva marito se partio dal marito per farsi christiana nel baptismo fo chiamata Isabella. [5]

Questi atti di battesimo non riportano quindi la data di nascita, la provenienza o altri dati, ma un condensato della storia del battezzato. Non sappiamo se per questa Leonora fosse così grande la fede da farle lasciare il marito, oppure se ci fossero altre motivazioni. Questo è anche uno dei motivi della difficoltà di studiare questa storia, perché le fonti ci raccontano fatti personali, ma non ci dicono le motivazioni della conversione… ma d’altro canto proprio questo è anche uno dei motivi del grande fascino di questo studio.

C’è un’altra situazione in cui l’abbandono della famiglia di origine può essere stato dettato da motivi profondi:

12 aprile 1545, fo baptizato messer Angelo de Fondi, Rabbi et doctor de ebrei, homo de etadi de anni 35 vel circa. lassò la mogli quali se diceva Carmolina donna de etai de anni 40 et una figlia femina quali se domandava Stella de etadi 12 vel circa li quali non volsero sequitari lo marito restaro judee nella loro infedelitadi et lo supradicto se baptizo e nello baptismo se domandò Pietro Paulo per suo desiderio[6].

E’ la famiglia di un rabbino. Lui diventa cristiano, prende il nome che desidera, Pietro Paolo, la moglie e la figlia (chiamate rispettivamente Carmelina e Stella) non lo vogliono seguire.

L’aspetto più faticoso di questo genere di fonti è che ci dicono delle cose e ci lasciano nell’incertezza più totale sulle altre. E in realtà c’è da rallegrarsi che ci sia arrivata una fonte di questo genere, perché in altre situazioni non abbiamo neanche queste notizie. Questo è il primo e l’ultimo libro dei battezzati di tutto il ‘500. I dati regolari sui battezzati cominciano solo a partire dal 1614 e proseguono ininterrottamente fino a Napoleone, fino al 1798. Dire Napoleone qui a Roma vuol dire invasione francese, fatto che segna una frattura violentissima nel tessuto religioso della città.

Questa è una situazione della prima fase della Confraternita. Qui emerge una grande libertà che dipende dal fatto che gli ebrei non sono ancora rinchiusi nel Ghetto, almeno per i primi quindici anni, perché viene aperto nel 1555. E come vedete si tratta di casi singoli molto diversi l’uno dagli altri. Non esiste una prassi consolidata, nemmeno nella registrazione dei battezzati. I documenti invece che avremo nelle epoche successive ci parleranno di una prassi serializzata, molto diversa. E un primo salto viene fatto proprio alla fine degli anni 70.

b) seconda fase: il Collegio dei Neofiti e la Chiesa della Madonna dei Monti. Evoluzione istituzionale e prima “sistemazione immobiliare” da Gregorio XIII a Urbano VIII (1577-1634)

Sono due i fatti fondamentali che cambiano la vita di questa Confraternita. Innanzitutto l’intuizione di papa Gregorio XIII di “investire in questo settore”, potremmo dire usando un linguaggio imprenditoriale. Fino al 1562 la Confraternita comprende un gruppo di uomini e uno di donne, catecumeni e catecumene, che vivono presumibilmente - le fonti non ce lo dicono - in due ali diverse della stessa casa di S. Giovanni in Mercatello. Molto presto si cerca una sede diversa per le donne e proprio nel 1562 nasce il monastero dell’Annunziata (del quale rimane solo l’ingresso della chiesa, poco lontano da S. Maria ai Monti). Fondato per opera di una nobildonna romana, Giulia Colonna, raccoglie quelle che le fonti chiamano le “zitelle” catecumene, cioè le donne, le ragazze, che chiedono di diventare cristiane. Queste ragazze hanno un alloggio in questo monastero che è molto particolare perché è di domenicane di clausura, ma con la regola agostiniana, che permette loro di vivere accanto a delle donne non consacrate, nemmeno battezzate, in questa forma di comunità particolare, una convivenza tra consacrate e non consacrate. Questa era l’unica novità nella vita della Confraternita, presumibilmente dovuta anche a ragioni molto comprensibili, all’esigenza di avere due luoghi diversi per i catecumeni e per le catecumene.

Una seconda svolta si produce nel 1577 quando Gregorio XIII decide di fondare il collegio dei neofiti, che è una scelta audace per l’epoca. E’ un vero seminario in cui i neobattezzati, i neofiti, entrano per diventare sacerdoti. E’ una scelta coraggiosa perché ancora oggi sapete che ai neofiti non si possono dare subito degli incarichi importanti, anche secondo il Diritto Canonico, bisogna aspettare che questi “piantati di nuovo” (neofiti), mettano radici per poi poter camminare speditamente nella vita cristiana. Gregorio XIII decide di accettare la proposta che probabilmente ci sarà stata, di alcuni di loro, di diventare sacerdoti, con un compito preciso, cioè la formazione e l’insegnamento ai loro ex-correligionari. E’ un collegio che viene fondato nel 1577 e nello Statuto c’è la condizione che ci siano 2/3 degli alunni provenienti dall’ebraismo, 1/3 di alunni provenienti dall’islam o da altre “sette pagane”. Esistevano alcune disposizioni prudenziali. I sacerdoti che uscivano dal Collegio dei Neofiti, non potevano diventare parroci e avevano delle restrizioni quanto alla predicazione perché la paura era che tornassero “a giudaizzare”.

Di questo collegio sappiamo che fu stabilito in una casa privata vicino alla chiesa di S. Eustachio e ci rimase per almeno sessanta anni. Abbiamo qualche documento di questi eventi, ma la svolta importante è proprio il fatto che il papa promuova la Confraternita dei catecumeni addirittura assegnando a questa attività pastorale un Seminario.

Un terzo evento determinante è proprio la costruzione della Chiesa della Madonna dei Monti. Questi due fatti, la fondazione del collegio dei Neofiti, quindi l’ingaggio dell’attività della Confraternita in un’attività determinante dopo il Concilio di Trento per la Chiesa che è quella dei seminari, e l’assegnazione di questa chiesa che diventa subito un santuario nella Roma del ‘500, fanno fare alla Confraternita un grande salto di qualità.

La chiesa di Santa Maria ai Monti è della fine del ‘500 ed è stata costruita su un luogo particolare: un fienile, che a sua volta era stato una chiesa, nel quale era rimasto un vecchio affresco raffigurante la Madonna tra i santi Stefano e Lorenzo, con S. Francesco e (forse) S. Bernardo inginocchiati. All’altezza della mano destra si notano due sfregi. Per giustificare la presenza di questi graffi sul ritratto della Madonna fiorì la leggenda di un contadino che lavorava nel fienile e che distrattamente aveva causato il danno. L’altare – opera di Giacomo Della Porta - non è nella posizione originaria, nel 1950 venne spostato all’interno dell’abside per aumentare lo spazio a disposizione dei fedeli perché questo è un rione molto popoloso.

Davanti a questa immagine avvennero numerosi miracoli che vennero registrati puntualmente e che fecero sì che gli abitanti di questa zona della città, il rione Monti, volessero costruire un santuario degno di questa immagine miracolosa. Le vicissitudini della nascita di questa chiesa sono molte: qui basterà ricordare che papa Gregorio XIII, il primo ad abitare al Quirinale (quindi vicinissimo) aveva ordinato di spostare l’immagine in un’altra chiesa, ma i parrocchiani si opposero ai soldati mandati dal papa. In seguito i messi papali dovettero constatare che era impossibile spostare l’affresco, e quindi la Chiesa venne costruita proprio sul luogo del ritrovamento. La chiesa è stata infatti concepita come uno scrigno per custodire l’immagine. Nel transetto e nella cupola infatti ci sono affreschi riguardanti la vita di Maria, secondo la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze che incorpora il protovangelo di Giacomo, la principale fonte non canonica sulla vita della Madonna.

Negli anni 80 del ‘500 cominciano a nascere i primi manuali, che somigliano molto ai nostri manuali di conversazione. Il più famoso, scritto da Fabiano Fioghi, già ebreo poi convertitosi, si chiama “Dialogo fra il Cathecumino et il Padre Catechizante”, che viene stampato la prima volta nel 1582 e ripubblicato nel 1611 (evidentemente era un manuale di successo). Naturalmente questo è un documento che abbiamo ancora oggi, ma è di lettura difficilissima, perché Fioghi che era ebreo, spiega, argomenta la fede in categorie ebraiche ai suoi correligionari, fa largo uso del Talmud, della Kabbalah, dei procedimenti interpretativi tipici dell’ebraismo. Vi faccio un esempio solo, ma molto significativo, che non è tratto direttamente dal testo (è già difficile in lingua corrente, figuratevi nell’italiano del ‘500): tra le dimostrazioni dei dogmi, è interessante il modo di procedere per la SS. Trinità. Fabiano Fioghi cita il primo versetto di Genesi:

Bereshit barah Elohim we het ha-shamayim we het ha-heretz.

In principio creò Dio sia il cielo sia la terra

Voi sapete che in ebraico si scrivono solo le consonanti, così bereshit è scritto con le lettere beth, resh, aleph, sin, yod e teth. Fioghi spiega al catecumeno che in questa parola c’è tutta la Trinità, perché c’è beth che è la consonante con cui inizia la parola ben (Figlio), poi c’è resh, la erre, la prima consonante di Ruah, (Spirito), e poi c’è aleph con la quale inizia la parola Ab, (Padre). Così abbiamo Figlio, Spirito e Padre.

Un altro esempio è quando il catecumeno domanda: “Perché voi mangiate carne di maiale?” Il maestro risponde che è perché maiale in ebraico si dice khazer, che viene dal verbo khazar che significa permettere, allora vuol dire che Dio ha vietato il maiale per poi permetterlo di nuovo! E infatti – conclude il maestro - noi cristiani mangiamo il maiale.

Domanda ancora il catecumeno: “Perché voi festeggiate la domenica e non il sabato?” “Perché il sabato è il giorno in cui Dio si riposò dopo aver creato il mondo, la domenica il giorno in cui Cristo risuscitò. Gli stessi vostri rabbini dicono che la Redenzione è più importante della Creazione, ecco perché noi festeggiamo la domenica”.

Va da sé che ogni manuale di conversazione contiene quello che il maestro si augurava che venisse domandato e che l’alunno avrebbe dovuto ascoltare in risposta. Tutto questo non ci dice molto sulla realtà della catechesi agli ebrei. Tuttavia qualche raro documento permette di fare luce anche sulla “lezione di catechismo” vera e propria.

Salomone Corcos apparteneva ad una ricchissima famiglia di banchieri. Nel 1592 incontra S. Filippo Neri al quale attribuisce la sua conversione al cristianesimo e anche il suo ingresso tra i preti dell’Oratorio, col nome di Agostino Boncompagni. Chiamato a testimoniare durante il processo di canonizzazione per S. Filippo racconta in prima persona come è avvenuta la sua conversione. E qui abbiamo un resoconto dettagliato di come avvenivano nella realtà i colloqui tra il catecumeno e il “padre catechizante”.

Il racconto è a tratti veramente paradossale, e ci pone diversi problemi. Cerco di riassumere perché è un po’ lungo. Innanzitutto qui non si parla affatto della Confraternita dei catecumeni: e questo è un dato già interessante (evidentemente in quest’epoca la Confraternita non aveva l’esclusiva del catecumenato….). S. Filippo Neri invita a casa sua diversi giovani ebrei, li ospita per qualche giorno, ci parla, prega con loro e per loro, senza minimamente dover rendere ragione alla Confraternita. Questo vuol dire che c’era una certa libertà di movimento nella prassi catechistica.

La sera avanti che la mattina che ci convertissimo, padre Filippo ci disse che ci raccomandassimo al Dio di Isaac, di Abraham e di Jacob, che ci ispirasse ed illuminasse a conoscere la verità e che lui ancora avrebbe fatto la medesima orazione… E con questo la sera io, spinto dall’efficacia di lui, feci questa orazione avanti andassi a letto, né sentii commozione alcuna, perché realmente io con freddezza e senza fede feci questa orazione, persuadendomi che le cose dei cristiani non fossero esaudite da Dio. E perseveravo con quella durezza ed ostinazione fino alla mattina, quando fui chiamato e condotto nella libreria, dove insieme con gli altri miei fratelli, venendo il signor Ugo, nostro zio, cominciò ad entrar con noi in dispute sopra alcuni passi della Scrittura…[7]

Questi fratelli sono Giuda, Ruben e Abramo Corcos, e lo zio è Salomon Corcos, che è già diventato Ugo Boncompagni, che li porta da padre Filippo per questa lezione, che si apre con la lettura della Bibbia,

e particularmente di Isaia al capitolo 53…[8]

Sono i canti del Servo, che sono da sempre i testi sui quali molti ebrei hanno avuto le esitazioni più forti (anche Israel Zoller, poi Eugenio Zolli, già rabbino capo di Roma convertitosi nel 1945, meditò a lungo questo capitolo durante il suo percorso di fede).

Dove parla il profeta della Passione del Messia e dice che per le sue battiture e il suo... sariamo sanati noi. Et non credendo io a quelle parole, dicendo che erano in Biblia da cristiani stampate, mi fu letta la parafrasi caldaica che gli ebrei chiamano Targum e appresso loro è di autentica e certa autorità, dove l’esplica per il Messia, le quali cose mi par che mi convincessero[9].

Come il rabbino Isaac di Colorno incontrato nel primo registro dei catecumeni, anche Salomone Corcos vuol essere certo del testo della Scrittura: chi ce lo dice che questo è nella Bibbia nostra? Le fonti ci dicono quindi che questa era una domanda “vera” che gli ebrei facevano al “padre catechizante”.

Ma perché il giorno avanti mio fratello maggiore ed io eravamo convenuti che io non dicessi mai di sì, di volermi convertire (perché dubitava che non essendo io più che tanto esercitato nella Legge, mi fossi lasciato convincere), ma che mi rimettessi a lui e dicessi che non volevo dir di sì, se lui, prima, non lo diceva; perciò io risposi che mi rimettevo al detto mio fratello, il quale stava da un’altra parte nella medesima biblioteca, e che non volevo far niente se lui non diceva di sì prima. Ed essendo sopraggiunto il signor Gregorio Boncompagni [Lazzaro Corcos, cugino del narratore], al quale io avevo dato questa risposta, egli se ne andò da mio fratello, il quale con facilità ed in poco tempo disse di sì, di volersi convertire, e lo portò da me, e gli fece dire in mia presenza che aveva detto di sì. Perciò rimasi meravigliato e quasi convinto, dissi anche io di sì, come fecero poi gli altri sue fratelli più piccoli [Ruben e Abramo Corcos], e così tutti ci convertimmo.

La ragione di questa improvvisa conversione sta nel fatto che Filippo Neri la sera prima gli aveva detto anche che lui l’indomani avrebbe celebrato la messa e avrebbe forzato... Questa è la ragione secondo lo stesso convertito.

Ma poi succede anche un’altra cosa interessante, che vale la pena leggere, per capire la mentalità. Abbiamo constatato che c’è la necessità di un convincimento personale, ma anche di una strategia familiare. La conversione “affare di famiglia” sembra prendere il sopravvento. Ad un certo punto la madre dei ragazzi vuole parlare con i figli e S. Filippo Neri accetta:

E ci volle esser lui presente quando la nostra madre ci venne a vedere in casa di una vicina dove noi andammo[10].

I ragazzi escono dalla casa di S. Filippo Neri, vanno in casa di una vicina e lì avviene l’incontro, e lì è presente anche S. Filippo.

E con nostra madre ci venne un altro ebreo chiamato Leone Treves, et alcuni cristiani, tra i quali credo ci fosse un notaio. E nostra madre ci disse pian piano nelle orecchie che ci ricordassimo di quello che ci aveva detto nostro padre quando morì, il quale minacciando ci aveva detto: cani, voi vi farete cristiani.

Ricordiamo che “cani” è un “termine tecnico” con il quale gli ebrei chiamano i non-ebrei. Lo usa anche Gesù nel vangelo, quando dice: Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini» (Mt 15,26). Lui è un po’ più gentile, ma la sostanza dell’appellativo è la stessa. Cani, sostanzialmente, sono i non ebrei.

Et Leone l’ebreo, essendosi partito nostra madre e il servo di Dio Filippo ci persuadeva che non essendo ancora battezzati stavamo in nostra libertà e potevamo dire di sì e di no, come volevamo e perciò che ci dichiarassimo. E quei cristiani stavano attendendo a quello che rispondevamo. Ed io mi sentii tutto turbare siccome sentirno gli altri miei fratelli, per quello che mi hanno detto. E sebbene non rispondessimo cosa alcuna, né di sì, né di no, tuttavia Leone ebreo si partì, dicendo che avevamo detto di sì e ci volevamo far cristiani e quando pensavamo di dir di no, di non voler essere cristiani, ci sentivamo ritener da un certo non so cosa e ci uscì di bocca un urlo incondito e inintelligibile quale da quell’ebreo fu interpretato per un sì.

Per tutto quel giorno fummo grandemente travagliati perché non sapevamo se eravamo cristiani o ebrei, stando indifferenti e perturbati. Ma passato quel giorno restammo stabiliti in maniera e nella volontà di essere cristiani, come si fossimo nati cristiani, et aborrivamo tutti li riti ebrei.

E’ un testo che ha una certa autorevolezza perché viene dagli atti del processo, è il racconto di un convertito che ricorda ciò che è avvenuto. Questa testimonianza ci pone diversi problemi, intanto il discorso della convinzione personale, poi il discorso dei legami di sangue all’interno della famiglia, poi la conversione come fatto sociale, ci sono i cristiani lì vicino che aspettano. Poi ci sono tante altre cose che ci sfuggono, perché la gente sta ad aspettare un sì o un no, quindi è quasi l’esatto opposto della conversione come lungo processo. Sembra quasi un momento puntuale. Da qui proviene anche il fascino di questa storia, il tema della conversione è molto vicino al tema della mentalità dominante di un’epoca.

La prassi abituale era questa, ed alla fine del ‘500 abbiamo detto che in più c’è un investimento pastorale in questo campo da parte della Chiesa. La prova di questa importanza è data da un manoscritto trovato sulle bancarelle di Porta Portese nel 2004. Riporta l’origine e i miracoli della Madonna dei Monti in Roma ed è datato 1583. E’ la fonte principale per la storia della Confraternita di questo periodo. E’ venuto fuori casualmente, ha una nota di possesso alla fine che ci dice che esso apparteneva alla biblioteca del cardinale Sirleto (il fondatore di questa chiesa), che era anche il cardinale bibliotecario di Santa Romana Chiesa. E’ un testo diviso in tre parti, scritto probabilmente da un camaldolese che si chiamava Francesco Pifferi, di Monte San Savino, lo stesso paese di Fabiano Fioghi, l’autore del dialogo con il padre catechizzante e lo stesso paese di papa Giulio III, Giovanni Maria Ciocchi del Monte, in cui si racconta l’origine della chiesa, i miracoli e i fatti prodigiosi che sono seguiti e alla fine si fa un vero e proprio catalogo dei primi cento miracoli numerati.

L’esistenza di un documento di questo genere ci dice quale svolta epocale sia stata per la Confraternita avere una dotazione di una chiesa propria. Nel 1580, alla data del miracolo dell’inizio della costruzione della chiesa, la Confraternita aveva questa attività: continuava ad esserci la Confraternita maschile a S. Giovanni in Mercatello, poi esisteva il monastero femminile alla SS. Annunziata, poi c’era il collegio dei neofiti a S. Eustachio. Sono tre luoghi diversi. Tenete presente che probabilmente proprio l’esistenza del seminario indusse Gregorio XIII a dotare la Confraternita di questa chiesa, perché per un seminario era una cosa estremamente utile avere una chiesa per istruire sulla liturgia. Nel 1580, probabilmente per suggerimento del cardinale, e anche per collegare meglio queste tre istituzioni che erano abbastanza distanti tra loro, si comincia ad accorpare almeno le funzioni, le celebrazioni, i battesimi stessi che avvenivano un po’ in tutte le chiese di Roma, molti a S. Giovanni, molti a S. Pietro, molti nelle altre basiliche.

c) terza fase: il Palazzo del Collegio, l’accorpamento e la centralizzazione. Da Urbano VIII alla Rivoluzione Francese (1634-1712)

Dal 1580 la Confraternita cambia volto, inizia una prassi molto più intensa, scandita innanzitutto dalle celebrazioni liturgiche e anche perché ci avviamo nel ‘600 al grande secolo dell’età barocca, per cui la Confraternita finisce per diventare il termometro della vitalità del cristianesimo a Roma. Ecco perché dopo una prima tappa dalle origini fino a Gregorio XIII, una seconda fino al collegio dei neofiti e alla Madonna dei Monti, fino al 1634, con questa grande parabola ascendente della Confraternita, con il 1634 inizia un terzo momento, la riorganizzazione e l’accorpamento di tutte queste opere apostoliche in un’unica sede. I motivi sono tanti. Principalmente il fatto che il cardinale protettore, che in questi anni è Antonio Barberini, fratello di Urbano VIII, acquista il terreno che sta tra la chiesetta di S. Salvatore e la Madonna dei Monti, e vi costruisce un grande palazzo dove nel 1637 verrà trasferito il collegio dei neofiti e la casa dei catecumeni maschi. Si lascia quindi S. Giovanni in Mercatello. Il Cardinale Barberini non solo procede all’accorpamento di tutte queste opere apostoliche in un unico luogo, ma annette alla «sua» Confraternita anche la parrocchia di S. Salvatore ai Monti, una procedura del tutto irrituale, visto che semmai erano le confraternite ad essere assegnate alla giurisdizione delle parrocchie. Fino a quel momento le istituzioni dei catecumeni dipendevano ciascuna da una parrocchia diversa. Il collegio dei neofiti da S. Eustachio, il monastero dell’Annunziata da SS. Quirico e Giulitta e la casa dei catecumeni da S. Giovanni in Mercatello.

In conseguenza di ciò il parroco di S. Salvatore diventa anche rettore della Confraternita dei catecumeni. In questa maniera si genera una certa confusione. All’epoca il parroco rispondeva al Cardinal Vicario per la liturgia e la disciplina dei sacramenti, per l’amministrazione e l’attività pastorale dipendeva dal Cardinal Protettore della Confraternita, governatore di tutto questo settore apostolico (oggi dipende in toto dal Cardinale Vicario). Il Cardinale Protettore aveva poteri importanti, tra i quali il più significativo era la giurisdizione privilegiata (se un catecumeno o un neofita commette un reato, non viene giudicato dai tribunali del Vicariato di Roma, ma la giurisdizione è del cardinale protettore).

L’ingentissimo patrimonio del Cardinale Barberini garantisce alla Confraternita il suo massimo splendore proprio negli anni del pontificato di Urbano VIII (1623-1644). Uno studioso, Rudt de Collenberg, ha ricercato tutti i dati quantitativi sul fenomeno. Fra il 1614 ed il 1798 ci sono stati 1958 battesimi di ebrei e di essi ben 217 (11%) sotto il pontificato di Urbano VIII[11].

Tra il 1634 e il 1637 viene costruito il palazzo per il collegio dei catecumeni affinché i chierici possano fare esercizio delle sacre funzioni direttamente nella chiesa. La costruzione accanto alla chiesa aveva quindi una motivazione pedagogica. La chiesa di un Seminario rivestiva il ruolo di “nave scuola” per l’apprendimento della liturgia. L’adeguamento ai decreti del Concilio di Trento – che rendeva obbligatoria l’erezione di un Seminario in ogni diocesi – imponeva quindi un adeguamento architettonico ed urbanistico: accanto o vicino ad ogni Seminario doveva esserci una chiesa. Non era facile in quel periodo a Roma eseguire questa direttiva. Basti pensare che il Seminario Romano, istituto “ufficiale” voluto dal Papa per la formazione del clero e fondato nel 1565, non ebbe una sede appositamente costruita se non nel 1913, ossia 348 anni dopo la sua nascita. Il Collegio dei Neofiti invece, a soli sessant’anni dalla fondazione venne dotato di edificio e chiesa propri, appositamente costruiti. Non solo: stando alle fonti, già nel 1625 la chiesa della Madonna dei Monti aveva ben due organi fra i più grandi di Roma, ed era quindi molto ricca.

Dopo il 1637 la Chiesa diventò il luogo dello “spettacolo” del battesimo. In età barocca la fede fa spettacolo. Ci sono tante forme di spettacolo, di festa, nella Roma del ‘600: ci sono le fontane di piazza dei Dodici Apostoli che gettano vino quando arriva il corteo dell’ ambasciatore di Francia, c’è il battesimo di una famiglia di ebrei fatto addirittura dal papa che dopo li fa sedere a tavola e passa a servirli come dice il vangelo. C’è lo stesso papa che va a lavare i piedi ai poveri alla chiesa della Trinità dei Pellegrini e tutta la gente va a vedere. C’è un investimento ideologico in tutto questo che fa insieme la grandezza e l’ambiguità della Roma barocca.

Di tutto questo resta un segno molto forte nell’affresco dell’abside che risale al 1681: nella lesena di sinistra la sconfitta del demonio ad opera di S. Michele, a seguire la crocifissione di Gesù, nella chiave di volta S. Pietro che battezza i due soldati di guardia del carcere, Processo e Martiniano, effigiati anche sui lati dell’abside, dentro le ghirlande. Dalla parte destra vedete Gesù risorto che incontra la Madonna. E’ un tema pittorico molto raro, anche perché di questo incontro nel Vangelo non c’è traccia. L’insieme di questi affreschi si spiega con l’importanza dell’affresco che stava sulla chiave di volta e raffigurava il battesimo dei pagani. Era una catechesi rivolta a tutti i catecumeni che venivano a pregare qui, indicando chiaramente che attraverso il battesimo si cancella il peccato e il diavolo viene sconfitto: grazie alla morte di Cristo si passa alla vita nuova (Cristo risorto) e ciò mediante l’acqua del battesimo. Come vedete questa è una catechesi estremamente serrata e molto chiara rivolta ai pagani. I soldati romani sono in qualche modo, dal punto di vista iconografico, rappresentanti di ebrei e musulmani (che a quei tempi venivano chiamati aderenti alla setta musulmana). Non è l’unica traccia della presenza dei catecumeni in questa chiesa, ma certamente è la più importante.

d) quarta fase: i Pii Operai (1712-1798)

Alla fine del 1600 si chiude la grande stagione della Confraternita. Non abbiamo notizie dirette della sua estinzione, ma nel 1712 Clemente XI assegna la parrocchia della Madonna dei Monti e le opere relative ai catecumeni ai Pii Operai dei Catecumeni e Neofiti, un gruppo di sacerdoti diocesani, organizzati dal venerabile Carlo Carafa a Napoli, nel 1687, e che da Napoli si estendono anche a Roma, a S. Giuseppe alla Lungara, alla Madonna dei Monti e a S. Balbina. A loro viene deputata nel 1700 la formazione dei catecumeni.

Non abbiamo parlato del trasferimento delle opere femminili, dal monastero dell’Annunziata, le zitelle catecumene, cioè le ragazze, si staccano dalle monache. Le monache rimangono al monastero lì vicino, le zitelle hanno un alloggiamento per conto loro al numero 14 di via dei Neofiti. C’è ancora il portale con lo stemma di Innocenzo XI.

Gli ultimi ad arrivare sono i membri della Confraternita di S. Giovanni Battista dei neofiti, che sorge nel 1620 e si trasferisce circa un secolo dopo nell’oratorio di Via Baccina.

Ricapitolando: sotto l’espressione catecumeni e neofiti abbiamo la Confraternita dei catecumeni maschi, il monastero femminile delle monache e delle zitelle, il collegio dei neofiti (1577), poi la Confraternita dei neofiti, coloro cioè che, ricevuto il battesimo, vogliono sposarsi e non vogliono fare né il prete né la suora. Intorno al 1620 per quest’ultima categoria nasce una Confraternita apposta che si incarica di cercare un lavoro per gli uomini e la dote per le donne. Siccome questa era considerata un’opera di carità altamente meritoria l’archivio della Confraternita è pieno di lasciti, eredità, testamenti, legati stabiliti con queste finalità.

Tutte queste opere alla fine del 1600 si ritrovano qui e sopravvivono fino alla fine del 1700 circa.

Abbiamo delle fonti che ci parlano della prassi catecumenale in questo periodo. Bisogna tener presente che la storia della Confraternita è legata a filo doppio alla storia dell’ebraismo, principalmente a Roma.

I battesimi di musulmani esistono e sono anche numerosi, ma non si contraddistinguono mai come battesimi di persone legate a una comunità. I musulmani vivono a Roma già dal ‘500, anche prima, ma non formano una universitas come gli ebrei, non hanno una comunità. La maggior parte di loro sono schiavi catturati dai cristiani nel Mediterraneo e portati a Roma per servire nelle case dei nobili; in maniera del tutto simmetrica abbiamo schiavi cristiani nelle terre del Medio Oriente. Non esiste per loro un’associazione che li riscatti, come i Trinitari da noi, i quali si impegnavano ad andare in Barberia per trattare il riscatto degli schiavi cristiani. I musulmani una volta fatti prigionieri hanno chiuso con i loro Paesi di origine e si ritrovano a Roma, soprattutto nel 1500-1600. I battesimi dei musulmani ci sono, sono documentati, alcuni sono anche molto suggestivi, abbiamo dei racconti molto belli, ma sembrano dei casi singoli.

Invece il rapporto con gli ebrei è molto più organico perché esiste una comunità che sa difendersi anche molto bene da una prassi che diventa sempre più aggressiva, questo dobbiamo dirlo perché è storia. Si riteneva di fare cosa meritoria a vincere la testardaggine degli ebrei convincendoli a battezzarsi. A Roma non si è mai arrivati agli eccessi a cui si arrivò nel tardo Medioevo in Spagna o anche in alcune zone della Germania, alle conversioni in punta di spada: “O ti battezzi o ti taglio la testa”. Però si è arrivati a forme di pressioni molto forti e molto gravi. Per tutto il 1600 la prassi non è così severa e ne abbiamo le prove, anche perché in molti casi lo zelo dei rettori della casa dei catecumeni viene raffreddato addirittura dall’Inquisizione.

Ci sono almeno due linee pastorali che sembrano affrontarsi, ma sono ipotesi, abbiamo poche certezze. Una è quella dei rettori della casa dei catecumeni che pensano che usando le maniere forti la persona si convinca, “bisogna spaventarli un po’”, secondo un’altra linea pastorale diversa non si può forzare la coscienza oltre un certo punto. La comunità ebraica si trova in mezzo a queste due posizioni, sono avvenute delle vere e proprie incursioni nel ghetto per prendere gli ebrei e portarli alla casa dei catecumeni. Venivano portati lì o perché qualcuno aveva detto che volevano farsi cristiani o perché lo avevano detto essi stessi ed erano stati ascoltati. C’era un ritiro di circa dieci giorni chiamato esplorazione della volontà (il periodo variava a seconda delle epoche, ma la media era questa) in cui la persona doveva ascoltare le prediche del rettore dei catecumeni, qualche volta di predicatori esterni, nel 1700 dei Pii Operai. Dopo questo periodo doveva prendere una decisione: se si ostinava a rimanere ebreo dopo dieci giorni veniva rilasciato.

Molto spesso c’erano situazioni terribili: venivano presi anche dei bambini. Allora a quel punto la comunità ebraica si organizzava, conosceva molto bene le disposizioni legislative canoniche, veniva a rivolgersi agli avvocati cristiani di Roma, i quali preparavano diversi libelli che venivano presentati al Sant’Uffizio che istituiva la pratica. Per tutto il 1600 sono diversi i casi in cui il Sant’Uffizio obbliga il rettore dei catecumeni a restituire le persone che erano state prelevate. Segno che la linea pastorale “dura” non era sempre approvata.

Abbiamo prova di questo in un testo straordinario che è il Diario di Anna Del Monte: Ratto della Signora Anna Del Monte trattenuta a' Catecumini tredici giorni dalli 6 fino alli 19 maggio anno 1749[12]. E’ il diario di una giovane ebrea che è stata prelevata e portata qui ed è stata quasi due settimane ai catecumeni. E’ un diario molto preciso, e, pur essendo stata rimaneggiata, è diventata una epopea all’interno della comunità ebraica. Descrive una vittoria della fede ebraica contro la violenza più odiosa, quella contro il dettame della coscienza. Ricordiamo che papa Benedetto nel suo libro Gesù di Nazaret conclude il IV capitolo proprio con questa affermazione: noi cristiani dovremmo forse guardare con occhio diverso il prezzo pagato da Israele per rimanere fedele alla sua Legge. Al quadro interpretativo dato dal papa potremmo anche benissimo accostare questa fonte.

Nel suo diario Anna racconta il suo sequestro, i suoi quattro incontri con il vicegerente, che sono molto interessanti, perché il Vicegerente a metà del 1700 è il responsabile diretto dei catecumeni, subito dopo il Cardinale protettore: una figura che poteva essere oggetto di grande biasimo e indignazione, invece è trattato con rispetto, per un motivo che poi vedremo.

Tutto inizia con la vendetta di Sabbato Coen, un ex-fidanzato di Anna, che, respinto, per vendicarsi va dal Vicegerente Ferdinando Maria De Rossi, e dichiara di volersi fare cristiano. Secondo la prassi dell’epoca, l’aspirante catecumeno poteva “offrire alla fede cattolica” anche altre persone che secondo lui avevano manifestato la stessa intenzione. Sabbato offre Anna, per trascinarla con sé alla casa dei catecumeni e forse riconquistarla. Il Vicegerente da’ mandato al rettore della Casa dei Catecumeni di accogliere Sabbato e di prelevare con la forza la fanciulla dal Ghetto, secondo la prassi abituale dell’epoca.

Anna è arrestata e portata in carrozza alla casa dei catecumeni. Ma è una donna di carattere, non si perde d’animo e resiste a tutti i tentativi di conversione. Ci prova il curato di S.Salvatore, ma Anna gli risponde duramente,

E alla qual risposta se ne partì battendo li piedi, dicendo: “Che donna ostinata è mai questa!” E se ne andò in mal ora[13]

Anna descrive tutte le persone che nei tredici giorni della “esplorazione della volontà” si sono avvicendate nella stanza dove è reclusa. Ci sono anche degli episodi molto bui, predicatori che arrivano urlando, minacciando, coprendola di insulto e gettandole secchiate di acqua benedetta. Difficile pensare ad una manipolazione: sistemi di questo genere erano purtroppo frequenti, specie dopo la metà del Settecento, quando per gli ebrei di Roma la vita diventa veramente difficile. A misura che avanza l’Illuminismo, cresce la paura e la necessità di capri espiatori. E i primi sono gli ebrei.

Forse il passo più interessante per noi è la conclusione, lo scontro finale tra vicegerente ed Anna. Il vicegerente De Rossi la incontra e le dice che sta cercando di chiamare i migliori predicatori di Roma per convertirla, e Anna risponde:

Senta Illustrissimo Signore, io son carcerata in questo luogo innocentemente, senza saperne la causa. Ma trovandomi nelle vostre mani potrà ordinare la mia morte, benché ingiusta, ma dell’anima mia non c’è altro assoluto padrone che Iddio. E sarò prima capace di soffrire mille morti che cambiare il mio Dio, la mia Santa Legge e i miei signori genitori. Questa è la mia stabilita risoluzione, questa fu la prima mia risposta e questo sarò per dire fino all’ultimo respiro della mia vita. In risposta le disse Monsignore: “Chetatevi, che da me avrete la dovuta giustizia, giacché vi trovo così ostinata”[14].

Una frase molto minacciosa, ma, dopo alcuni giorni, lui cerca di persuaderla:

Vedendomi il detto così afflitta e lacrimosa si mosse a pietà e compassione dicendomi: “Sentite figliola mia, se dobbiamo operare con la misericordia, a me compete la salute dell’anima vostra”[15]

Questo era il dramma, la persuasione sincera che molti sacerdoti avevano: sentivano quest’opera di persuasione come un loro dovere davanti a Dio: una “terribile carità”, come ebbe a dire l’attuale rabbino capo di Roma Riccardo di Segni.

E se devo far giustizia sarò per fare il dovere. Dunque, voi dite, che il vostro cuore non vi detta di farvi buona cristiana, ma piuttosto desiderareste di tornare nella vostra patria. Ma se la verità si è quanto avete detto che ogni punto e momento vi sembra un anno, il credo bene, ma adesso questa ispirazione di mandarvi via deve venire a me e allora vi manderò[16].

Poco prima Anna aveva detto:

Né può forzare Vostra Illustrissima il mio libero arbitrio e non può obbligarmi a dire quello che non conviene né con il cuore né con la mente, né converrà mai in ciò la mia volontà[17].

In altre parole la libertà della coscienza comincia a diventare un punto essenziale con il quale la Chiesa fa i conti, perché lo stesso Vicegerente dice che anche lui deve essere libero di mandarla via, ma questa convinzione deve venire a lui.

L’ultima parte, il finale, è quanto mai interessante. Anna sta per uscire, ha resistito tredici giorni: arrivano i Memunim, i Fattori della comunità, per riportarla a casa sua nel Ghetto, quando il segretario del Vicegerente ferma il terzetto e dice che Monsignore vuol vedere la ragazza.

“Come, non sono finite ancora le mie pene? Ma essi mi diedero coraggio”, i fattori si avvicinano e il segretario dice: “Monsignore vuole solo la ragazza”. Allora mi diedero coraggio dicendomi di non aver paura, fui condotta in più stanze, dopo tre di esse: “Rividi Monsignor Vicegerente più tardi quando mi mandò a chiamare e restai sbalordita sentendolo dire: «Hannà mia, vi chiedo scusa, ed il vostro strapazzo farà sì che nessuna altra lo riceverà almeno finché sono io vicegerente». E benché più morta che viva, Iddio mi diede spirito di rispondergli: “Sono innocente, e da torta parte sono stata strapazzata”. “Sì, figlia mia, è vero. Perdonatemi, andate a consolare i vostri genitori e parenti che vi aspettano”. Allora ritornai tra le braccia delli signori memunim, che alla mia vista gioirono, e fu maggiore il lor contento nel sentire le scuse di Monsignore e la sicurezza che altre non passeranno i miei tormenti[18].

Questo è un testo veramente unico, che fotografa molto bene il dramma e dei convertitori e dei convertiti e anche la persuasione che nonostante le durezze e le cose che noi oggi non dobbiamo accettare, le violazioni della coscienza, la linea dura adottata dai rettori di questo luogo non era l’unica. C’era qualcuno che pensava che qualcosa non andasse e questo qualcuno non era uno qualsiasi, era il Vicegerente che poi fu fatto anche cardinale. Così arriviamo all’epoca napoleonica. Le sue avvisaglie si trovano precisamente nella revisione operata sul testo del Diario nel 1793 dal fratello di Anna, che forse inserì gli accenni alla libertà di coscienza ed al libero arbitrio che frequentemente ritornano nel racconto.

Considerazioni catechetiche conclusive

Adesso siamo entrati in una fase completamente nuova, con il Concilio Vaticano II si è distinto il dialogo interreligioso dalla catechesi. Riguardo all’ebraismo c’è stato un riconoscimento formale da parte della Chiesa del legame assolutamente peculiare con l’ebraismo, e anche la relativizzazione di alcuni temi di predicazione che in passato erano stati molto cavalcati. Circa il rapporto degli ebrei con il cristianesimo, negli ultimi tempi assistiamo a un po’ di movimento. Prende piede una teologia cristiana dell’ebraismo, un ripensamento della presenza dell’ebraismo a livello teologico. Questo a partire dal Concilio e da quell’esperienza straordinaria fatta principalmente qui a Roma dell’aiuto prestato durante l’occupazione tedesca. E’ stato un fatto eccezionale, perché per la prima volta dopo duemila anni ebrei e cristiani sono tornati a vivere insieme. Buona parte delle svolte seguenti è stata seminata nei nove mesi terribili dell’occupazione tedesca di Roma, nei rifugi, sotto il rischio di rastrellamenti e deportazioni.

Nel 2007 la comunità parrocchiale della Madonna dei Monti, assieme ad una folta rappresentanza ufficiale della comunità ebraica hanno posato una lapide in ricordo degli ebrei salvati in questa chiesa durante l’ultima guerra. Subito dopo c’è stato un incontro conviviale nel rispetto della kasherut. Così è stata celebrata una sorta di riconciliazione.

Da parte ebraica, bisogna tener conto della condizione particolarissima della comunità romana che ha una storia a parte. La differenza principale è tra gli ebrei askenaziti e sefarditi. Gli askenaziti sono gli ebrei dell’Europa centrale, di lingua tedesca o yiddish, i sefarditi provengono dal Mediterraneo, dalla Spagna, in Italia abbiamo askenaziti a nord e sefarditi solo a Napoli. La comunità romana è attualmente di ottomila o novemila. Il rito romano non è né askenazita né sefardita, perché questa è l’unica comunità della diaspora che ha mantenuto una continuità generazionale, dai tempi degli antichi romani. All’interno della comunità il rabbinato è ortodosso, ma nell’ambito della comunità le posizioni sono estremamente variegate.

Anche una teologia ebraica del cristianesimo, sta muovendo i primi passi. E’ uscito poco tempo fa un piccolo libro di un ebreo convinto, Marco Morselli, che si chiama I passi del Messia[19]. Sono dieci profili biografici di ebrei che hanno incontrato Gesù e il suo messaggio. Alcuni si sono convertiti, altri no. La tesi del libro è provocatoria, ma interessante per noi perché è un tentativo di darsi una ragione dell’esistenza del cristianesimo. Morselli ritiene che il Messia verrà quando i cristiani torneranno all’ebraismo. C’è qualcosa però che possiamo prendere per certo: l’ebraicità di Gesù non è più in discussione e va continuamente riscoperta.

Credo che l’indicazione data dal libro del papa Gesù di Nazareth, sia stata molto importante. Il papa riflette su un libro di Jacob Neusner, che è un rabbino riformato, che prende in mano il vangelo e lo legge da rabbino. Mettendo in evidenza i punti fondamentali a livello teologico che ci distanziano e ci distanzieranno sempre dagli ebrei. Ma il papa spiega che questo è un distacco (il rabbino non si converte) senza rancore, con molto rispetto.

Evangelizzare per noi è una necessità ovvia, perché se conosciamo Gesù Cristo non possiamo tacere. Sicuramente ci sono degli atteggiamenti e degli stili che non dobbiamo più assumere, perché la conversione è un dono di Dio che la persona è libera di accogliere o meno. Per noi è ovviamente sempre possibile parlare di Gesù, mostrare la bellezza dell’incontro con Lui e pregare per questo incontro. Nel momento in cui da parte ebraica c’è qualcuno che legge il vangelo con animo aperto, questo mette in evidenza con molta chiarezza e molta utilità anche per noi (nel caso dell’ebraismo), ciò che ci divide e ciò che ci unisce: Gesù. Un ebreo, in Gesù vede solamente un uomo. Noi vediamo il Figlio di Dio perché abbiamo il dono della fede, e non dobbiamo dimenticarci che è un dono! Chi incontrava Gesù vedeva il figlio di un falegname, che non aveva mica l’aureola in testa… Anche per noi l’incontro con un ebreo che si sforza di leggere il Vangelo è positivo perché ci fa capire meglio la nostra fede. Possiamo anche desiderare la conversione dell’altro, ma rimane che la conversione è un dono di Dio. Occorre sempre tenere distinto l’annuncio del vangelo, la predicazione, dal dialogo interreligioso. Queste sono categorie che dobbiamo avere chiare.

Da questa storia che vi ho raccontato emerge anche il legame profondissimo di questa città con la comunità ebraica. E’ un legame che è stato amato, odiato, contestato, combattuto, ma non è mai stato revocato né dissolto. E’ un capitolo affascinante della storia perché raramente due gruppi umani sono stati così vicini e anche così lontani. Abbiamo delle poesie del rabbino capo per l’esaltazione al trono di Gregorio XVI e abbiamo il Belli che ci riferisce che quando il rabbino Beer morì, il papa si mise a piangere a dirotto. Il medico del papa era ebreo. Gli ebrei romani hanno nelle loro tradizioni una leggenda, che la persecuzione cesserà quando il papa entrerà in sinagoga. Quindi pensate come hanno vissuto l’incontro con Giovanni Paolo II. Questa è una grande indicazione, oggi questo rapporto continua, però in forme diverse. E’ un bene per entrambi.



[1] Archivio Storico del Vicariato di Roma, Fondo Catecumeni e neofiti, 175. Le citazioni che seguono sono tratte da G. Grenga, Il primo registro dell’Archivio della Pia Casa dei Catecumeni e neofiti, tesi di laurea in Lettere e Filosofia a.a. 1980-1981, presso l’Università degli studi di Roma «La Sapienza».

[2] ASVR, Fondo cat. 175, c. 5r; trascr. G. Grenga, Il primo registro… p. 129.

[3] Ibidem.

[4] ASVR, Fondo cat. 175, c. 5r; trascr. G. Grenga, Il primo registro… p. 130.

[5] ASVR, Fondo cat. 175, c. 5v; trascr. G. Grenga, Il primo registro… p. 131.

[6] ASVR, Fondo cat. 175, c. 8v; trascr. G. Grenga, Il primo registro… p. 139.

[7] G. Incisa della Rocchetta – N. Vian (ed.), Il primo processo per San Filippo Neri nel codice Vaticano latino 3798 e in altri esemplari dell’archivio dell’oratorio in Roma, Città del Vaticano, 1963, vol. IV, pp. 39ss., con qualche minimo adattamento alla lingua corrente).

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. L. Fiorani, Verso la nuova città in Ricerche per la storia religiosa di Roma 10 (1998), p. 178n.

[12] Il testo, già pubblicato nel 1989 è stato ripresentato da M. Caffiero (Rubare le anime. Diario di Anna del Monte, ebrea romana, Roma, 2008), ed è a questa edizione che facciamo riferimento.

[13] M. Caffiero, Rubare le anime…, cit., p. 81.

[14] M. Caffiero, Rubare le anime…, cit., p. 98.

[15] M. Caffiero, Rubare le anime…, cit., p. 108.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] M. Caffiero, Rubare le anime…, cit., p. 110.

[19] M. Morselli, I passi del Messia. Per una teologia ebraica del cristianesimo, Roma, 2007.