La lettura della Bibbia nella chiesa dalle origini alla Dei Verbum, tra cattolicesimo e protestantesimo. Testi da C. M. Martini, appunti di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /04 /2011 - 16:53 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Carlo Maria Martini, allora professore del Pontificio Istituto Biblico di Roma, ed alcuni appunti di Andrea Lonardo sulla storia dell’utilizzo della Sacra Scrittura nella chiesa. Ai due testi seguono appunti da una relazione di Marco Zappella ed una bibliografia orientativa per un primo approfondimento.
Il testo di C. M. Martini è tratto da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172 (in particolare 165-172). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. 
Per approfondimenti vedi su questo stesso sito la mostra on-line Storia e teologia della Bibbia e la sezione Sacra Scrittura

Il centro culturale Gli scritti (14/4//2011)

Indice

1/ Da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172 (in particolare 165-172)

[...] Non era sempre stato così. Per tutta l'antichità cristiana, cioè per il periodo dei Padri e ancora per buona parte del Medio Evo, la Scrittura era stata il libro base della formazione dei fedeli. Non esisteva catechismo e neppure esistevano veri e propri trattati di teologia. La formazione dei catecumeni, l'istruzione ordinaria dei fedeli e la preparazione degli studiosi di teologia si facevano a partire dalla S. Scrittura.

Questo stato di cose durò fino a quasi tutto il Medioevo, né si ha notizia, per molti secoli, di provvedimenti intesi a limitare la lettura della Bibbia. I primi indizi di una certa diffidenza verso tale lettura si hanno verso la fine del secolo XII.

In una lettera a Papa Innocenzo III del 1199, il vescovo di Metz si mostra preoccupato per alcuni dei suoi fedeli laici, uomini e donne («laicorum et mulierum multitudo non modica»), che, tratti da desiderio di conoscere le Scritture, si sono tradotti in francese i Vangeli, le epistole di Paolo e il Salterio. Essi, riferisce il Vescovo, si radunano segretamente, predicano a vicenda gli uni agli altri, pur senza essere sacerdoti, e si mostrano arroganti verso i preti della loro parrocchia.

Il Papa risponde a questa lettera senza prendere alcuna decisione drastica, ma semplicemente invitando a indagare sulla natura di queste traduzioni e a tener d’occhio il movimento. Siamo infatti agli inizi di quella vera corsa alla Scrittura da parte dei laici che doveva caratterizzare i vari movimenti di riforma del tardo Medioevo e portare l'autorità ecclesiastica a posizioni di sempre maggior irrigidimento verso le traduzioni della Bibbia in volgare e la loro lettura da parte dei laici.

Infatti, purtroppo, in questi movimenti lettura della Bibbia e resistenza all'autorità andavano non di rado di pari passo. Parve così a quei tempi che non fosse possibile trovare un rimedio al secondo atteggiamento se non stroncando anche il primo. È così che vediamo il Concilio provinciale di Tolosa nel secolo seguente (1229), assumere una posizione fortemente negativa nei riguardi di ogni traduzione biblica, anzi dell'uso stesso della Bibbia da parte dei laici.

È difficile per noi oggi giudicare del bene o del male di questi provvedimenti, presi in circostanze così diverse dalle nostre e così complesse. Forse è più saggio non pretendere di dare un giudizio definitivo e contentarci di registrare i fatti. E i fatti sono rappresentati da una serie di restrizioni nella lettura della Bibbia.

Assistiamo infatti nei secoli seguenti al ricomparire qua e là in Europa di simili proibizioni, dovute al diffondersi di analoghi movimenti. Troviamo così il Concilio provinciale di Oxford del 1408, che proibisce ogni traduzione della Bibbia che non avesse avuto una approvazione ufficiale. Più oltre andavano le norme stabilite in Catalogna a partire dal secolo XIII dall'autorità civile, poi riconfermate nel sec. XV e divenute leggi di Stato agli inizi del sec. XVI, sotto il regno di Ferdinando e Isabella, che stabilirono che nessuno potesse tener presso di sé alcuna versione biblica. Si trattava di disposizioni estreme, prese sotto la spinta di gravissime circostanze. Esse rimanevano inoltre locali e temporanee.

Non impedirono infatti che al tempo dell'invenzione della stampa, a partire dal 1450, la Bibbia, non solo in latino, ma anche nelle lingue volgari, fosse uno dei libri più stampati e venduti, specialmente in Germania e in Italia. Secondo ricerche fatte dal P. Vaccari, alla vigilia della riforma protestante erano in circolazione un grande numero di edizioni della Bibbia.

In Germania, tra il 1450 e il 1500 furono stampate oltre 25 edizioni della Bibbia latina e 15 in lingua volgare. In Svizzera, nella sola Basilea, si produssero 18 edizioni della Bibbia tra il 1450 e il 1500. In Italia nello stesso periodo erano uscite 27 edizioni, di cui 22 nella sola Venezia e una rispettivamente a Roma, Napoli, Brescia, Piacenza e Vicenza. Di queste 27 edizioni, 10 erano in volgare, tutte edite a Venezia: 9 edizioni della versione del Malermi, e una della versione anonima detta Bibbia d'agosto, perché pubblicata il 1° agosto 1471.

Non si può dunque sottoscrivere la frase di Lutero, pronunciata in uno dei suoi discorsi conviviali (Tischreden), il 22 febbraio 1538, secondo cui prima della sua riforma la Bibbia era «a tutti sconosciuta». «A vent'anni - dice Lutero - io non avevo ancora veduto una Bibbia». L'espressione è forse un po' esagerata, e certamente non indicativa della reale situazione di allora, se si pensa che del solo periodo 1459-1500 ci sono state conservate 5400 Bibbie stampate, che non sono se non una piccola parte delle decine di migliaia allora in circolazione. Oltre a ciò bisogna tener conto delle Bibbie manoscritte che ancora si producevano (si calcola che nel secolo XV siano stati trascritti almeno 3600 manoscritti biblici di versioni tedesche).

Bisogna inoltre ricordare le moltissime Bibbie, diremmo così, di divulgazione, che si chiamavano Bibbie istoriali, fioretti, lezionari o «Plenarien» (in Germania), specchi dell'umana salvezza, Bibbie dei poveri, che erano florilegi biblici, spesso provvisti di illustrazioni ad uso di chi sapeva leggere poco o nulla.

La Bibbia dunque, malgrado le restrizioni precedenti, era ancora abbondantemente diffusa anche tra il popolo. Con la riforma protestante tuttavia, verso la metà del secolo XVI, il regime di cautela che fino a quel momento si era espresso soltanto in restrizioni parziali, divenne universale. La Congregazione dell'Indice, prima nel 1559 sotto Paolo IV, poi nel 1564 sotto Pio IV, promulgando l'indice dei libri proibiti, vieta pure di stampare e di tenere Bibbie in volgare senza uno speciale permesso. È sintomatico il motivo portato per questa proibizione: «Essendo chiaro dalla esperienza che, se si permette la sacra Bibbia in volgare senza discriminazione, a causa della temerità degli uomini ne segue più danno che vantaggio». Anche se non si trattava di una proibizione assoluta di accedere personalmente alla Bibbia intera per chi non sapesse il latino, era questo tuttavia un provvedimento destinato a limitare assai l'uso della S. Scrittura.

Una prova concreta di questo fatto la possiamo vedere recensendo le edizioni delle Bibbie apparse in Italia in quel periodo. Nella Biblioteca del Pontificio Istituto Biblico, dove si trova una raccolta assai ricca di Bibbie antiche italiane, figurano le seguenti edizioni, a partire dalla metà del '500:

1541: Bibbia intera, tradotta dal Malermi;

1542: NT tradotto dal domenicano Fra Zaccaria di Firenze;

1545: Bibbia intera, tradotta in lingua toscana da Santi Marmochino, domenicano.

A partire da queste date, cessano le Bibbie tradotte e pubblicate da cattolici. Tutte le Bibbie italiane pubblicate dopo quegli anni sono di origine protestante o ebraica, e per lo più pubblicate fuori d'Italia: a Lione, a Ginevra, a Norimberga. Esiste una eccezione, cioè una Bibbia cattolica pubblicata nel 1567, tre anni dopo il decreto dell'Indice di Pio IV. È una ristampa della Bibbia del Malermi pubblicata a Venezia «con licentia della S. Inquisitione ». Ciò mostra che era ancora possibile pubblicare Bibbie italiane per i cattolici. Ma di fatto ciò non avvenne più, per quasi due secoli.

È infatti soltanto nel 1757 che si permisero di nuovo in maniera generale le edizioni in volgare, purché approvate dalle competenti autorità e munite di note. Abbiamo così ad esempio una edizione dei Salmi del 1770, una nuova edizione rifatta della Bibbia del Malermi nel 1773, e, a partire dal 1778, la nuova traduzione del Martini, che doveva rimanere in uso presso i cattolici italiani fin quasi ai nostri giorni.

Non bisogna tuttavia concludere che, mancando per due secoli ogni edizione della Bibbia italiana, mancasse anche del tutto un contatto del popolo con la Scrittura. Essa veniva infatti esposta e spiegata al popolo nelle prediche, specialmente nelle «lezioni sacre», che il Concilio di Trento, con il decreto «Super lectione» del 17 giugno 1546, aveva prescritto che si tenessero con frequenza. Tuttavia è certo che un contatto diretto dei laici con il libro sacro non era frequente. Mancando questo contatto perso­nale dei laici, e quindi un interesse diretto da parte loro, anche il clero non era sempre stimolato ad una conoscenza profonda della Scrittura. Essa rimaneva in teoria la regola e il nutrimento della predicazione e della religione, ma lo era sempre anche in pratica? Lo era per tutti i fedeli? Sono domande a cui non è facile rispondere.

Bisogna ad ogni modo riconoscere che, fino ad un tempo abbastanza recente, non si esortavano volentieri i singoli fedeli ad una lettura e conoscenza profonda delle Scritture. Ecco ad esempio come si esprimeva ancora nel secolo scorso il domenicano fra Alessandro Bardani, Segretario della Congregazione dell'Indice, in una lettera di ufficio del 19 luglio 1824: «Sebbene nel secolo XVI a occasione delle Eresie, la Chiesa facesse più espresse proibizioni della lettura delle S.S. per il furore con cui promovevano questa lettura gli eretici, e per le falsificazioni e alterazioni del testo, in tutti i secoli però è stata cautissima su questo punto, tanto per la scelta delle persone alle quali si permetteva questa lettura, quanto per la scelta dei libri, trovandosi costantemente che sovente ne veniva vietata o sospesa la lettura di alcuni secondo la qualità delle persone, dei talenti, della scienza e dello spirito di pietà».

Prescindendo dalla esattezza storica di questo giudizio, dobbiamo dire che esso esprime bene la mentalità del tempo in cui fu scritto, e ci dispensa dal citarne altri. Prevaleva uno spirito di cautela per quanto riguarda la lettura della Bibbia. E del resto nello stesso Concilio Vaticano II vi furono voci che richiesero che il cap. VI della Dei Verbum esprimesse delle cautele riguardo alla Bibbia data liberamente ai laici.

Lentamente però la situazione stava mutando. Nel 1893 Leone XIII con l'Enciclica Providentissimus dava un nuovo impulso agli studi biblici. San Pio X, all'inizio del secolo, si adoperava per la diffusione dei Vangeli nelle famiglie. Il codice di Diritto Canonico, nel 1914, facilitava l'approvazione delle versioni in lingue moderne, e Benedetto XV, nella Enciclica Spiritus Paraclitus, riportava i moniti di S. Girolamo per una lettura assidua delle Scritture, specialmente del NT. Il 22 agosto 1943 una risposta della Pontificia Commissione Biblica dichiarava che le versioni della Sacra Scrittura, fatte secondo le debite norme, possono essere lecitamente usate dai fedeli per la cultura spirituale di ciascuno («pro privata ipsorum pietate»). E il 30 settembre 1943 l'Enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII raccomanda di usare tutti i mezzi per eccitare tra i cattolici l'amore e la cognizione, la diffusione, la lettura quotidiana dei libri sacri.

Le affermazioni del Concilio Vaticano II nel capitolo VI della Dei Verbum non costituiscono dunque di per sé una assoluta novità. Esse consacrano gli sforzi dei decenni precedenti per riportare il libro sacro nelle mani di tutti i cristiani, per far sì che esso sia davvero, anche in pratica, il nutrimento della religione.

Rimane tuttavia vero che tra le cautele e le restrizioni dei secoli passati e il libero accesso di tutti alla Scrittura promosso dal Vaticano II c'è una differenza, c'è un cambiamento. Come spiegarlo? Per quali motivi è stato possibile, e anzi si è reso necessario un certo mutamento nel modo pratico di agire della Autorità ecclesiastica rispetto all'uso della Sacra Scrittura? Si può scorgere una continuità tra le restrizioni passate e la libertà presente? È ciò che vogliamo vedere brevemente in questa parte conclusiva della nostra esposizione. Mi pare che si possano portare almeno due motivi per capire perché la Chiesa abbia potuto mettere oggi da parte ogni timore riguardo al libero accesso dei fedeli alla Bibbia.

Il primo è l’accresciuto senso liturgico della nostra epoca. Di fronte a una situazione del passato che Rosmini caratterizzava nel secolo scorso, parlando delle «Cinque piaghe della Chiesa» come il distacco tra il sacerdote all'altare e il fedele, siamo ora giunti, dopo un felice cinquantennio di rinnovamento liturgico, a una presa di coscienza sempre più profonda dell'unità dell'assemblea cultuale.

La liturgia è sentita molto più profondamente dai fedeli. La partecipazione attiva alle celebrazioni va migliorando di qualità ogni giorno sotto la spinta delle riforme promosse dal Concilio. È naturale che in questo contesto di liturgia vissuta la lettura della Bibbia trovi il suo luogo privilegiato di attuazione. Per questo movimento liturgico e movimento biblico sono, si può dire, cresciuti insieme.

È così possibile oggi raccomandare la lettura della Bibbia ai fedeli con la fiducia che essi daranno il primo posto a quella lettura orientativa e normativa fatta in unione con la Chiesa che ha il suo luogo privilegiato nella celebrazione liturgica. Qualche secolo fa non sarebbe stato così. Incoraggiare indistintamente la lettura della Bibbia avrebbe significato in pratica incoraggiare soltanto la lettura privata. Ora la Bibbia letta fuori della comunità, senza comunione viva col popolo di Dio per il quale essa è stata ispirata, non è la vera lettura della Sacra Scrittura.

E veniamo così al secondo motivo per cui la Chiesa ha fiducia che oggi la lettura della Bibbia fatta da tutti i fedeli può portare, più che nel passato, i suoi frutti. È l'accresciuto senso della Chiesa come Corpo di Cristo e come comunità dei credenti. Comunità in cui tutti ricevono del medesimo Spirito e, pur nella diversità di uffici, partecipano della stessa fede. La Chiesa nutre quindi la fiducia che attraverso la comunicazione frequente e spontanea tra i suoi membri, tra Pastori e fedeli, tra sacerdoti e laici, tra esegeti di professione e semplici lettori della Scrittura, si stabilisca quel clima di fraterna lettura comune della Scrittura che valga a rischiarare i passi difficili, a permettere la soluzione dei dubbi, ad ascoltare tutti insieme in umiltà la parola di Dio che ci è rivolta nella Bibbia, senza perderci in contese umane.

È dunque un compito assai alto quello che la Chiesa ci assegna, raccomandando caldamente a tutti la lettura della Bibbia. Quello di fare ogni sforzo, perché questa accresciuta cultura biblica sia fruttuosa, affinché «con la lettura e lo studio dei Sacri Libri la parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata, e il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini». Infatti «come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall’accresciuta venerazione della parola di Dio, che permane in eterno» (Dei Verbum, n. 26).

2/ La lettura della Bibbia nella chiesa, tra protestantesimo e cattolicesimo. Appunti (almeno in parte) controcorrente, di Andrea Lonardo

Gli studi moderni tendono a ridimensionare l’incondizionato invito alla lettura della Bibbia nel mondo protestante che una certa vulgata aveva precedentemente accreditato.

Infatti da un lato l’esperienza della rivolta dei contadini e poi, via via, delle diverse eresie che luteranesimo e calvinismo si trovarono a combattere spinse a riservare un ampio utilizzo della Sacra Scrittura ai soli teologi e pastori e, solo per loro mediazione, al popolo.

Dall’altro, proprio nella riforma maturò la convinzione della necessità di un’esposizione sintetica della fede della chiesa riformata espressa dai diversi catechismi. Lutero redasse un Grande ed un Piccolo Catechismo e, dopo di lui, anche Calvino ed altri riformatori elaborarono i loro catechismi.

Se ha senso riportare un’esperienza personale, ricordo la risposta di un pastore valdese nel corso di un incontro del catecumenato europeo, svoltosi alcuni anni fa a Firenze. Chiamato a spiegare come avvenisse la formazione cristiana nella sua comunità, egli raccontò che la catechesi era incentrata sulla storia della salvezza nella Sacra Scrittura, sul Simbolo di fede, sui Dieci Comandamenti e sul Padre nostro.

A questa affermazione seguì la domanda sorpresa dei presenti: «Ma come? Voi protestanti non utilizzate la sola Scrittura per fare catechesi?». Il pastore, sorpreso a sua volta, replicò: «Ma i Comandamenti ed il Padre nostro non sono fra le parti più importanti della Sacra Scrittura? Ed il Simbolo di fede non è forse la sintesi di tutta la Scrittura?».

Lutero e gli altri leaders della riforma compresero ben presto che era necessaria una formazione cristiana che non si limitasse alla lettura della Bibbia, ma sapesse anche presentare in maniera catechistica una sintesi semplice ed insieme globale della fede.

Il passaggio in area protestante ad un più accorto ed addirittura sospettoso utilizzo della Scrittura nella formazione dei laici è presentato in dettaglio da Jean-François Gilmont, Riforma protestante e lettura, in Cavallo Guglielmo - Chartier Roger, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 2009, pp. 243-275 e da Susanna Peyronel Rambaldi, Educazione evangelica e catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e “civilitas”. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, Bigalli Davide (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 73-92.

Gilmont ricorda come Lutero, fin dal 1520, in Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, propendesse per un insegnamento della fede semplificato e controllato dalla nuova autorità:

«Quanto ai libri teologici, bisognerebbe anche ridurne il numero e scegliere i migliori. Non ci sarebbe neppure bisogno di leggere molto, bensì di leggere buone cose e di leggerle spesso, per poco che ciò sia. Ecco ciò che rende dotti nella Sacra Scrittura e pii al tempo stesso» (p. 251).

Ma soprattutto «dopo la Guerra dei Contadini e sotto l'effetto del proliferare di interpretazioni eterodosse della Scrittura, il suo discorso si evolve. Egli insiste a proposito del controllo della Chiesa sull'accesso alla Bibbia. La Parola racchiusa nella Bibbia resta lettera morta, se non è trasmessa dalla predicazione. “Il Regno di Cristo - afferma in una predica del 1534 - è fondato sulla Parola, che non si può afferrare né comprendere senza i due organi, le orecchie e la lingua”. Nel 1529, dopo aver composto i suoi due catechismi, egli insiste perché questo manuale sia messo nelle mani di tutti: “Il catechismo è la Bibbia del laico; contiene tutto ciò che un cristiano deve conoscere della dottrina cristiana”» (pp. 251-252).

Gilmont spiega come «parimenti, quando nel 1524 invita i magistrati a costituire buone biblioteche, Lutero assegna loro due funzioni: conservare i libri e consentire ai dirigenti temporali e spirituali di studiare. Niente a che vedere con la lettura popolare» (p. 252)[1].

Una analoga evoluzione si può riscontrare in Melantone:

«Nella Prefazione ai Loci communes del 1521, egli presenta il proprio libro come una modesta introduzione destinata a scomparire di fronte alla lettura della Bibbia; auspica ardentemente che “tutti i Cristiani si applichino in assoluta libertà alla sola lettura delle Scritture Sante”. Al contrario, nella Prefazione del 1543, egli insiste sulla necessità di questi ministri del Vangelo, che Dio desidera far preparare nelle scuole. Sono loro che Egli ha voluto come guardiani dei Libri dei Profeti e degli Apostoli e dei dogmi autentici della Chiesa» (p. 252).

Simile è il cammino di Zwingli, che passa anch’egli a maggiori cautele nei confronti di un utilizzo troppo popolare della Scrittura:

«L'evoluzione dei principi esegetici di Zwingli tra il 1522 e il 1525 è parallela a quella constatata in Lutero e Melantone. In un primo momento, egli tenta di destabilizzare la Chiesa tradizionale mediante un ampio appello all'opinione pubblica. Si fonda sulla dottrina del sacerdozio universale: tutti i Cristiani che affrontano la Bibbia con umiltà sono in grado di interpretarla. Lo proclama nelle dispute pubbliche come in diversi opuscoli del 1522. Ma presto la situazione si evolve. Il clero cattolico è rovesciato e i primi anabattisti si fanno minacciosi. Essi si appoggiano sui medesimi principi per rimettere in questione la legittimità del nuovo potere. Donde il voltafaccia di Zwingli. A partire dal 1525, egli riserva l'interpretazione della Bibbia a persone competenti, in effetti ad un gruppo composto dall'élite politica e dall’intellighenzia clericale» (pp. 252-253).

Anche nella nuova Inghilterra anglicana la direzione è la medesima:

«A lungo Enrico VIII interdice ogni diffusione della Bibbia in inglese. Infine, nel 1543, cede alle pressioni della propria cerchia. Ma l'autorizzazione a stampare la Bibbia in inglese è corredata da restrizioni significative. Egli distingue tre categorie di persone e di letture. Nobili e gentiluomini possono non solo leggere, ma anche far leggere a voce alta la Scrittura in inglese per se stessi e per tutti coloro che abitano sotto il loro tetto. Basta la presenza di un membro della nobiltà per autorizzare il libero accesso alla Scrittura. All'altro estremo della scala sociale, la lettura della Bibbia in inglese è totalmente interdetta a “donne, artigiani, apprendisti e dipendenti al servizio di persone di rango pari o inferiore a quello di piccoli proprietari, agricoltori e manovali”. Quanti si situano fra queste due categorie - di fatto i borghesi come le donne nobili, “possono leggere, per se stessi e per altri, tutti i testi della Bibbia e del Nuovo Testamento”. Questa categoria intermedia ha dunque la competenza bastante a non lasciarsi fuorviare, ma manca dell'autorità per imporsi sul proprio ambiente» (p. 253).

Nella Svizzera calvinista si incontrano analoghe cautele:

«Per Calvino, la Bibbia non è direttamente accessibile a chiunque. Si tratta - come spiega nel corso di una predica - di un pane dalla crosta spessa. Per nutrire i suoi figli, Dio vuole “che il pane ci sia tagliato, che i pezzi ci siano messi in bocca e che ci siano masticati”. San Paolo mostra riguardo alla Scrittura che “non basta leggerla ciascuno nel proprio  privato, ma occorre avere le orecchie colpite dalla dottrina da essa estratta e che ci sia predicata perché possiamo esserne istruiti”. Teodoro di Beza fornisce ancora una testimonianza delle resistenze da parte calvinista a mettere la teologia sulla pubblica piazza. Nella dedica alle sue Questions et responses chretiennes, del 1572, il successore di Calvino spiega di aver accettato a malincuore questa traduzione francese del proprio trattato. Si è sentito forzato dalla curiosità del pubblico, del quale denuncia la mania di volersi gettare nei “labirinti” di questioni delicate. L'opinione di Beza è evidente: la teologia costituisce un campo riservato, che esige di “conoscere tutte le vie e i passaggi per i quali bisogna passare e ripassare”» (pp. 253-254).

Gilmont conclude affermando che nelle chiese calviniste del tempo «alla fine, prevale il punto di vista opposto: “non tutti hanno i mezzi per leggere i commenti integrali, né la fermezza di giudizio per recepirne e selezionarne opportunamente la sostanza”» (p. 254).

Pesò evidentemente in tutti quei padri riformatori che spinsero verso una direzione istituzionale i nuovi fermenti il giudizio negativo sull’utilizzo della Scrittura fatto dai capi della rivolta dei contadini, così come da altre letture del testo sacro dissonanti con quella proposta dalle correnti ufficiali della riforma. Si ebbe insomma cura di vigilare affinché una “corretta” interpretazione della Scrittura non portasse al sovvertimento dell’autorità politica e della nuova autorità religiosa.

Gilmont ricorda che solo nelle frange più estremiste della riforma, in effetti, si mantenne la libera interpretazione della Scrittura.  Ma, anche qui, egli sfuma poi subito il giudizio, attestando che presto si giunse anche in quelle ad una nuova ortodossia che restringeva le letture possibili per uniformarsi a quella dei leaders dei gruppi stessi: «A Zurigo, gli anabattisti restano fedeli alle prime prese di posizione di Zwingli e aderiscono ad un'interpretazione radicale della Scrittura: “Dopo aver preso anche noi fra le mani la Scrittura e averla interrogata su tutti i punti possibili, siamo divenuti più istruiti e abbiamo scoperto gli errori enormi e vergognosi commessi dai pastori”. Con sfumature diverse, gli spiritualisti adottano posizioni vicine, rifiutando ogni intervento autoritario nel contatto con i libri sacri. La loro posizione è strettamente connessa alla convinzione della priorità dello Spirito sul testo. Nel Manifesto di Praga, del 1521, Thomas Münzer squalifica i preti che propongono una Scrittura “celata con fare sornione nella Bibbia, con la furberia dei briganti e la crudeltà degli assassini”. Solo gli eletti sono beneficiari della Parola vivente: “Quando il seme cade sul campo fertile, vale a dire nei cuori riempiti del timor di Dio, lì si trovano la carta e la pergamena su cui Dio scrive non con l'inchiostro, ma col suo dito vivente la vera Scrittura santa, di cui la Bibbia esteriore è autentica testimonianza.

Münzer però sa di vivere in una società poco adatta alla lettura individuale. Così egli auspica, in testa alla sua Predica ai prìncipi, del 1524, “che i servitori di Dio, zelanti e infaticabili, diffondano quotidianamente la Bibbia attraverso il canto, la lettura e la predicazione”. Nella stessa logica, egli desidera una liturgia che si svolga in una lingua compresa dal popolo. E si augura che la Bibbia sia letta ad alta voce di fronte al popolo, per consentirgli di appropriarsene. È vero che questo ideale fu disatteso e che Münzer sostituì ben presto la propria predicazione al dettato della Bibbia» (pp. 254-255).

Recentemente è stato Luther Blisset, l’autore collettivo di Q (Einaudi, Torino, 1999), a ricordare in forma romanzata come tutti i rami della riforma si siano presto irrigiditi a propugnare la loro visione dell’ortodossia. Nel romanzo storico Q i gruppi minoritari della riforma divengono alla fin fine ancora più integralisti dei gruppi maggioritari e la narrazione evidenzia non solo le tensioni fra cattolicesimo e mondo protestante, ma anche quella violenta  fra luteranesimo e calvinismo da un lato ed i gruppi più rivoluzionari dall’altro.

Gilmont evidenzia la fioritura dei catechismi nel mondo protestante del tempo fu corrispettiva alla nuova prudenza nell’utilizzo della Bibbia: i riformatori ritenevano che i Catechismi fossero necessari per permettere un’istruzione che garantisse una reale “ortodossia” riformata ed una formazione dei fedeli:

«Il catechismo conosce una fioritura considerevole con la Riforma e la Controriforma. Lutero ha fortemente incoraggiato un catechismo mirante ad un insegnamento cristiano semplice a partire dall'infanzia. Si riallacciava così ad un movimento che affondava le sue radici nel medioevo. Come Jean Gerson nel Quattrocento, Lutero si rende conto che il rinnovamento religioso si scontra tanto contro l'ignoranza delle masse quanto contro l'incapacità catechetica di molti pastori, come chiarisce nella prefazione al suo grande catechismo del 1529. Col suo piccolo catechismo egli va più lontano, prospettando un modello di catechesi da realizzare in famiglia: una volta memorizzati, i testi fondamentali - i Dieci Comandamenti, il Pater, il Credo - devono essere commentati dal padre di famiglia. Ben presto - lo si è visto - Lutero finisce col voler mettere questo tipo di opera nelle mani di tutti al posto della Bibbia.

La Riforma calvinista accorda un ruolo importante al catechismo, come conferma la bibliografia. Se il numero di edizioni della Bibbia e del Nuovo Testamento è impressionante, esso è nullo al confronto di quello dei catechismi e dei salteri. Ed è certo che le nostre stime sono inferiori alla realtà, a causa delle perdite importanti subite da queste opere di uso quotidiano.

Ora, la catechesi è un'attività in cui predomina l’oralità. L’apprendimento mnemonico del catechismo ne precede la spiegazione. Senza dubbio, il libro è indispensabile: il testo letto ad alta voce dal padre di famiglia o dal catechista è seguito in silenzio dagli occhi del fanciullo che ascolta. In quest'uso dello scritto, il libro fa da supporto alla memoria: non è affatto il luogo di scoperta di un messaggio inedito. Non bisogna peraltro svalutare questo tipo di apprendimento piuttosto rigido, né trascurarne gli effetti sull’iniziazione alla lettura» (p. 260).

Ovviamente nel complesso rapporto con il testo biblico giocarono un ruolo decisivo gli apparati di note che venivano redatti appositamente per aiutare il lettore a comprendere i passaggi più difficili. Ma le note avevano anche il fine di favorire una determinata interpretazione:

«L'utilizzazione di queste Bibbie pone un altro problema. Il testo sacro è infatti illustrato con vari strumenti di ausilio alla lettura, che propongono diversi approcci paralleli al testo. Alcuni di questi complementi al testo si situano al principio o alla fine del libro: introduzioni, tavole, riassunti. Ma compaiono anche annotazioni nei margini, con o senza rinvii a partire dal testo. Queste indicazioni marginali sono di natura filologica, teologica o liturgica. Si trovano anche rimandi a passi paralleli. Come si orientava il lettore in mezzo a queste glosse? La Bibbia diveniva oggetto di consultazione dotta? Non è senza interesse ricordare, a proposito di tale “paratesto”, che le autorità cattoliche temevano più questi commentari marginali che non le tradu­zioni realizzate dai protestanti» (p. 263).

Susanna Peyronel Rambaldi, nel giungere a conclusioni analoghe a quelle di Gilmont, sottolinea come le stesse cautele fossero presenti in maniera crescente nelle aree cattoliche. La studiosa ricorda come già Erasmo si fosse espresso in merito:

«Ci sono nelle Scritture – dirà nella famosa polemica con Lutero sul libero arbitrio – “dei santuari reconditi dove Dio non ha voluto che cercassimo di entrare e nei quali, se pur tentassimo di penetrare, saremmo avvolti da caligine vieppiù spessa [... ] Perciò resta lecito trattare di queste cose nelle conferenze per i sapienti o nei corsi di teologia, purché lo si faccia sobriamente; dibatterne invece sulla pubblica piazza davanti ad un uditorio molto vario mi sembra non solo inutile ma pernicioso”» (p. 78).

All’opposto alcuni dei vescovi più illuminati vedevano in maniera fortemente critica l’assenza di formazione dei laici in merito alla Sacra Scrittura. Il cardinale Madruzzo, principe vescovo di Trento, ad esempio,

«difendeva con espressioni quasi erasmiane la volgarizzazione dei testi sacri: “noi quasi neghiamo al santo popolo di Dio questa santa consolazione delle Sacre Scritture [...] nessuna età, nessun sesso, nessuno stato di fortuna, nessuna condizione vanno tenuti lontani dalla lettura delle divine Scritture”» (pp. 79-80).

Mentre, dal canto loro, «gli stessi “spirituali” italiani, che avevano assimilato lezioni e suggestioni non solo da Erasmo, ma anche dalla teologia di Lutero e Calvino (il Beneficio di Cristo ne è la prova più evidente), indietreggeranno spaventati, come aveva fatto anche Erasmo, di fronte alle conseguenze di una teologia ed una Bibbia messa alla portata degli “idioti” e delle “donnicciole”» (p. 80).

D’altronde, la convinzione che solo una maggiore formazione cristiana diffusa fra il popolo potesse permettere di far fronte al pericolo protestante, era chiaro in molti ambienti cattolici, come attestano le riflessioni del cardinale Possevino:

«Quando si dice – scriverà nel De necessitate, utilitate ac ratione docendi catholici catechismi – che non si possa provvedere meglio alla salvezza della repubblica cristiana se non che ciascuno rimanga in quella semplicità nella quale è stato allevato, è cosa che andava nel modo più assoluto contrapposta agli eretici, nel momento in cui hanno invaso la fortezza della chiesa cattolica con falsi catechismi; ma d’altra parte proibire un antidoto quando un tale veleno serpeggia e si sparge ovunque, cos’è se non negare la salvezza alle anime ed impedire in modo efficacissimo la diffusione del nome di Dio? Le tenebre invero sono l’ignoranza, per cui cadiamo nel peccato, vaneggiando sulla verità» (p. 87).

Considerazioni come queste furono alla base dello sforzo educativo messo in atto a partire dal Concilio di Trento, con un lavoro diffuso rivolto ai vescovi, al clero, ai laici.

Dal canto suo, Gigliola Fragnito (Fragnito Gigliola, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Il Mulino, Bologna, 1997)

ha studiato il processo che portò il mondo cattolico al divieto di leggere la Scrittura, senza previa autorizzazione ecclesiastica – tale provvedimento entrò in vigore nel 1596:

«Confrontati con la determinazione e la tempestività dei provvedimenti adottati dalle autorità civili di Spagna, Francia ed Inghilterra tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento per impedire la diffusione della Bibbia nelle lingue vernacole, il ritardo e la contraddittorietà degli interventi romani non mancherebbero in effetti di lasciare stupiti, ove non si tenga conto del numero rilevante di edizioni integrali della Scrittura stampate a Venezia prima della Riforma. La lunga ed incontrastata consuetudine degli italiani con la Bibbia che esse testimoniano dovette influire non poco sulle tergiversazioni delle autorità ecclesiastiche: perfino di fronte al proliferare di versioni “eterodosse” ed alla crescita del numero dei loro lettori in ogni strato della società, in seguito alla penetrazione nella penisola delle dottrine riformate, la Chiesa esitò a lungo prima di adottare misure restrittive. Bisognerà, infatti, attendere l’indice del 1559 per imbattersi nel primo divieto, che verrà, comunque rimesso in discussione fino alla promulgazione dell’indice clementino del 1596. L’azione incerta ed oscillante di Roma – che, pur rivolgendosi all’intera cattolicità, sapeva di poter contare tutt’al più sull’ubbidienza degli Stati italiani – sembra, quindi, essere stata fortemente condizionata dalla difficoltà – ma anche dall’imbarazzo – di sradicare una antica consuetudine, riconosciuta anche dai padri riuniti a Trento, i quali nel 1546 annoveravano l’Italia tra i paesi in cui vi era un’antica familiarità con i testi sacri» (pp. 12-13).

La Fragnito confuta l’errata convinzione che la cessazione dell’utilizzo privato della Scrittura sorga da un decreto tridentino. Ricorda, d’altro canto, come effettivamente si giunse solo a cavallo del secolo ad interrompere in Italia la lettura diretta del testo biblico che era abituale nelle epoche precedenti:

«Se è stato agevole dimostrare l’infondatezza di una tesi consolidata secondo cui sarebbero stati i padri riuniti a Trento a condannare definitivamente le traduzioni bibliche nelle lingue materne – grazie anche alla documentata persistenza di edizioni veneziane postridentine – più arduo è stato ricostruire l’evoluzione tutt’altro che lineare delle posizioni romane negli anni che intercorrono tra l’indice tridentino (1564) e l’indice clementino (1596). Durante quel trentennio, mentre i conflitti ai vertici della Curia facevano insabbiare ben tre indici pronti per la promulgazione, si susseguirono una serie di interventi da parte di Roma che di fatto stravolgevano la normativa dell’indice tridentino ancora ufficialmente in vigore, grazie alla quale vescovi ed inquisitori locali avevano la facoltà di rilasciare licenze per la lettura delle traduzioni» (p. 13).

La valutazione complessiva della Fragnito conferma le ricerche di storici come Gilmont e Peyronel Rambaldi, ma sottolinea come l’assenza della Scrittura nel mondo cattolico fu più sensibile dopo il 1596:

«Anche se è ormai acclarato che sia Erasmo sia i riformatori protestanti, dopo un’iniziale propaganda a favore di un accesso diretto e indiscriminato del popolo alla Sacra Scrittura nelle lingue materne, ripiegarono su posizioni di maggiore cautela, se non addirittura di diffidenza, e se è stato dimostrato che la Bibbia ebbe un ruolo assai meno preminente nelle letture individuali e nella formazione religiosa e culturale di coloro che avevano aderito alle nuove confessioni, la tendenza ad equiparare le posizioni dei protestanti – pur con la variante dei calvinisti, maggiormente propensi ad un approccio individuale alla Bibbia – a quelle dei cattolici è quanto meno fuorviante» (pp. 318-319).

Certo è che il nuovo decreto che vietava la lettura personale della Bibbia si impose lentamente, come dimostra il grande numero di Bibbie che risultano in possesso dei laici e che non destavano nelle autorità cattoliche alcun sospetto di eresia nei confronti di quei possessori:

«Quelle liste di fine secolo [che indicavano le Bibbie sequestrate a laici che non erano minimamente sospettati di eresia], in cui tanti volgarizzamenti biblici vennero inseriti senza destare in chi li sequestrava il sospetto che i possessori fossero eretici, documentano ancor oggi il tenace attaccamento ai testi biblici e l’audace e rischiosa difesa di un’antica tradizione» (p. 328).

Al termine del suo studio, la Fragnito cita, a livello esemplificativo della prassi di fine Cinquecento, la documentazione relativa alla concessione del permesso di tenere con sé la Bibbia ricevuto da una coppia, mostrandoci la prassi che intercorse dal 1596 fino ai nuovi decreti che renderanno nuovamente libero l’accesso alla Scrittura emanati nel 1758, con Benedetto XIV:

«Si veda la supplica inoltrata il 27 ottobre 1597 al Maestro del Sacro Palazzo da due coniugi vicentini, Bartolomeo e Maddalena Camiolo, i quali chiedevano “di potere tenere gli Evangelii latini et volgari ligati insieme quali desiderano leggere per loro devotione et dal detto loro curato si farà fede [...] che gli detti oratori sono buoni Christiani et senza alcun sospetto di heresia et tutto receveranno per gratia singulare”. Allegato alla supplica l’attestato del parroco di San Salvatore a Roma, Alfonso Baldini, il quale certificava che i suoi parrocchiani erano buoni cristiani, confitentes et communicantes saepe in anno, e liberi da ogni sospetto di eresia. L’autorizzazione venne concessa a condizione che si trattasse di un’edizione annotata da Remigio Nannini. Cfr. ASO, Indice, vol. XVIII/1, f. 219r» (p. 329)[2].

Merita ricordare che il Concilio di Trento aveva esplicitamente chiesto, in maniera tassativa, che l’opera di riforma cattolica avvenisse tramite una conoscenza dei tesori della Scrittura che dovevano esser messi a disposizione del popolo, come afferma lungamente il Secondo decreto del Concilio stesso Sulla lettura della S. Scrittura e la predicazione:

«1. Lo stesso sacrosanto sinodo, aderendo alle pie costituzioni dei sommi pontefici e dei concili approvati, le fa sue; e volendo completarle, perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito Santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la Sacra Scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi.

Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi.

Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida. [...]

8. Gli insegnanti di Sacra Scrittura, nel tempo in cui insegnano pubblicamente nelle scuole, e così pure gli studenti godano ed usufruiscano di tutti i privilegi concessi dal diritto di percepire i frutti delle loro prebende e dei loro benefici anche durante la loro assenza.

9. Poiché, tuttavia, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione del Vangelo, che la sua lettura, e questo è il principale ufficio dei vescovi, lo stesso santo sinodo ha stabilito e deciso che tutti i vescovi, arcivescovi, primati, e tutti gli altri prelati di chiese siano tenuti a predicare personalmente il santo Vangelo di Gesù Cristo se non ne sono legittimamente impediti.

10. Se i vescovi e le altre persone nominate fossero impedite da un legittimo motivo, siano tenuti, conformemente a quanto prescrive il concilio generale, a farsi sostituire da persone adatte per questo ufficio della predicazione.

Se qualcuno trascurasse di adempiere ciò, sia sottoposto ad una pena severa.

11. Anche gli arcipreti, i pievani, e tutti coloro che abbiano cura d’anime nelle parrocchie o altrove, personalmente o per mezzo d’altri se ne fossero legittimamente impediti, almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni, nutrano il popolo loro affidato con parole salutari, secondo la propria e la loro capacità, insegnando quelle verità che sono necessarie a tutti per la salvezza e facendo loro conoscere, con una spiegazione breve e facile, i vizi che devono fuggire e le virtù che devono praticare, per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste.

Se poi qualcuno di loro fosse negligente anche se pretendesse di essere esente dalla giurisdizione del vescovo per qualsiasi motivo o anche se le chiese fossero ritenute in qualsiasi modo esenti, o forse annesse o unite a qualche monastero, situato magari fuori diocesi, purché in realtà si trovino nella diocesi, non manchi la provvidenziale sollecitudine dei vescovi, perché non debba avverarsi il detto: I piccoli chiesero il pane e non vi era chi lo spezzasse loro».

Si noti come la sottolineatura è quella della predicazione, mentre è passata sotto silenzio la lettura personale del testo sacro. La Scrittura non è assente dalla visuale del Concilio di Trento, ma deve essere mediata dalla viva voce della catechesi.

A livello iconografico, l’importanza della Sacra Scrittura è manifesta anche nell’arte del Cinquecento ed in quella successiva dell’età barocca.

Si pensi allo straordinario dipinto di Lorenzo Lotto, Matrimonio mistico di Santa Caterina (1524, Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini), dove vengono rappresentati insieme il valore del Libro Sacro, il valore della santità che legge e testimonia la rivelazione ed infine il ruolo di Cristo Bambino, Parola di Dio, che celebra le sue nozze con Santa Caterina. Nel dipinto la Vergine volta la pagina del testo sacro, poiché con il suo assenso all’Incarnazione la Parola di Dio diviene carne.

Si pensi anche al San Matteo e l’angelo del Caravaggio della Cappella Contarelli in San Luigi dei francesi (l’opera è del 1602), dove l’ispirazione divina delle Scritture è posta in rilievo.

Giova ricordare che è solo con il Concilio di Trento – e non precedentemente, come da più parti si sente affermare – che si giunse ad una precisa definizione del canone. Prima di quel momento il valore canonico dei libri si era imposto – si potrebbe dire – quasi spontaneamente, senza che fosse necessario un intervento autoritativo in materia.

Il canone venne fissato con il Primo decreto del Concilio Si ricevono i libri sacri e le tradizioni apostoliche, che doveva servire come base delle future questioni:

«Il sacrosanto, ecumenico e generale concilio tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza dei medesimi tre legati della sede apostolica, ha sempre presente che, tolti di mezzo gli errori, si conservi nella chiesa la stessa purezza del Vangelo, quel Vangelo che, promesso un tempo attraverso i profeti nelle scritture sante, il Signore nostro Gesù Cristo, figlio di Dio, prima promulgò con la sua bocca, poi comandò che venisse predicato ad ogni creatura per mezzo dei suoi apostoli, quale fonte di ogni verità salvifica e della disciplina dei costumi.

E poiché il sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte - che raccolte dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo e dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, tramandate quasi di mano in mano, sono giunte fino a noi, — seguendo l’esempio dei padri ortodossi, con uguale pietà e pari riverenza accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testamento, - Dio, infatti, è autore dell’uno e dell’altro ed anche le tradizioni stesse, che riguardano la fede e i costumi, poiché le ritiene dettate dallo stesso Cristo oralmente o dallo Spirito santo, e conservate con successione continua nella chiesa cattolica.

E perché nessuno possa dubitare quali siano i libri accettati dallo stesso sinodo come sacri, esso ha creduto opportuno aggiungere a questo decreto l’elenco. Dell’antico Testamento: i cinque di Mosè, e cioè: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio; Giosuè, Giudici, Ruth; i quattro dei Re; i due dei Paralipomeni; il primo e il secondo di Esdra (che è detto di Neemia); Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe; i Salmi di David; i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia con Baruch, Ezechiele, Daniele; i dodici Profeti minori, cioè: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due dei Maccabei, primo e secondo.

Del nuovo Testamento: i quattro Evangeli: secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni; gli Atti degli apostoli, scritti dall’evangelista Luca; le quattordici Lettere dell’Apostolo Paolo: ai Romani, due ai Corinti, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei; due dell’apostolo Pietro, tre dell’apostolo Giovanni, una dell’apostolo Giacomo, una dell’apostolo Giuda, e l’Apocalisse dell’apostolo Giovanni.

Se qualcuno, poi, non accetterà come sacri e canonici questi libri, interi con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella chiesa cattolica e come si trovano nell’edizione antica della volgata latina e disprezzerà consapevolmente le predette tradizioni, sia anatema». 

Come è evidente dalle righe finali, il Concilio non volle assolutamente definire una qualsivoglia ispirazione divina della traduzione latina della Bibbia, bensì affermare che la tradizione era criterio nella lettura della Scrittura.

Se la chiesa per secoli aveva letto nella liturgia eucaristica ed utilizzato nella predicazione quei libri, in tutte le loro parti, proprio quei libri, con tutte le loro parti - compresi, ad esempio, i deuterocanonici, la Lettera di Giacomo, la finale lunga di Marco ed il brano dell’adultera in Giovanni, che non figurano in tutti i manoscritti antichi - andavano considerati ispirati, perché sempre la chiesa aveva pregato con essi.

Si utilizzava così l’antico assioma lex orandi lex credendi per mostrare che i dubbi sul Canone non erano legittimi e che era la vivente Tradizione della chiesa ad asserire concordemente che quei libri erano canonici ed ispirati e che di essa non si doveva dubitare, poiché era stata guidata dallo Spirito Santo (cfr. su questo V. Mannucci, Bibbia come Parola di Dio, Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Queriniana, Brescia, 1983, pp. 207-208).

3/ Le traduzioni in italiano della Bibbia nella storia. Appunti da una relazione di Marco Zappella (di A.L.)

Intervenendo ad un incontro dell’Ufficio catechistico Regionale del Lazio il 10/3/2011, il prof. Marco Zappella ha tenuto una relazione dal titolo Tradizione, Traduzione (e... qualche tradimento?). Presentiamo alcuni appunti presi nel corso della sua relazione, relativi ad uno dei temi da lui affrontati, quello della traduzione della Bibbia nella storia. I nostri appunti non sono stati da lui rivisti, non hanno alcuna pretesa di incompletezza ed eventuali errori in essi sono da attribuire alla nostra mano e non a quella del relatore. 

È fondamentale capire come un evento di traduzione si radica in una tradizione. Ogni traduzione ha creato tradizione. Ma ogni traduzione dipende a sua volta dalla tradizione. La Vulgata ha creato tradizione fino al Cinquecento. A sua volta Girolamo ha tradotto ex novo alcune cose, mentre ha lasciato altre come erano.

Con la nuova traduzione della Bibbia CEI (in realtà una revisione della precedente traduzione) stiamo allora vivendo un momento “epocale”, nel senso che si crea una nuova epoca che dovrà fare i conti con la nuova versione del testo biblico. Bisognerebbe riflettere maggiormente sulla novità di questo momento ecclesiale, su questo importante passaggio ad un nuovo testo.

Per comprendere meglio questo, è utile compiere un breve excursus storico.

Se noi guardiamo con attenzione i momenti nei quali si è giunti nella storia a nuove traduzioni bibliche ci accorgiamo che queste traduzioni si concentrano in alcune epoche.

Vediamo che, in Italia, è centrale la data del 1471, quando il monaco camaldolese Nicolò Malermi tradusse a Venezia la Bibbia. Era evidente in lui la consapevolezza che il testo biblico necessitasse di una nuova traduzione. Ma la sua opera non è isolata. Ad esempio l’umanista Giannozzo Manetti, nella prima metà del Quattrocento, esprime la necessità di una migliore versione della Bibbia in lingua volgare italiana. De Lubac, dal canto suo, ha mostrato – con Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del Rinascimento -, se ce ne fosse ancora bisogno, le redici cristiane del Rinascimento, analizzando tutto il rifiorire di studi che si ebbe a quel tempo e al relazione di quel tempo con un rinnovato rapporto con la Bibbia.  

Il Concilio di Trento non prescrive l’obbligo della Bibbia in latino. Afferma piuttosto che la Vulgata sia da utilizzare nel dibattito pubblico (cioè in particolare nel dibattito con i protestanti). Trento non dice niente sulla lettura “privata” della Bibbia che sarà vietato invece successivamente a partire dalla Spagna.

Ma è comunque solo con Antonio Martini che si giunge ad una nuova traduzione della Bibbia in italiano (1778-1780). La sua edizioni fece storia per i secoli a venire.

Poi, dopo un nuovo periodo senza grandi novità in campo cattolico, con Pio XII, nel periodo della II guerra mondiale, si nota una nuova accelerazione, dopo l’enciclica Divino afflante Spiritu (1943). Si collocano intorno a quella data le Bibbie di Eusebio Tintori (1931), di Giuseppe Ricciotti (1955), del Pontificio Istituto Biblico, a cura di p. Vaccari (1958), la Bibbia di Fulvio Nardoni (1960), la collana La Sacra Bibbia delle Edizioni Marietti a cura di Salvatore Garofalo (1947-1960) ed infine la Sacra Bibbia a cura di Enrico Galbiati, Angelo Penna e Piero Rossano della UTET (1963, 1964, 1973) che poi confluirà nella prima traduzione CEI del 1971 e 1974.

Se guardiamo il versante protestante ci accorgiamo che esistono anche lì delle svolte: Si inizia con la Bibbia di Antonio Brucioli (1530) riveduta da Filippo Rustici (1552). Segue pochi anni dopo la Bibbia di Giovanni Diodati (1607) che si potrebbe definire come la “vulgata” del mondo protestante, che viene ristampata con successive revisioni nel 1641, nel 1712, nel 1744, nel 1819, nel 1821.

Solo nel 1924 si arriva ad una vera nuova versione con la Riveduta, curata dal valdese Giovanni Luzzi (1924) che riparte dai testi originali, cui seguiranno nel 1991 la Nuova Diodati e, nel 1994, revisione 1997, la Nuova Riveduta.

Si vede così che anche il mondo protestante ha conosciuto una stasi tra il 1607 ed il 1924. A cosa è dovuto questo periodo meno creativo dal punto di vista delle traduzioni? Si vede che c’è una stasi non solo in campo cattolico, ma anche in campo protestante: perché?

Per comprendere questi silenzi ed i corrispettivi momenti di creatività nelle traduzioni bisogna soffermarsi sul fatto che ciò che cambia è la comprensione del “testo originale”.

In campo cattolico fino ad un certo momento si è ritenuto che una Bibbia fosse autorevole perché tradotta dalla Vulgata. Poi comincia ad apparire chiara la convinzione che una Bibbia è autorevole perché è tradotta dai testi originali!

Ma il testo originale – questa è una cosa tipica della Bibbia – non c’è! La Bibbia è un testo complessivamente affidabile, ricostruito tramite confronti affidabili, ma comunque non un testo di cui possediamo l’originale alla lettera (è subito evidente la differenza, ad esempio, con la teologia islamica che asserisce di possedere il testo assolutamente originario del Corano stesso, senza alcuna variante e variazione possibile).

Nella prospettiva cristiana il testo biblico è un testo di carattere “povero”, è l’essere disarmato della Parola di Dio scritta. E’ una parola che è in parte ricostruita e, quindi, un po’ anche “debole”. E’ questa consapevolezza che determina la necessità di sempre nuove traduzioni.

Torniamo ora alla nostra domanda iniziale, dopo quello che abbiamo detto. Perché ci sono stati periodi storici che hanno conosciuto nuove traduzioni che si sono poi imposte? E perché  periodi di stasi nel lavoro di traduzione?

Perché in quel periodo si riesce a ricostruire meglio il testo originale. Perché in quel preciso momento la chiesa ha ritenuto, a partire anche dalla cultura del tempo, di poter fare passi avanti nella comprensione del testo.

Vediamo che Erasmo è un primo punto di arrivo. Perché in quel tempo, con l’umanesimo e il rinascimento, nasce un’accresciuta consapevolezza del tenore del testo originario, grazie anche agli studi classici che si approfondiscono ed ai nuovi manoscritti che giungono in occidente al momento della caduta di Costantinopoli.

Ecco perché nascono le nuove traduzioni a partire dalla seconda metà del Quattrocento e poi nel Cinquecento. Poi la ricostruzione del testo originale conosce una stasi, non ci sono ricerche nuove da affrontare.

Un nuovo interesse per il testo originale, con la consapevolezza di possedere ulteriori elementi rispetto alle epoche precedenti, rinasce nel periodo che porterà all’illuminismo. Ecco perché sorge la Bibbia di Antonio Martini.

Poi un nuovo periodo di calma ed ecco il secondo dopoguerra con la sua fioritura di studi. C’è tutto un nuovo rinnovamento degli studi biblici e patristici che rende necessarie, a partire da Pio XII, nuove traduzioni.

Si potrebbe dire che ogni traduzione implica una nuova consapevolezza della comunità ecclesiale e questa precede l’impresa della nuova traduzione. Ma, allo stesso tempo, ogni nuova traduzione veicola una coscienza di fede che si rinnova. 

4/ Bibliografia per un primo approfondimento

Questa bibliografia non ha alcuna pretesa di esaustività. Vuole solo dare qualche indicazione per un primo approfondimento.

  • Abbattista Ester, Origene legge Geremia. Analisi, commento e riflessioni di un biblista di oggi, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2008.
  • Betori Giuseppe, Bibbia e comunità cristiana dal Concilio ad oggi, in “Vita e pensiero” 2006, pp. 89-94.
  • Bianchi Ugo, Marcion: theologien biblique ou docteur gnostique?, in “Vigiliae Christianae 21 (1967), pp. 141-149.
  • Cremascoli Giuseppe – Leonardi Claudio (a cura di), La Bibbia nel Medio Evo, EDB, Bologna, 1996.
  • Fabris Rinaldo (a cura di), La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea, EDB, Bologna, 1992.
  • Fragnito Gigliola, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Il Mulino, Bologna, 1997.
  • Gilmont, Jean-François, Riforma protestante e lettura, in Cavallo Guglielmo – Chartier Roger, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 2009, pp. 243-275.
  • Istituto Centrale per il catalogo unico delle Biblioteche Italiane e per le informazioni bibliografiche, Bibbia. Catalogo di edizioni a stampa 1501-1957, Roma, 1983.
  • La Bibbia nell’epoca moderna e contemporanea, Fabris Rinaldo (a cura di), EDB, Bologna, 1992.
  • Lumini Antonella (a cura di), La Bibbia. Edizioni del XVI secolo, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2000.
  • Mannucci Valerio, Bibbia come Parola di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Queriniana, Brescia, 1983.
  • Martini Carlo Maria, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, in La Bibbia nella Chiesa dopo la “Dei Verbum”. Studi sulla costituzione conciliare, Edizioni Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172.
  • Peyronel Rambaldi Susanna, Educazione evangelica e catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e “civilitas”. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, Bigalli Davide (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 73-92.
  • Pacomio Luciano, La Bibbia nella Teologia dai secoli XIII-XIV fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, in Martini Carlo Maria – Pacomio Luciano, I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Marietti, 1975, pp. 123-224.
  • Platone Giuseppe (a cura di), La Bibbia e l’Italia, Claudiana, Torino, 2004.
  • Prato Gian Luigi, Antico Testamento e culture coeve: dal rifiuto illusorio all’assimilazione vitale, in “Gregorianum” 73 (1992), pp. 697-717.
  • Prinzivalli Emanuela, Il significato dello studio dell’esegesi del Padri riguardo la donna/le donne nella Scrittura. Il caso dell’esegesi alessandrina, in “Annali di studi religiosi” 9 (2008), pp. 267-277.
  • Riché Pierre – Châtillon Jean – Verger Jacques, Lo studio della Bibbia nel Medioevo latino, Paideia, Brescia, 1989.
  • Rinaldi Giancarlo, La Bibbia dei pagani, 2 voll. EDB, Bologna, 1998.
  • Sieben Hermann Josef, Exegesis Patrum. Saggio bibliografico sull’esegesi biblica dei Padri della Chiesa, Istituto patristico Augustinianum, Roma, 1983.
  • Simonetti Manlio, Profilo storico dell’esegesi patristica, Istituto patristico Augustinianum, Roma, 1981.
  • Simonetti Manlio, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Institutum patristicum Augustinianum, Roma, 1985.
  • Simonetti Manlio, Cristianesimo e cultura greca, Borla, Roma, 1983.
  • Smalley Beryl, Lo studio della Bibbia nel Medioevo, EDB, Bologna, 1972.
  • Vaccari A., Esegesi ed esegeti al Concilio di Trento, in “Biblica” 27 (1946), pp. 320-337.
  • Vian Giovanni Maria, Bibliotheca divina. Filologia e storia dei testi cristiani, Carocci, Roma, 2001.
  • Vignolo Roberto, Teologia biblica, teologia della Bibbia e dintorni, in RivB 56 (2008), pp. 129-155.
  • Von Harnack, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero, Marietti, Genova-Milano, 2007.
  • Vosté J. – M., La Volgata al Concilio di Trento, in “Biblica” 27 (1946), pp. 301-319.

Note al testo

[1] Lutero prevedeva l’utilizzo della Bibbia in tedesco solo per il volgo, perché esso non era purtroppo in grado di comprendere il latino, ma riteneva il tedesco una lingua non adatta per le discussioni teologiche e chiedeva ai suoi di utilizzarla in latino negli studi esegetici e dogmatici, poiché il latino era - a suo dire - una lingua più precisa per quel tipo di scopi.
Gilmont ricorda a proposito una confidenza di Lutero: «Sudo sangue e acqua per rendere i Profeti in volgare. Buon Dio, che fatica, e come è arduo forzare gli scrittori ebraici a parlare in volgare! Senza volere abbandonare la loro ebraicità, rifiutano di immergersi nella barbarie germanica. È come se l'usignolo, perdendo la sua dolce melodia, fosse obbligato ad imitare il cuculo e la sua voce monotona» (p. 250).

[2] Merita precisare che i “libri proibiti” non erano semplicemente da far scomparire, bensì da leggere dietro previa autorizzazione. Ancora alcuni secoli dopo, ad esempio, Monaldo Leopardi aveva nella biblioteca personale, da lui messa a disposizione della cittadina di Recanati per il pubblico utilizzo, una sezione di “libri proibiti” per i quali aveva ricevuto l’autorizzazione affinché tutti i suoi figli, compreso Giacomo, potessero avervi libero accesso, ma non gli altri eventuali lettori.