Thomas Becket e la fede che non accetta compromessi. Ravasi: «Oggi, invece, prevale il "vivendo, e quasi vivendo"», di Mariaelena Finessi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 16 /03 /2011 - 13:33 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito dell’Agenzia di stampa Zenit un articolo di Mariaelena Finessi, pubblicato il 15/3/2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (16/3/2011)

«Ormai non ci interroghiamo più, anzi, in un’epoca in cui nessuno fa l'esame di coscienza, nemmeno ci accorgiamo più dov'è il male». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, chiamato a commentare il tema della "Tentazione", si ispira per la sua meditazione all'opera di Thomas Stearns Eliot "Assassinio nella Cattedrale".

A precedere la riflessione del cardinale, nella Chiesa del Gesù a Roma lo scorso 11 marzo, la lettura di una riduzione del dramma in cui Ravasi scorge una similitudine con l'attualità. Quindi cita il "Faust" di Goethe: «Abbiamo perso il grande Maligno e ci sono rimasti tutti i piccoli mascalzoni».

Scritto nel 1935, all'età di 47 anni, quello del poeta angloamericano è un testo in versi che rievoca il martirio di Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, ucciso sull'altare nel 1170. In un clima di scisma tra monarchia inglese e Chiesa di Roma, dopo sette anni di esilio in Francia, il prelato torna in Inghilterra per risolvere il dissidio con il re, Enrico II. La situazione politica è però estremamente pericolosa, tanto per lui quanto per i suoi fedeli.

La missione spirituale di Becket s'imbatte negli ostacoli generati dai suoi conflitti interiori, che si materializzano nelle figure di quattro Tentatori. «Il primo – racconta – Ravasi - ricorda all'arcivescovo la sua giovinezza dissoluta e le immagini evocative cui ricorre Eliot sono quelle dei "flauti pei campi, viole nella sala, fiori di melo a galleggiar su l’acqua", i sussurri nelle stanze, il buio e il vino».

Il secondo Tentatore lo invita a gettare la tonaca e rivestire i panni del Gran Cancelliere, ma Tommaso, che sa che cos'è la forza attrattiva del potere, essendosi inebriato al suo calice, risponde: "Potere temporale? Potere con il Re? Io fui il Re, fui il suo braccio, fui la sua ragione! Ma tutto ciò che già fu esaltazione ora sarebbe un misero declino".

Falliti i primi due tentativi di farlo cadere, il terzo Tentatore gli suggerisce, anch'egli invano, di congiurare contro il re e allearsi con i baroni feudali che «rappresentano il nazionalismo – spiega Ravasi - , l'interesse di casta, il gioco sottile degli interessi, i piccoli tradimenti».

Ben poca cosa sono però le lusinghe del piacere e del potere rispetto alla gloria del martirio, e quindi al fascino dell'immortalità che gli prospetta il quarto: "Che sono il piacere e il governo regale ed il comando, in confronto al dominio universale della supremazia spirituale? Pensa,Tommaso, pensa alla gloria che vien dopo la morte. Se morto è il Re, v’è un altro Re e un altro Regno. Ma il Santo e il Martire regnano dalla tomba...".

Becket, tenace, respinge anche quest'ultima tentazione che è, si, "il tradimento più grande". E il giorno di Natale, durante la predica, spiega al popolo il senso del martirio cristiano, che "non è un caso, né mai disegno è d’uomo...Vero martire è quel che non desidera più nulla per sé, neppur la gloria del martirio: è quello che strumento è divenuto di Dio, che nella volontà di Dio, nella sottomissione a Dio soltanto, ha trovato la vera libertà".

La vera tentazione allora è questa: "Compiere l’azione giusta ma per la ragione sbagliata".

Così, quando s'avvicinano alla cattedrale i quattro cavalieri inviati dal re, intimando a Tommaso di revocare la scomunica sui vescovi che hanno incoronato Enrico, l'arcivescovo non arretra dalla sua scelta, che è ormai compiuta, e neppure fugge.

È in gioco, qui, la coscienza e la coerenza, chiarisce il cardinale Ravasi, eternamente in tentazione e ben espressa dai sacerdoti quando urlano "Chiudete le porte! Sprangatele tutte…Siam salvi, siam salvi!...Non possono irrompere...non ne hanno la forza". «Intendono dire, cioè, che sono salvi  nel loro spazio protetto – chiarisce il porporato –, dove non vogliono che la grande prova entri».

Tommaso ordina di aprire le porte, di lasciare entrare i sicari: "Io do la mia vita per la legge di Dio, superiore a quella dell’uomo". Becket dà la vita non per la gloria ma per coerenza alla sua coscienza: è il momento della manifestazione della grande dignità, della fede che non accetta compromessi.

Per la sua meditazione, il cardinale Ravasi attinge a "I quattro quartetti", altra opera di Eliot, Premio Nobel per la Letteratura nel 1948. Dal testo, che celebra l’ingresso nell'eternità, traspare una grande tensione ideale e politica.

Qui il drammaturgo individua, con lirica sublime, il punto d'intersezione tra il "time" e il "timeless", tra il tempo e il senza tempo. «Si tratta di un'occupazione da santo, scrive Eliot, che poi si corregge, chiarendo che non è tanto un’occupazione quanto invece qualcosa che è "given" e "taken", dato e ricevuto», ricorda Ravasi.

E quando si riceve questo dono dell'eternità? Quando si afferra l'attimo della intersezione? Durante la vita, è la risposta. Anzi, sottolinea Ravasi, «in un morire d’amore durante il tempo della vita» ("In a lifetime's death in love, Ardour and selflessness and self-surrender"). Con la negazione e il totale abbandono di se.

Concludendo, nel capolavoro di Eliot «emerge con evidenza il parallelismo creato dal poeta tra la vicenda di Becket e la passione di Cristo, dalle tentazioni del demonio al sacrificio necessario per il riscatto dell'umanità. E allora, come oggi, le donne incarnano l'orizzonte in cui ci troviamo», sottolinea il cardinale.

«Noi non viviamo in un tempo di grandi tragedie, viviamo invece in un tempo di modeste intelligenze e ancor più meschini comportamenti in quel "vivendo, e quasi vivendo" che è il tipico atteggiamento della persona banale». Quel galleggiare, senza scendere nelle profondità dell'esistenza.

Nella poesia del 1925, "Uomini vuoti", Eliot scriveva che è questo ormai il modo in cui finisce il mondo, non con uno schianto, un "bang", ma con un piagnucolio ("This is the way the world ends. Not with a bang but a whimper").

Nei Cori de "La Rocca", altro grande lavoro letterario, Eliot commenta con una lucida sequenza ternaria: "Dov’è la sapienza che abbiamo perso con le nozioni? Dov’è la vita che abbiamo perso vivendo?". «Letteralmente – conclude Ravasi - dov'è la Vita (con la maiuscola, ndr), che abbiamo perso con questa vita (minuscola, ndr)»?