Gesù davanti a Pilato, il traditore e la datazione dell’ultima cena. Tre brani dal II volume di Gesù di Nazaret, il nuovo libro di J. Ratzinger – Benedetto XVI
Riprendiamo da Avvenire del 3/3/2011 i brani che il quotidiano ha anticipato dal II volume del Gesù di Nazaret di J. Ratzinger – Benedetto XVI. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Sul I volume vedi, su questo stesso sito:
- Presentazione del libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret ai catechisti della Diocesi di Roma, di Andrea Lonardo
- Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: le radici della fede. Una intervista di Angelo Zema a don Andrea Lonardo
Il Centro culturale Gli scritti (9/3/2011)
Indice
- 1/ Gesù davanti a Pilato, dal capitolo intitolato «Il processo a Gesù».
- 2/ Il “mistero” del traditore, dal capitolo intitolato «La lavanda dei piedi».
- 3/ La cronologia di Giovanni, dal quarto capitolo dedicato a «L’Ultima Cena»
1/ Gesù davanti a Pilato, dal capitolo intitolato «Il processo a Gesù».
L’interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio si era concluso così come Caifa se l’era aspettato: Gesù era stato dichiarato colpevole di bestemmia, un reato per il quale era prevista la pena di morte.
Ma siccome il potere di infliggere la pena capitale era riservato ai Romani, il processo doveva essere trasferito davanti a Pilato e con ciò doveva entrare in primo piano l’aspetto politico della sentenza di colpevolezza. Gesù si era dichiarato Messia, aveva quindi preteso per sé la dignità regale, anche se in modo del tutto particolare. La rivendicazione della regalità messianica era un reato politico, che dalla giustizia romana doveva essere punito. [...]
Domandiamoci anzitutto: chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte? Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere. Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i «Giudei». Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto – come il lettore moderno forse tende ad interpretare – il popolo d’Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere «razzista». In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era Israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi. L’intera comunità primitiva era composta da Israeliti. In Giovanni tale espressione ha un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l’aristocrazia del tempio. [...]
In Marco, nel contesto dell’amnistia pasquale (Barabba o Gesù), il cerchio degli accusatori appare allargato: compare l’«ochlos» ed opta per il rilascio di Barabba. «Ochlos» significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la «massa». Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di «plebaglia». In ogni caso con ciò non è indicato «il popolo» degli Ebrei come tale. (...) Per quanto riguarda questa «massa», si tratta di fatto dei sostenitori di Barabba, mobilitati per l’amnistia; come rivoltoso contro il potere romano, questi poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti. Erano quindi presenti i seguaci di Barabba, la «massa», mentre gli aderenti a Gesù per paura rimanevano nascosti, e in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale. Così in Marco accanto ai «Giudei», cioè agli autorevoli circoli sacerdotali, compare, sì, l’ochlos, il gruppo dei sostenitori di Barabba, non però il popolo ebreo come tale.
Un’amplificazione dell’ochlos di Marco, fatale nelle sue conseguenze, si trova in Matteo (27,25), che parla invece di «tutto il popolo», attribuendo ad esso la richiesta della crocifissione di Gesù. Con questo, Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco. [...] Se secondo Matteo « tutto il popolo» avrebbe detto: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27,25), il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un’altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr Eb12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione.
Non viene versato contro qualcuno, ma è sangue versato per molti, per tutti. «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio... È lui [Gesù] che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione ... nel suo sangue », dice Paolo (Rm3,23.25). Come in base alla fede bisogna leggere in modo totalmente nuovo l’affermazione di Caifa circa la necessità della morte di Gesù, così deve farsi anche con la parola di Matteo sul sangue: letta nella prospettiva della fede, essa significa che tutti noi abbiamo bisogno della forza purificatrice dell’amore, e tale forza è il suo sangue. Non è maledizione, ma redenzione, salvezza. Soltanto in base alla teologia dell’ultima cena e della croce presente nell’intero Nuovo Testamento la parola di Matteo circa il sangue acquisisce il suo senso corretto.
Passiamo dagli accusatori al giudice: il governatore romano Ponzio Pilato. Mentre Giuseppe Flavio ed in modo particolare Filone d’Alessandria tracciano di lui un’immagine del tutto negativa, egli appare in altre testimonianze come risoluto, pragmatico e realistico. Si dice spesso che i Vangeli, in base ad una tendenza filoromana motivata politicamente, lo avrebbero presentato in modo sempre più positivo, caricando progressivamente sugli Ebrei la responsabilità per la morte di Gesù. A sostegno di una tale tendenza, però, non c’era alcuna ragione nella situazione storica degli evangelisti: quando furono redatti i Vangeli, la persecuzione di Nerone aveva ormai mostrato il lato crudele dello Stato romano e tutta l’arbitrarietà del potere imperiale. Se possiamo datare l’Apocalisse più o meno al periodo in cui fu composto il Vangelo di Giovanni, diventa evidente che il quarto Vangelo non si è formato in un contesto che avrebbe dato motivo ad un’impostazione filo-romana.
L’immagine di Pilato nei Vangeli ci mostra il prefetto romano molto realisticamente come un uomo che sapeva intervenire in modo brutale, se questo gli sembrava opportuno per l’ordine pubblico. Ma egli sapeva anche che Roma doveva il suo dominio sul mondo non da ultimo alla tolleranza di fronte a divinità straniere e alla forza pacificatrice del diritto romano. Così egli ci si presenta nel processo a Gesù. [...]
Pilato sapeva che da Gesù non era sorto un movimento rivoluzionario. Dopo tutto ciò che egli aveva sentito, Gesù deve essergli sembrato un esaltato religioso, che forse violava ordinamenti giudaici riguardanti il diritto e la fede, ma ciò non gli interessava. Su ciò dovevano giudicare i Giudei stessi. Sotto l’aspetto degli ordinamenti romani concernenti la giurisdizione e il potere, che rientravano nella sua competenza, non c’era nulla di serio contro Gesù.
A questo punto dobbiamo passare dalle considerazioni sulla persona di Pilato al processo stesso. [...] Nell’interrogatorio, ecco all’improvviso un momento che suscita eccitazione: la dichiarazione di Gesù. Alla domanda di Pilato: «Dunque tu sei re?», Egli risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Già prima Gesù aveva detto: «La mia regalità [il mio regno] non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18,36). Questa «confessione» di Gesù mette Pilato davanti ad una strana situazione: l’accusato rivendica regalità e regno (basileía). Ma sottolinea la totale diversità di questa regalità, e ciò con l’annotazione concreta che per il giudice romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità. [...] Questo regno è non violento. Non dispone di alcuna legione.
Con queste parole, Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso. [...] Gesù [...] qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza alla verità.
La verità è forse una categoria politica? Oppure il «regno» di Gesù non ha niente a che fare con la politica? A quale ordine allora esso appartiene? Se Gesù basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: «Che cos’è la verità?» (18,38). [...] «Dare testimonianza alla verità» significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell’essere. In questo senso, la verità è il vero «re» che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza. [...] Senza la verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti. «Redenzione» nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo.
In Lui Dio è entrato nel mondo, ed ha con ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia. La verità esternamente è impotente nel mondo; come Cristo, secondo i criteri del mondo, è senza potere: Egli non possiede alcuna legione. Viene crocifisso. Ma proprio così, nella totale mancanza di potere, Egli è potente, e solo così la verità diviene sempre nuovamente una potenza. [...]
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). In questa apparenza caricaturale Gesù (flagellato e coronato di spine dai soldati, ndr) viene condotto da Pilato, e Pilato lo presenta alla folla – all’umanità: Ecce homo – Ecco l’uomo! (Gv19,5). Probabilmente il giudice romano è sconvolto dalla figura percossa e schernita di questo misterioso accusato. Egli conta sulla compassione di coloro che lo vedono.
«Ecce homo» – questa parola acquisisce spontaneamente una profondità che va al di là del momento. In Gesù appare l’essere umano come tale. In Lui si manifesta la miseria di tutti i colpiti e rovinati. Nella sua miseria si rispecchia la disumanità del potere umano, che schiaccia così l’impotente. In Lui si rispecchia ciò che chiamiamo «peccato»: ciò che l’uomo diventa quando volge le spalle a Dio e prende autonomamente in mano il governo del mondo.
Ma è vero anche l’altro aspetto: a Gesù non può essere tolta la sua intima dignità. Resta presente in Lui il Dio nascosto. Anche l’uomo percosso ed umiliato rimane immagine di Dio. Da quando Gesù si è lasciato percuotere, proprio i feriti e i percossi sono immagine del Dio che ha voluto soffrire per noi. Così, nel mezzo della sua passione, Gesù è immagine di speranza: Dio sta dalla parte dei sofferenti. [...]
2/ Il “mistero” del traditore, dal capitolo intitolato «La lavanda dei piedi».
La pericope della lavanda dei piedi ci mette di fronte a due differenti forme di reazione dell’uomo a questo dono: Giuda e Pietro.
Subito dopo aver accennato all’esempio, Gesù comincia a parlare del caso di Giuda. Giovanni ci riferisce, al riguardo, che Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (13, 21). (...) L’annuncio del tradimento suscita comprensibilmente agitazione e, al contempo, curiosità tra i discepoli. [...] «Deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane, ha alzato contro di me il suo calcagno» (cfr Sal 41,10; Sal 55,14). È questo lo stile caratteristico del parlare di Gesù: con parole della Scrittura Egli allude al suo destino, inserendolo allo stesso tempo nella logica di Dio, nella logica della storia della salvezza. Successivamente tali parole diventano totalmente trasparenti; si rende chiaro che la Scrittura descrive veramente il suo cammino – ma sul momento rimane l’enigma.
Inizialmente se ne arguisce soltanto che colui che tradirà Gesù è uno dei commensali; diventa evidente che il Signore deve subire sino alla fine e fin nei particolari il destino di sofferenza del giusto, un destino che appare in molteplici modi soprattutto nei Salmi. Gesù deve sperimentare l’incomprensione, l’infedeltà fino all’interno del cerchio più intimo degli amici e così «compiere la Scrittura». Egli si rivela come il vero soggetto dei Salmi, come il «Davide», dal quale essi provengono e mediante il quale acquistano senso.
Giovanni, scegliendo al posto dell’espressione usata nella Bibbia greca per «mangiare» la parola trogeincon cui Gesù nel suo grande discorso sul pane indica il «mangiare » il suo corpo e sangue, cioè il ricevere il Sacramento eucaristico (cfr Gv 6, 54-58), ha aggiunto una nuova dimensione alla parola del Salmo ripresa da Gesù come profezia sul proprio cammino. Così la parola del Salmo getta anticipatamente la sua ombra sulla Chiesa che celebra l’Eucaristia, nel tempo dell’evangelista come in tutti i tempi: con il tradimento di Giuda la sofferenza per la slealtà non è finita. «Anche l’amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede» (Sal 41,10). La rottura dell’amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono «il suo pane» e lo tradiscono.
La sofferenza di Gesù, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo, ha scritto Pascal in base a tali considerazioni (cfr Pensées, VII 553). Possiamo esprimerlo anche dal punto di vista opposto: Gesù in quell’ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo dall’essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia.
Giovanni non ci dà alcuna interpretazione psicologica dell’agire di Giuda (...). Quanto al contesto che ci interessa, l’evangelista dice soltanto laconicamente: «Allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui» (13,27). Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile.
È finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l’amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo «dolce giogo», non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze – o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall’intervento di un altro potere, al quale si è aperto.
Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell’anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C’è un primo passo verso la conversione: «Ho peccato», dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr Mt 27, 3ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima – non poteva dimenticarlo. La seconda sua tragedia – dopo il tradimento – è che non riesce più a credere ad un perdono.
Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù – quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento.
Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza – una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù. Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: «Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13,30). Giuda esce fuori – in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il «potere delle tenebre» lo ha afferrato (cfr Gv 3,19; Lc 22, 53).
3/ La cronologia di Giovanni, dal quarto capitolo dedicato a «L’Ultima Cena»
Il problema della datazione dell’ultima cena di Gesù si fonda sul contrasto in questa materia tra i Vangeli sinottici, da una parte, e il Vangelo di Giovanni, dall’altra. Marco, che Matteo e Luca essenzialmente seguono, offre al riguardo una datazione precisa. «Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”… Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici » (Mc 14,12.17). La sera del primo giorno degli Azzimi, in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali, è la vigilia della Pasqua. Secondo la cronologia dei sinottici si tratta di un giovedì.
Dopo il tramonto iniziava la Pasqua, e allora veniva consumata la cena pasquale – da Gesù con i suoi discepoli, come da tutti i pellegrini venuti a Gerusalemme. Nella notte tra giovedì e venerdì – sempre secondo la cronologia sinottica – Gesù venne arrestato e portato davanti al tribunale, al mattino del venerdì da Pilato venne condannato a morte e successivamente «verso l’ora terza» (ca. le nove del mattino) crocifisso. La morte di Gesù è datata all’ora nona (ca. le ore 15). «Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatea… con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù» (Mc 15,42s). La sepoltura doveva avvenire ancora prima del tramonto, perché poi iniziava il sabato. Il sabato è il giorno del riposo sepolcrale di Gesù. La risurrezione ha luogo il mattino del «primo giorno della settimana», la domenica.
Questa cronologia è compromessa dal problema che il processo e la crocifissione di Gesù sarebbero avvenuti nella festa della Pasqua, che in quell’anno cadeva di venerdì. È vero che molti studiosi hanno cercato di dimostrare che il processo e la crocifissione erano compatibili con le prescrizioni della Pasqua. Nonostante tutta l’erudizione sembra però problematico che in quella festa molto importante per i Giudei, il processo davanti a Pilato e la crocifissione fossero ammissibili e possibili. Del resto, a questa ipotesi è di ostacolo anche una notizia riportata da Marco. Egli ci dice che due giorni prima della festa degli Azzimi, i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di Gesù con inganno per ucciderlo, ma al riguardo dichiaravano: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo» (14,1s). Secondo la cronologia sinottica, però, l’esecuzione capitale di Gesù, di fatto, avrebbe avuto luogo proprio nel giorno stesso della festa.
Rivolgiamoci ora alla cronologia giovannea. Giovanni bada con premura a non presentare l’ultima cena come cena pasquale. Al contrario: le autorità giudaiche che portano Gesù davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (18,28). La Pasqua comincia quindi solo alla sera; durante il processo si ha la cena pasquale ancora davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua, nella «Parascève», non nella festa stessa. La Pasqua in quell’anno si estende dunque dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato e non dalla sera del giovedì fino alla sera del venerdì. Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane lo stesso. Con questa cronologia, Gesù muore nel momento in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali. Egli muore come l’Agnello vero che negli agnelli era solo preannunciato.
Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l’immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata esplicitamente.
Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica. Poiché – come s’è detto – processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili. D’altra parte, l’ultima cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale risulta problematica. [...]
Che cosa dobbiamo dunque dire? La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l’ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù. Egli giunge al risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base all’insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di Giovanni.
Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell’ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali. Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un puro caso, che riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito degli agnelli portato al suo vero significato – tutto ciò è poi solo normale. [...] Ma allora, che cosa è stata veramente l’ultima cena di Gesù? E come si è giunti alla concezione sicuramente molto antica del suo carattere pasquale?
La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un’ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua.
In tutti i Vangeli sinottici fanno parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua morte e quella sulla sua risurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (22,15s). La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un’ultima volta, mangia l’abituale Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s’incammina verso la Pasqua nuova.
Una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizzato in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell’insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù.
E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l’ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l’antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno. [...] In base a ciò si può capire come l’ultima cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei Doni eucaristici comprendeva anche un’anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua – come la sua Pasqua. E lo era veramente.