Non è un Paese per vecchi. Il disagio dell’occidente di fronte al malato, di Carlo Bellieni
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 20/2/2011 un articolo scritto da Carlo Bellieni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, vedi su questo stesso sito la sezione Carità, condivisione e missione.
Il Centro culturale Gli scritti (23/2/2011)
Un rapporto scioccante del Garante per la sanità del Governo britannico riporta che negli ospedali migliaia di anziani sono lasciati sporchi, affamati, senza trattamento antidolorifico adeguato. L’«Independent» parla di «una società disumana», il «Daily Mail» del 16 febbraio di «crudeltà che getta vergogna su un Paese civile», mentre il 14 il «Telegraph» ha titolato inorridito «Non c’è posto nella grande società per la generazione dei vecchi».
Ma non basta: l’Ufficio nazionale di statistica riporta il 31 gennaio che nel quinquennio 2005-2009 negli ospizi britannici sono morti 650 anziani di disidratazione e 157 di malnutrizione. Neil Duncan-Jordan, dell’Associazione nazionale pensionati scrive sul «Daily Mail» che nonostante l’ospizio sia molto costoso per l’anziano, «nessuno ti aiuta a mangiare o si assicura che tu abbia bevuto a sufficienza».
È certo scandalosa questa incuria, ma non inaspettata: si accorda purtroppo molto bene con altri rapporti al Parlamento britannico sul trattamento scadente riservato ai malati mentali — Valuing People Now (2007) e Healthcare for All (2008) — tanto che il «Lancet» nel giugno 2008 scriveva che i disabili mentali sono «invisibili» per il sistema sanitario nazionale britannico. Insomma, chi meno può far sentire la sua voce riceve un trattamento proporzionatamente inferiore.
Ma è solo un problema di forza? Un’indagine svolta in numerosi Paesi occidentali pochi anni fa mostra come la maggioranza dei medici pensi che la vita con disabilità neurologica, ma anche con handicap fisico grave, sia peggiore della morte, secondo quanto pubblicava nel novembre 2000 il «Journal of the American Medical Association».
Segno di un vulnus culturale, di un disagio morale profondo, che considera la disabilità non come qualcosa da superare, ma come cosa intollerabile, verso cui si prova avversione, non compassione. La riluttanza verso l’inerme ha due facce: una è quella vista finora, l’altra è parlare fino alla nausea di morte e di come far morire, come se quello fosse il problema di malati e anziani.
Infatti in tanti Paesi, compresa l’Italia, sembra che la questione non sia vivere meglio, ma invece, trovare soluzioni, escamotages e strategie per morire: come se il nemico non fosse l’abbandono, ma un supposto accanimento a tenerti in vita. Le pagine dei giornali sono dedicate al testamento biologico, all’eutanasia, alle direttive di fine vita, in una ricerca colma d’ansia di vie per morire. I giornali parlano ossessivamente di morte: una tendenza non equilibrata, che di fronte alla forte richiesta di compagnia e cura, sa solo offrire strade sempre più scaltre per morire.
Non a caso in questo clima culturale in Francia diversi ospedali hanno aperto convenzioni con un’associazione favorevole all’eutanasia, che può anche entrare in contatto con i pazienti. A dispetto delle proteste di psicologi che lamentano il rischio di un contatto tra certe idee e una popolazione di soggetti affettivamente fragili.
Il problema della morte con dignità non è come affrettarla, ma come vincere dolore e solitudine. È stato invece creato scientificamente un diffuso clima di timore verso un presunto e improbabile accanimento a tenere in vita. E il terrore sparso è il tratto di fondo di questa società: come scrive nel libro Il diritto della paura (Il Mulino) Cass R. Sunstein, consigliere di Barack Obama, che sostiene una tesi ben nota agli economisti: l’essere umano è tanto colmo di paure, che se preso dai rumors e dalla propaganda, si disinteressa delle probabilità reali, magari scarse, che un avvenimento accada realmente, e si getta di conseguenza in un’impari lotta per evitarlo.
Ci stanno trasformando in una generazione di persone impaurite, che sa solo cercare strade per difendersi, correre ai ripari, fuggire, guardando la morte come ultima disperata consolazione, perché la vita in fondo ha perso significato e attrattiva. E allora diventa logico non investire in cure migliori per chi è «inutile», ma semmai nelle strategie di «uscita» da una vita divenuta ingombrante.
L’abbandono dei vecchi, in questi giorni sulle prime pagine dei quotidiani inglesi, non è un problema di malasanità ma di disagio culturale di fronte al malato, immagine incancellabile, finché è in vita, della realtà della interdipendenza umana, della certezza che nessuna esistenza è inutile anche se non è più produttiva. Un’idea certo non amata da chi invece predica il culto della vita «degna» solo a certe condizioni di indipendenza e salute.
Insomma, chi sta male dà fastidio: non si trova nemmeno più chi sia disposto a fare l’infermiere dato che non si sopporta il contatto con la persona fragile, memoria scomoda della propria fragilità. Per accudire chi è debole, bisogna infatti essere forti. E creare rapporti, mentre oggi, parafrasando Tacito, possiamo dire che hanno creato solitudine e l’hanno chiamata libertà.
(©L'Osservatore Romano 20 febbraio 2011)