Meditando sull'Ascensione (di A.L.)
Il presente testo è stato preparato per il sito www.omelie.org
Sappiamo bene che l’espressione lucana “Gesù fu portato verso il cielo” ci fa rivolgere lo sguardo a questo evento: il Figlio torna al Padre. Il cielo è “immagine” del Padre, è il luogo della sua casa, della sua presenza, della sua comunione. Ed il Risorto non può che andare innanzitutto dal Padre.
“Se mi amaste vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me” ci ha già annunciato il Signore nel vangelo di domenica scorsa. L’ascensione del Signore realizza così l’annuncio da lui fatto nell’ultima cena: “Io vado al Padre”.
Non sarebbe completo il rapporto fra il Padre ed il Figlio se ci limitassimo all’incarnazione. Non solo il Figlio è dal Padre, ma ancor più torna a Lui. E’ il primato di Dio che ancora una volta la Scrittura ci pone dinanzi. “Il Padre è più grande di me”. Anche da questa prospettiva non potremmo capire Gesù, senza il Padre.
Il recente libro del papa, Gesù di Nazaret, invita ogni uomo a riconoscere al cuore dell’esperienza del Cristo, come il suo centro più vero e profondo, la sua comunione con il Padre, dalla quale scaturisce poi tutta la sua tenerezza sull’uomo. Così scrive il papa nel volume, in uno dei tanti passaggi dedicati a sottolineare la concordia della testimonianza evangelica su questo punto:
La famosa affermazione di Adolf von Harnack secondo la quale l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio del Padre, di cui il Figlio non farebbe parte – e dunque la cristologia non apparterrebbe all’annuncio di Gesù – è una tesi che si smentisce da sola. Gesù può parlare del Padre, così come lo fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. La dimensione cristologica, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la ‘cristologia’, è presente in tutti i discorsi ed in tutte le azioni di Gesù.
Gesù non è così l’uomo della storia, come se essa fosse la realtà più grande. La storia, piuttosto, terminerà. Noi non siamo riconciliati con questo passare del tempo. Rispunta continuamente in noi l’illusione di un tempo storico eterno. Ci piacerebbe – così pensiamo – realizzare opere che restino eternamente presenti nella storia. Cerchiamo nella storia stessa il significato di ciò che facciamo. Siamo a disagio ogni volta che la memoria scolora il ricordo e dimentica, ogni volta che qualcuno cancella la traccia storica della nostra opera. Non ci rassegniamo a non essere ricordati dalle generazioni che verranno, nonostante l’annuncio chiaro del Qohelet in materia.
L’ascensione ci annuncia che la vera questione non consiste nel prolungare la storia, bensì nell’andare al Padre. In Lui è il nostro destino di comunione. Non ci porteremo dietro tutte le carabattole che abbiamo costruito nella storia, ma l’amore per Lui che le ha motivate, quello sì, resterà in eterno. L’ascensione, prima di essere un invito ad uno sguardo diverso sulla storia, è uno sguardo contemplativo sulla nudità dell’amore che unisce il Padre ed il Figlio. Solo l’amore resterà. Il Padre è più grande del Figlio, ma è ancora più grande dell’uomo, più grande di tutto l’insieme degli uomini, dell’umanità stessa.
La salvezza umana non consiste così in una presunta maggiorazione della grandezza o importanza dell’uomo considerato a sé stante, ma in questo rivolgimento di amore a Dio.
Qui è il nocciolo della questione: continuiamo ad essere convinti che l’amore non basti a se stesso. Proprio questo, invece, ci annuncia l’ascensione di Gesù: la sufficienza dell’amore del Padre e del Figlio. L’ascensione ci annuncia che “la carità non avrà mai fine”. Il Figlio eterno del Padre, ma anche il Figlio con tutta la corporeità umana che ha assunto, non possiede altro ormai che la comunione con il Padre ed, in essa, possiede tutto.
L’uomo si ostina a volere altro che l’amore, mentre l’ascensione ci mostra la nudità dello scambio di amore del Padre e del Figlio.
La resurrezione e l’ascensione si manifestano così nel loro aspetto escatologico. Ci indicano quale sarà la novità ultima, ciò che resterà quando tutto il resto sarà invecchiato. Gli antichi trattati chiamavano “novissimi” i temi che riguardavano i tempi ultimi. L’espressione, ricchissima, indicava proprio le cose “più nuove”, le realtà che saranno le novità delle novità, le ultime novità. In un tempo che ha l’ansia del nuovo, la fede cristiana annunzia queste realtà novissime. Un affresco nella cappella di Santa Filippa Mareri, la prima santa francescana, nel reatino, riprendendo l’Apocalisse nel latino della Vulgata recita: “Sum primus et novissimus” – è chiaramente il Cristo che parla. Tutto il resto è vecchio e passato e trascorso, ma non il Cristo e la sua comunione.
La lettera agli Ebrei, nella seconda lettura, ci mostra il sacerdozio di Cristo che ha compiuto storicamente una sola volta il suo sacrificio sulla croce per i peccati degli uomini, ma che da quel momento è eternamente sacerdote sopra la casa di Dio.
Ma l’annuncio cristiano non si arresta qui. La storia che, senza il Padre, non avrebbe alcun significato, manifesta la sua assoluta importanza proprio nell’essere il primo luogo dell’incontro con Lui che troverà pienezza nell’eterna comunione. Se la comunione con Dio è il fine della storia ecco questa meta, questo destino, sottrae la storia all’insignificanza. Essa non è più un semplice succedersi di eventi senza meta.
Un antico testo di san Gregorio Nazianzieno dice:
Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita.
Il Cristo che ha comunione con Dio non la tiene come geloso possesso per sé, ma la offre agli uomini. Anzi li invita, una volta che essi abbiano ricevuto questa comunione dallo Spirito Santo, ad essere testimoni di essa fino agli estremi confini della terra. L’ascensione non annulla così la storia, ma la apre ad una fecondità inaspettata, perché divenga, per opera divina, il grembo della nuova vita di comunione con Dio.
Per questo gli apostoli non staranno a guardare il cielo, ma doneranno quella comunione con la Trinità che è ciò che permane della terra nel cielo. E poiché è la comunione trinitaria che da forma e vita alla comunione degli uomini fra di loro, anche quest’ultima è destinata a restare ed a raggiungere il cielo.
E’ a motivo di questa comunione che il corpo fisico del Cristo è ammesso nella comunione con Dio. Ed è a motivo di questa comunione che anche noi comprendiamo la segreta relazione fra il nostro corpo e la vita divina, come ha scritto in La gioia di credere Madeleine Delbrêl:
La nostra condizione è di avere un corpo. La mattina, quando ci svegliamo, il nostro corpo è il nostro primo incontro. Un primo incontro non sempre piacevole, poi una prossimità ora cordiale ora tempestosa lungo tutto il giorno. Quanti di noi, in momenti di sovraffaticamento o di tentazione, non hanno provato una gran voglia di maledire il proprio corpo e quasi chiesto di esserne liberati... E tuttavia il nostro corpo non è un caso. Dio l’ha voluto, Dio l’ha equilibrato. Abbiamo i nervi il sangue e il temperamento profondo che Egli ha voluto. Il nostro corpo, Dio l’ha pre-conosciuto per farvi abitare la sua grazia. Egli non ne ignora alcuna debolezza, alcun compromesso, alcuna deviazione. Eppure l’ha scelto per farne il corpo d’un santo.
Noi abbiamo il corpo del nostro destino, il corpo della nostra santità.
Il nostro corpo è il luogo, nel corso della giornata, di incidenti che fanno spesso a pugni con la nostra anima: vibrazione di nervi, pesantezza di testa, buone o cattive disposizioni, altrettante minute circostanze che non per questo sono meno le circostanze e l’espressione della volontà di Dio su di noi. Niente di tutto ciò è un negativo che debba impedirci e determinarci. Al contrario: tutto ciò costituisce le condizioni della venuta di Dio in noi, è un poco del suo volere che ci si rivela: questo benessere, questa emicrania, queste gambe affaticate sono la materia della nostra grazia attuale.
Bisognerebbe abituarci a tenere il nostro corpo come in gerenza: è la vita che Dio ci affida. Noi dobbiamo perderla quanto alla proprietà, ma ritrovarla in quanto essa gli appartiene. Bisognerebbe che noi stessimo di fronte al nostro corpo come il contadino davanti alla sua terra. Sapere ciò che il nostro corpo vale: stimarlo, come si suol dire. Saperne le ricchezze e le deficienze, ciò che lo fortifica e ciò che lo debilita, tentare di armonizzarlo con le grandi leggi naturali che Dio ha inventato: quelle che noi richiamiamo quando vogliamo raffigurare l’insieme delle anime congiunte al Cristo.
Il nostro corpo non ha frontiere che ci siano facilmente percettibili. Di questi tempi, in cui gli studi medici e psicologici mettono spesso in luce brutalmente le eredità o gli atavismi, molte persone possono venirne turbate, sentirsi urtate e scosse nei loro desideri di rettitudine spirituale da questi marosi interiori: gusti istinti caratteri passioni squilibri.
Nondimeno, tutta questa pasta umana è anch’essa materia per la grazia, materia per la nostra grazia. Proprio con essa Dio ha deciso di fare di noi dei santi. Nulla in essa è inquietante, perché tutto vi è previsto. È una gioia offrire a Dio, per un servizio di buona volontà, questa particella di umanità carnale venuta di balzo in balzo dal fondo di generazioni pure o colpevoli. È una gioia l’esserne depositari e avere il potere di santificarla. È assai confortante sapere che la nostra volontà, applicata alla volontà di Dio, basta a mantenere nell’ordine tutta questa pasta di umanità: la nostra volontà, che dev’essere tesa e dolce, tesa verso Dio e priva della propria rigidezza come una guaina di pelle ben conciata che rivesta una lama e diventi dura anch’essa.
Questa scoperta della volontà di Dio nel nostro corpo fa sì che noi dobbiamo considerarne anche la minima parte con rispetto. Esiste una sorta di reverenza di fronte a ciò che Dio ha creato. Non bisogna credere di materializzare così la nostra vita: l’ossequio che daremo all’azione di Dio nella nostra carne ci condurrà all’adorazione profonda dell’opera che egli compie negli spiriti. La giustizia che praticheremo nei riguardi del nostro corpo ci renderà forse più giusti di fronte alla nostra anima.
La celebrazione della festa dell’Ascensione ci doni così di vivere in quei sentimenti che fanno dire a san Paolo nella lettera ai Filippesi:
Per me, infatti, il vivere è Cristo ed il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero cosa scegliere. Sono messo, infatti, alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede.
Sappiamo bene che l’espressione lucana “Gesù fu portato verso il cielo” ci fa rivolgere lo sguardo a questo evento: il Figlio torna al Padre. Il cielo è “immagine” del Padre, è il luogo della sua casa, della sua presenza, della sua comunione. Ed il Risorto non può che andare innanzitutto dal Padre.
“Se mi amaste vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me” ci ha già annunciato il Signore nel vangelo di domenica scorsa. L’ascensione del Signore realizza così l’annuncio da lui fatto nell’ultima cena: “Io vado al Padre”.
Non sarebbe completo il rapporto fra il Padre ed il Figlio se ci limitassimo all’incarnazione. Non solo il Figlio è dal Padre, ma ancor più torna a Lui. E’ il primato di Dio che ancora una volta la Scrittura ci pone dinanzi. “Il Padre è più grande di me”. Anche da questa prospettiva non potremmo capire Gesù, senza il Padre.
Il recente libro del papa, Gesù di Nazaret, invita ogni uomo a riconoscere al cuore dell’esperienza del Cristo, come il suo centro più vero e profondo, la sua comunione con il Padre, dalla quale scaturisce poi tutta la sua tenerezza sull’uomo. Così scrive il papa nel volume, in uno dei tanti passaggi dedicati a sottolineare la concordia della testimonianza evangelica su questo punto:
La famosa affermazione di Adolf von Harnack secondo la quale l’annuncio di Gesù sarebbe un annuncio del Padre, di cui il Figlio non farebbe parte – e dunque la cristologia non apparterrebbe all’annuncio di Gesù – è una tesi che si smentisce da sola. Gesù può parlare del Padre, così come lo fa, solo perché è il Figlio e vive in comunione filiale con il Padre. La dimensione cristologica, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la ‘cristologia’, è presente in tutti i discorsi ed in tutte le azioni di Gesù.
Gesù non è così l’uomo della storia, come se essa fosse la realtà più grande. La storia, piuttosto, terminerà. Noi non siamo riconciliati con questo passare del tempo. Rispunta continuamente in noi l’illusione di un tempo storico eterno. Ci piacerebbe – così pensiamo – realizzare opere che restino eternamente presenti nella storia. Cerchiamo nella storia stessa il significato di ciò che facciamo. Siamo a disagio ogni volta che la memoria scolora il ricordo e dimentica, ogni volta che qualcuno cancella la traccia storica della nostra opera. Non ci rassegniamo a non essere ricordati dalle generazioni che verranno, nonostante l’annuncio chiaro del Qohelet in materia.
L’ascensione ci annuncia che la vera questione non consiste nel prolungare la storia, bensì nell’andare al Padre. In Lui è il nostro destino di comunione. Non ci porteremo dietro tutte le carabattole che abbiamo costruito nella storia, ma l’amore per Lui che le ha motivate, quello sì, resterà in eterno. L’ascensione, prima di essere un invito ad uno sguardo diverso sulla storia, è uno sguardo contemplativo sulla nudità dell’amore che unisce il Padre ed il Figlio. Solo l’amore resterà. Il Padre è più grande del Figlio, ma è ancora più grande dell’uomo, più grande di tutto l’insieme degli uomini, dell’umanità stessa.
La salvezza umana non consiste così in una presunta maggiorazione della grandezza o importanza dell’uomo considerato a sé stante, ma in questo rivolgimento di amore a Dio.
Qui è il nocciolo della questione: continuiamo ad essere convinti che l’amore non basti a se stesso. Proprio questo, invece, ci annuncia l’ascensione di Gesù: la sufficienza dell’amore del Padre e del Figlio. L’ascensione ci annuncia che “la carità non avrà mai fine”. Il Figlio eterno del Padre, ma anche il Figlio con tutta la corporeità umana che ha assunto, non possiede altro ormai che la comunione con il Padre ed, in essa, possiede tutto.
L’uomo si ostina a volere altro che l’amore, mentre l’ascensione ci mostra la nudità dello scambio di amore del Padre e del Figlio.
La resurrezione e l’ascensione si manifestano così nel loro aspetto escatologico. Ci indicano quale sarà la novità ultima, ciò che resterà quando tutto il resto sarà invecchiato. Gli antichi trattati chiamavano “novissimi” i temi che riguardavano i tempi ultimi. L’espressione, ricchissima, indicava proprio le cose “più nuove”, le realtà che saranno le novità delle novità, le ultime novità. In un tempo che ha l’ansia del nuovo, la fede cristiana annunzia queste realtà novissime. Un affresco nella cappella di Santa Filippa Mareri, la prima santa francescana, nel reatino, riprendendo l’Apocalisse nel latino della Vulgata recita: “Sum primus et novissimus” – è chiaramente il Cristo che parla. Tutto il resto è vecchio e passato e trascorso, ma non il Cristo e la sua comunione.
La lettera agli Ebrei, nella seconda lettura, ci mostra il sacerdozio di Cristo che ha compiuto storicamente una sola volta il suo sacrificio sulla croce per i peccati degli uomini, ma che da quel momento è eternamente sacerdote sopra la casa di Dio.
Ma l’annuncio cristiano non si arresta qui. La storia che, senza il Padre, non avrebbe alcun significato, manifesta la sua assoluta importanza proprio nell’essere il primo luogo dell’incontro con Lui che troverà pienezza nell’eterna comunione. Se la comunione con Dio è il fine della storia ecco questa meta, questo destino, sottrae la storia all’insignificanza. Essa non è più un semplice succedersi di eventi senza meta.
Un antico testo di san Gregorio Nazianzieno dice:
Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita.
Il Cristo che ha comunione con Dio non la tiene come geloso possesso per sé, ma la offre agli uomini. Anzi li invita, una volta che essi abbiano ricevuto questa comunione dallo Spirito Santo, ad essere testimoni di essa fino agli estremi confini della terra. L’ascensione non annulla così la storia, ma la apre ad una fecondità inaspettata, perché divenga, per opera divina, il grembo della nuova vita di comunione con Dio.
Per questo gli apostoli non staranno a guardare il cielo, ma doneranno quella comunione con la Trinità che è ciò che permane della terra nel cielo. E poiché è la comunione trinitaria che da forma e vita alla comunione degli uomini fra di loro, anche quest’ultima è destinata a restare ed a raggiungere il cielo.
E’ a motivo di questa comunione che il corpo fisico del Cristo è ammesso nella comunione con Dio. Ed è a motivo di questa comunione che anche noi comprendiamo la segreta relazione fra il nostro corpo e la vita divina, come ha scritto in La gioia di credere Madeleine Delbrêl:
La nostra condizione è di avere un corpo. La mattina, quando ci svegliamo, il nostro corpo è il nostro primo incontro. Un primo incontro non sempre piacevole, poi una prossimità ora cordiale ora tempestosa lungo tutto il giorno. Quanti di noi, in momenti di sovraffaticamento o di tentazione, non hanno provato una gran voglia di maledire il proprio corpo e quasi chiesto di esserne liberati... E tuttavia il nostro corpo non è un caso. Dio l’ha voluto, Dio l’ha equilibrato. Abbiamo i nervi il sangue e il temperamento profondo che Egli ha voluto. Il nostro corpo, Dio l’ha pre-conosciuto per farvi abitare la sua grazia. Egli non ne ignora alcuna debolezza, alcun compromesso, alcuna deviazione. Eppure l’ha scelto per farne il corpo d’un santo.
Noi abbiamo il corpo del nostro destino, il corpo della nostra santità.
Il nostro corpo è il luogo, nel corso della giornata, di incidenti che fanno spesso a pugni con la nostra anima: vibrazione di nervi, pesantezza di testa, buone o cattive disposizioni, altrettante minute circostanze che non per questo sono meno le circostanze e l’espressione della volontà di Dio su di noi. Niente di tutto ciò è un negativo che debba impedirci e determinarci. Al contrario: tutto ciò costituisce le condizioni della venuta di Dio in noi, è un poco del suo volere che ci si rivela: questo benessere, questa emicrania, queste gambe affaticate sono la materia della nostra grazia attuale.
Bisognerebbe abituarci a tenere il nostro corpo come in gerenza: è la vita che Dio ci affida. Noi dobbiamo perderla quanto alla proprietà, ma ritrovarla in quanto essa gli appartiene. Bisognerebbe che noi stessimo di fronte al nostro corpo come il contadino davanti alla sua terra. Sapere ciò che il nostro corpo vale: stimarlo, come si suol dire. Saperne le ricchezze e le deficienze, ciò che lo fortifica e ciò che lo debilita, tentare di armonizzarlo con le grandi leggi naturali che Dio ha inventato: quelle che noi richiamiamo quando vogliamo raffigurare l’insieme delle anime congiunte al Cristo.
Il nostro corpo non ha frontiere che ci siano facilmente percettibili. Di questi tempi, in cui gli studi medici e psicologici mettono spesso in luce brutalmente le eredità o gli atavismi, molte persone possono venirne turbate, sentirsi urtate e scosse nei loro desideri di rettitudine spirituale da questi marosi interiori: gusti istinti caratteri passioni squilibri.
Nondimeno, tutta questa pasta umana è anch’essa materia per la grazia, materia per la nostra grazia. Proprio con essa Dio ha deciso di fare di noi dei santi. Nulla in essa è inquietante, perché tutto vi è previsto. È una gioia offrire a Dio, per un servizio di buona volontà, questa particella di umanità carnale venuta di balzo in balzo dal fondo di generazioni pure o colpevoli. È una gioia l’esserne depositari e avere il potere di santificarla. È assai confortante sapere che la nostra volontà, applicata alla volontà di Dio, basta a mantenere nell’ordine tutta questa pasta di umanità: la nostra volontà, che dev’essere tesa e dolce, tesa verso Dio e priva della propria rigidezza come una guaina di pelle ben conciata che rivesta una lama e diventi dura anch’essa.
Questa scoperta della volontà di Dio nel nostro corpo fa sì che noi dobbiamo considerarne anche la minima parte con rispetto. Esiste una sorta di reverenza di fronte a ciò che Dio ha creato. Non bisogna credere di materializzare così la nostra vita: l’ossequio che daremo all’azione di Dio nella nostra carne ci condurrà all’adorazione profonda dell’opera che egli compie negli spiriti. La giustizia che praticheremo nei riguardi del nostro corpo ci renderà forse più giusti di fronte alla nostra anima.
La celebrazione della festa dell’Ascensione ci doni così di vivere in quei sentimenti che fanno dire a san Paolo nella lettera ai Filippesi:
Per me, infatti, il vivere è Cristo ed il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero cosa scegliere. Sono messo, infatti, alle strette tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede.