Il mio Mosè. Un’intervista ad Erri De Luca sul nuovo volume E disse, di Alessandro Bottelli
Riprendiamo da Avvenire del 16/2/2011 un’intervista ad Erri De Luca di Alessandro Bottelli con il titolo originario "De Luca: il mio Mosè salì la montagna". Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Su Erri De Luca, vedi su questo stesso sito l'articolo In nome della madre: nota filologica sul nome ebraico di Gesù.
Il Centro culturale Gli scritti (19/2/2011)
Adesso l’uomo getta lo sguardo altrove. Alleggerito, sembra misurare la distanza tra sé e l’orizzonte. Si gira. Inumidisce le labbra, forse troppo a lungo dimenticate dalla liturgica negligenza del bicchiere mezzo vuoto. Negli occhi – tranquilli camposanti dell’esperienza – gli passa di tanto in tanto un refolo fresco e spazioso, portato fin lì da qualche cima solo intravista e mai veramente posseduta. Ha dimestichezza di scalatore, intimità con le salite che raschiano via il fiato. Va solitario, dove la voce lo conduce, aprendosi un passaggio per vie aspre, impervie, non ancora battute né battezzate dal pianto o dal sudore. Spesso modula la propria immaginazione a ridosso di pareti appartate, puri strapiombi in cui anche l’abilità della mente si fa più friabile. E a tratti, persino sdrucciolevole. Una nuvola sopra le nostre teste ingentilisce il cielo, senza troppi proclami. Tra me e Erri De Luca, quasi a stabilire lo stacco di un attraversamento, si specchiano le ultime bozze di E disse, in uscita da Feltrinelli la prossima settimana (pagine 96, euro 10,00). Appaiono visibilmente taciturne. Toniche. Tenaci. Puntato sulle pagine già da giorni divenute familiari, il mio indice sentimentale anticipa, in silenzio, la domanda d’inizio.
Che tipo di uomo è il 'tuo' Mosè?
«È un salvato. L’unico che si sottrae allo sterminio delle nascite dei bambini ebrei ordinato dal Faraone, preoccupato dall’incremento demografico della minoranza ebraica residente in Egitto. Mosè è l’unico scampato. E quindi in lui si condensa l’energia dei suoi coetanei, di tutte quelle vite negate. È un amministratore delegato delle loro forze, che non hanno avuto modo di manifestarsi. Ha dunque questa energia in esubero, talmente sovrabbondante da fargli inciampare la lingua. Infatti è balbuziente. E non per riduzione, ma per eccesso: balbetta per sovraccarico di forza che quella lingua deve esprimere. Lui è necessariamente l’unica scelta della divinità. Non ce n’è un’altra».
Di quale carisma era dotato Mosè, tanto da poter spostare un intero popolo radicato in Egitto da ventuno generazioni?
«Mosè era portatore della energia necessaria a liberare e a uscire. Egli era capace di reggere, con le sue parole, il compito che la divinità gli aveva affidato. Parole dotate di una forza di sradicamento, prima che di radicamento, tali da riuscire a smuovere un’intera popolazione – numerosa, ormai, perché dall’Egitto si spostano più di un milione e mezzo di vite – da quella lunghissima residenza.
Quegli individui sono a tutti gli effetti dei cittadini egiziani, anche se appartenenti a una minoranza. E la notizia che li convince è proprio la promessa di una 'terra che ha mestruo di latte e miele'. Di questo si tratta, non di una terra che stilla, gocciola o traspira latte e miele, ma che ha il verbo delle mestruazioni femminili. Una notizia spuntata in bocca alla divinità, e quindi, sulle labbra di Mosè. Quel verbo racconta che la terra futura avrà la stessa fertilità della donna ebrea. Fertilità leggendaria, prorompente, tale da spaventare addirittura il Faraone.
Entrato in Egitto in settanta unità maschili, il popolo di Israele riparte immensamente moltiplicato. Allora la divinità adopera la forza di generare della donna ebrea per raccontare la terra promessa. Latte e miele non sono poi semplicemente gli ingredienti della prima colazione, ma una formula per dire che il luogo sarà adatto sia all’agricoltura sia alla pastorizia.
Il latte simboleggia la terra, dove viene allevato il bestiame, e il miele, invece, l’impollinazione delle piante, la possibilità di coltivare alberi da frutto e sviluppare l’agricoltura. È una regione che quindi tiene insieme i mestieri di Abele e di Caino, in cui entrambi potranno trovare convivenza».
Mosè è uno abituato alle salite in solitudine: «Andava per desiderio di staccarsi dal campo, dalle voci, saliva per allontanamento». Che cosa va cercando un uomo lontano dagli altri?
«Va cercando una distanza. E se la procura. I pastori, in genere, sono dei solitari per mestiere. Magari, anche per vocazione. Davide, ad esempio, è un pastore per vocazione. Gli piace, quella solitudine. In mezzo ai silenzi ha sviluppato le sue doti: una mira infallibile e l’invenzione musicale. È lui, infatti, il primo cantautore della storia sacra, colui che scrive e canta la gran parte dei salmi. Li inventa, per tenersi compagnia dentro la solitudine dei pascoli lontani. Allo stesso modo, possiamo definire Mosè il primo alpinista della storia. Uno abituato a salire sui monti. Sul Sinai/Hòrev – che vuol dire anche 'siccità', perché un nome solo non basta per una località così importante – sale tre volte. La prima, addirittura scalzo, quando la divinità gli chiede di scavarsi i sandali su quel suolo. E le altre due per la doppia serie di tavole della legge. Poi accompagna suo fratello a morire sul monte Cor. E lui stesso muore da alpinista sul monte Nebo, oltre il Giordano. È là sopra che la divinità gli fa vedere la terra nella quale non entrerà.
Proprio per la sua biografia, possiamo dunque affermare che Mosè ci sa stare in montagna. E ci sa andare anche da solo».
«Non desiderare la roba d’altri». In passato, sei mai stato punto dall’invidia?
«No. È un sentimento che non ha attecchito e con me non ha funzionato. Al contrario, provo spesso un sentimento di ammirazione. Sono contento di ammirare una cosa che mi esprime meraviglia e mi sorprende. Però non voglio prendere il posto dell’ammirato. L’invidioso invece si crede autorizzato a sostituirsi alla persona o alla cosa invidiata. No, no, per me l’invidia è transitiva. L’ammirazione è intransitiva. E io ne sono capace, ma certo non farei il viaggio per andare a occupare il posto di un altro. Mi tengo quello che ho, anche perché il mio non l’ha voluto nessuno».
Tra i dieci comandamenti scolpiti nella roccia a bussola degli uomini, ce n’è qualcuno con cui hai avuto spesso a che fare?
«'Dai peso a tuo padre e a tua madre'. Ho avuto la fortuna di averli vicini a lungo, quindi sono affezionato a quel comandamento».
Però non è stato sempre così: da ragazzo te ne sei andato di casa…
«Sì, sono uscito. Mi sono allontanato da loro e poi li ho ritrovati più in là, più avanti nel tempo».
E ritrovandoli, cos’hai scoperto dei tuoi genitori?
«Che mi avevano sempre seguito, anche da lontano. Non mi avevano mai dato per disperso. Né si erano rassegnati alla mia distanza».