Professione teologo. Quelli che riflettono sull'invisibile, di Inos Biffi
Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 19/1/2011 un articolo scritto da Inos Biffi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/2/2011)
Elaborare una teologia per il nostro tempo, che risponda alle attese del mondo, che ne assuma il linguaggio e le aspirazioni: è l'incombenza abitualmente assegnata a quanti fanno di professione il teologo. Intanto giustifichiamo questo modo di esprimersi: fare di professione il teologo. Qualcuno parla di carisma o di ministero del teologo, il che può anche aver senso, se si intende mettere in luce che la teologia è un servizio nella Chiesa. Solo che si deve subito aggiungere che non si diventa teologi per grazia o per una speciale missione ricevuta, ma perché si ha una particolare capacità e attitudine a riflettere sulla fede o a esplorare il mistero cristiano; se a questo ci si dedichi assiduamente come a un lavoro arduo ed esigente, facendone una laboriosa scelta di vita.
Oggi si è molto larghi e facili nel concedere o nel concedersi il titolo di teologo: nella storia della teologia troviamo un criterio ben differente. Tommaso d'Aquino era di parere diverso. Egli riteneva che la professione del teologo - o, come egli la definisce, l'officium sapientis - sia impresa che oltrepassa le possibilità umane (proprias vires excedit) e può esercitarsi solo affidandosi alla bontà divina (assumpta ex divina pietate fiducia).
D'altra parte, lo stesso Dottore è persuaso che fare teologia sia la sua vocazione e che Ego hoc vel praecipuum vitae meae officium debere me Deo conscius sum, ut eum omnis sermo meus et sensus loquatur ("l'impegno principale a cui è chiamato da Dio consista nel dedicarsi, con tutte le sue energie, spirituali e materiali, a parlare di Lui", Summa contra Gentiles, i, 2).
Ma, proprio per questo, nulla lo distrarrà da questo suo proposito (propositum nostrae intentionis); non lo alletterà neppure l'offerta di prestigiose prelature; di fatto giungerà al termine della sua vita esausto, proprio per aver consumato tutte le sue risorse in questo studium, che, tra tutti, considerava perfectius, sublimius, utilius et iucundius ("il più perfetto, il più sublime, il più utile e il più gioioso", ibidem).
Oggi, ancora, si sente anche rivendicare un diritto quasi sindacale di fare teologia: diritto anche dei laici e anche delle donne, ma tutto questo non ha molto senso. È ovvio che anche i laici e le donne possano esercitare la professione del teologo. La teologia non è né clericale né laicale, né maschile né femminile: quel che importa è che sia "teologia" e non altro, cioè che sia - come diceva Tommaso - un "discorso (sermo) che dica Dio", e che esponga la verità della fede cattolica (veritas quam fides catholica prophitetur) eliminando gli errori contrari (errores eliminando contrarios). Tutto il resto è chiacchiera. E lo stesso vale per la filosofia: pensiamo a due donne, Edith Stein e, da noi in Italia, a Sofia Vanni Rovighi.
Ma qui, sempre prendendo spunto dall'Angelico, vorremmo riprendere il rilievo iniziale sulla teologia a cui spetterebbe il compito di ammodernarsi, per rispondere alle attese del nostro tempo.
In realtà, crederei che si debbano variare leggermente i termini della questione e cioè affermare esattamente il contrario: non è la teologia che deve aggiornarsi all'evolversi del tempo, ma è il tempo che deve stare al passo della teologia, o meglio della Rivelazione, ricevuta nella fede. Non è Dio che si deve porre in ascolto dei bisogni e dei desideri dell'uomo, ma è l'uomo che deve accogliere l'eterno progetto divino, che sarà sempre "inattuale" per ogni uomo in ogni epoca.
La teologia si occuperà, quindi, delle Tre Persone della Trinità, di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, morto e risuscitato, dell'elezione in lui di tutta la realtà terrena e celeste, e specialmente dell'uomo, predestinato a condividere la gloria del Signore; tratterà quindi della Chiesa, che è il Corpo mistico di Cristo e il segno della sua riuscita; del peccato e della grazia; del Paradiso e dell'Inferno e di tutto quanto appartiene alla Parola rivelata.
Proprio facendo questo la teologia risulterà aggiornata, dal momento che tutte queste cose riguardano il perenne disegno di Dio sull'uomo storico e sul mondo in cui viviamo. Non è Dio che deve apprendere le attese umane per corrispondervi, ma è l'uomo che deve imparare le attese divine per conformarvisi.
La teologia fissa lo sguardo sulle cose invisibili, e perciò la sua materia, a cominciare dalla Trinità, rappresenta la realtà più concreta che si possa immaginare. Secondo quanto dichiara Paolo: "Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne" (2 Corinzi, 4, 18) per cui non hanno bisogno di aggiornarsi.
Nella misura in cui la sacra dottrina scruta e propone il piano di Dio mostra ciò che assolutamente conta per l'uomo - l'uomo non solo di oggi o di domani, ma di sempre -, ossia la sua salvezza così come Dio l'ha concepita e l'ha attuata in Cristo. Invece, nella misura in cui la medesima sacra dottrina si mette alla scuola dell'uomo, fraintende l'uomo stesso e lo inganna o lo illude, e solo in apparenza lo ha a cuore. In fondo siamo in una visione di alternativa o di dialettica tra Dio e l'uomo, come preoccupati di non cedere troppo al primo a scapito del secondo, mentre nel mistero dell'Incarnazione è proprio Dio a mostrare quando l'uomo sia in cima alla sua predilezione e al suo amore.
Detto questo, aggiungiamo che è senza dubbio un dovere del teologo usare un linguaggio trasparente, incisivo, sgombro di questioni inutili appartenenti a discussioni del passato, capace di illuminare le scelte che i diversi tempi con le loro urgenze impongono. Ma questo dovere verrà assolto appunto se lo sguardo della teologia sarà rivolto verso il mistero di Dio che è Gesù Cristo, cioè verso il mondo autentico e stabile della Grazia.
Abbiamo parlato della teologia: ovviamente tutto questo vale non meno per la predicazione e la catechesi, che ugualmente, stemperandosi in un'apparente "attualità", alla fine suscitano disinteresse, se non disgusto, e rendono omelie ed esortazioni di una noia mortale; invece che sorprendenti e attraenti per la novità, insopportabili per la monotonia.
(©L'Osservatore Romano - 19 gennaio 2011)