«Il catechismo fa bene alla libertà». Un editoriale della rivista Catechesi
Riprendiamo dal sito della rivista Catechesi l'editoriale del numero 80 (2010-2011) 3,1. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2011)
«Il catechismo fa bene alla libertà». È l’accattivante titolo del contributo recato dal prof. Stefano Semplici, docente di Filosofia morale nell’università di Tor Vergata, al IX Forum del Progetto Culturale (cf Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI, L’«emergenza educativa». Persona, intelligenza, libertà, amore, Bologna, Dehoniane 2010, pp. 383-388).
La tesi del docente merita di essere sottolineata in un momento in cui la Chiesa italiana dà il via al piano pastorale incentrato sulla problematica educativa. La catechesi – al dire del professore – è in crisi, e questa criticità è espressione emblematica della più ampia tensione tra il principio di autorità e il principio di libertà. Tale tensione nasce dal fatto che l’uomo contemporaneo si considera individuo “assoluto” (nel senso originario del termine), capace di scrivere da sé, in “assoluta” libertà, la propria storia e di interpretare il mondo in cui vive senza alcun bisogno di far riferimento al passato, alla tradizione e ai suoi portati culturali preesistenti ed eccedenti rispetto al singolo. Un simile convincimento manda in crisi tutti i processi di trasmissione da una generazione all’altra, ivi compresi quelli educativi e religiosi.
Se ne può uscire soltanto aiutando l’individuo a comprendere che in realtà «“siamo messi al mondo” da altri non solo perché generati da altri sotto le leggi della natura prima… ma anche come membri di quello che è il “mondo” nel senso specificamente umano», cioè il mondo della cultura inteso nel suo significato più ampio. E che, pertanto, condividiamo «una tradizione, un linguaggio, una storia e forse una religione» (p. 385) che vengono comunicati da una generazione all’altra attraverso la socializzazione e l’educazione.
Di qui il ricupero di quell’aspetto specificamente “catechetico” che non è esclusivo dell’educazione religiosa ma costitutivo della pedagogia tout court: l’aspetto, cioè, della comunicazione asimmetrica tra un maestro e un allievo. In effetti, l’esigenza di «“fare catechismo” è ineliminabile, perché il primo momento del rapporto fra il maestro e l’allievo è necessariamente quello nel quale il sapere, prima di essere discusso insieme e arricchito, viene semplicemente trasmesso. Per Kant il catechismo è la forma della memoria: l’allievo non conosce ancora le risposte e neppure come deve porre le domande, ed è per questo che è didatticamente più efficace per il maestro accontentarsi, almeno all’inizio, della ripetizione di una formula “custodita facendo ricorso a espressioni determinate, difficilmente modificabili”» (p. 386).
Questo tipo di memoria non è dogmatismo, «non è un ostacolo alla libertà e anzi ne dispiega le condizioni, insieme ai buoni esempi che dimostrano che quel che è conforme al dovere è non solo giusto ma anche praticabile, purché lo si voglia» (p. 386). Dunque «non si deve aver paura di educare e neppure di educare alla fede, perché è in funzione di quest’ultima e non del dogmatismo… che si insegna il catechismo» (p. 387).
Un discorso tradizionalista che ignora le acquisizioni di svariate teorie pedagogiche attuali e della catechesi “antropologica”? No, ma un semplice ricordare che non si dà vera educazione e vera catechesi senza traditio, curata, per rimanere nell’àmbito della catechesi, da un catechista che è insegnante, educatore e testimone (DB 186-188).