Perché i miti di Adone o di Fedra o di Niobe sui sarcofagi? Cosa è la týche di Euripide? Appunti di Andrea Lonardo a partire da una visita guidata da Umberto Utro al Museo Gregoriano Profano
Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo dopo le considerazioni del dott. Umberto Utro che ha guidato nel dicembre 2025 una visita del clero di Roma al Museo Gregoriano Profano e al Pio Cristiano. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Il periodo patristico, L’arte paleocristiana e Roma imperiale e l'età apostolica.
Il Centro culturale Gli scritti (21/12/2025)
N.B. Le considerazioni che vengono qui riportate sono dovute alla sapienza del dott. Umberto Utro, curatore del Museo Pio Cristiano dei Musei Vaticani, ma chi scrive è responsabile di eventuali errori, perché non si tratta di una trascrizione della visita da lui guidata, bensì di ricordi a posteriori con aggiunte varie.
Una visita al Museo Gregoriano Profano dei Musei Vaticani permette di cogliere alcuni aspetti della concezione della vita e della morte in area pagana nei secoli in cui il cristianesimo penetrò nell’impero romano e in Roma in particolare.
1/ Il mito di Adone e Afrodite

Nel sarcofago con il mito di Adone e Afrodite (Inv 10408-10409, proveniente dalla Tomba dei Pancrazi sulla via Latina, rinvenuto nel 1857, ca. 220 d.C.) si riassume visivamente la sua storia, in alcuni passaggi decisivi.
A sinistra è Afrodite con il bellissimo Adone da lei amato: la divinità lo scongiura di non andare a caccia, avendo saputo del pericolo che il giovane corre. Egli va, però, lo stesso e, a destra Adone è a caccia.
Al centro è ormai ferito: gli dèi sono al suo fianco e cercano di curarlo, medicando la sua gamba. Ma ormai non possono più nulla: la ferita non guarirà ed egli morirà nonostante il loro intervento.
È un’immagine potentissima dell’ineluttabilità della morte. Anche se qualcuno fosse il preferito di Afrodite, anche se le divinità venissero a curarlo, la morte sarebbe comunque più forte di qualsivoglia intervento divino. Gli dèi, insomma, recedono dinanzi ad essa e sono impotenti. Per l’uomo non c’è scampo. Ecco il messaggio del mito e del sarcofago.
Gli autori del sarcofago certamente conoscevano gli altri particolari del mito: che Afrodite era sposata infelicemente con Efesto, dio del fuoco, zoppo e non bello, che la divinità era anche l’amante di Ares, dio della guerra, e che è questi, geloso, a far uccidere Adone tramite il travestimento di un cinghiale, così come ben sapevano che Afrodite (greca) era identica con Venere (romana).
Ma il mito non è qui raccontato perché si ricordi tutta la sua storia, bensì per attestare l’impotenza di Afrodite/Venere dinanzi alla morte. Colui che venne sepolto in quel sepolcro non poteva avere scampo, se non l’ebbe nemmeno Adone!
2/ Il sarcofago di Fedra e Ippolito

Il sarcofago di Fedra e Ippolito (Inv. 10400, rinvenuto anch’esso nella Tomba dei Pancrazi sulla via Latina, intorno al 1857-1859 e attribuito all’inizio del III secolo d.C.) racconta a sua volta quel mito.
Vi si vede, a sinistra, Fedra, che si volge indietro nel vano tentativo di resistere ad Eros che è ai suoi piedi e che l’ha fatta innamorare di Ippolito, suo figliastro: le ancelle la circondano impotenti. Ippolito, invece, le sta dinanzi e rifiuta il suo amore.
A destra si vede Ippolito a caccia accompagnato dalla virtus, che compare per prima, a partire dal centro.
Non è rappresentato il momento della morte di Ippolito, ma è ben per questo che il mito viene raccontato. Infatti, quando Fedra accusa dinanzi al marito il figlio, ferita dal suo rifiuto d’amore, mentendo e dichiarando che egli avrebbe cercato di violentarla, Teseo pronuncia la sua maledizione contro di lui ed egli dovrà per questo morire, anche se le divinità cercheranno di salvarlo poiché egli è ingiustamente accusato. E, difatti, un toro fa sì che il suo carro si schianti ed egli perda la vita. Il tardivo suicidio di Fedra, che ammette per scritto la sua colpa, giunge troppo tardi.
Euripide, autore della tragedia Fedra, proclama nei suoi versi che niente può fermare la týche, cioè il destino che appare come una forza che domina gli eventi ben più del logos (senso/significato/ragione) e della technē (astuzia/abilità dell’uomo).
Nel mito di Fedra e Ippolito la týche è più potente degli dèi stessi e il destino conduce al male e alla morte, senza che nessuno possa opporvisi.
È interessantissimo che qui il mito di Fedra e Ippolito descriva la morte insensata degi uomini e, in particolare, del morto che era posto nel sarcofago. Ma è vero anche l’inverso: è la morte di chi è nei sarcofagi che fa comprendere appieno cosa sia la týche, cosa sia il “destino” euripideo (ma anche Seneca ne scrisse), un destino ineluttabile e maligno il quale, sebbene non personale, è in fondo il vero signore della storia umana e del tempo: tutti debbono morire, questo è il destino, questa è l’ineluttabilità della týche.
Anche qui i particolari del mito recedono: certo gli scultori dovevano ben sapere che Fedra era moglie di Teseo, re di Atene, e che si innamorò incestuosamente del figliastro Ippolito, che Ippolito era figlio di Teseo e di un amazzone, e altro ancora, ma tutto questo non ha qui importanza.
Ciò che conta è l’impossibilità di salvare Ippolito dalla morte, così come non ci fu salvezza per il morto posto in quel sarcofago - anche agli Uffizi è conservato un sarcofago analogo.
3/ Il mito dei figli di Niobe

Un terzo sarcofago rappresenta il mito dei Niobidi (Inv 10437, dal sepolcro cosiddetto della Medusa, presso Porta Viminalis, rinvenuto nel 1839 e attribuito alla metà del II secolo d.C.).
La fronte del sarcofago descrive la strage dei quattordici figli di Niobe, sette maschi e sette femmine.
Essi vengono tutti colpiti dalle frecce di Apollo e Artemide, che sono scolpiti, invece, nel coperchio mentre lanciano le loro saette.
Struggente è Niobe che, a destra della scena, cerca invano di proteggere gli ultimi sopravvissuti mentre a sinistra vi è un analogo tentativo.
Anche qui è l’ineluttabilità della morte ad essere descritta: tutti debbono morire, una volta che il cielo così abbia stabilito.
Certo gli scultori ben sapevano che Niobe, figlia di Tantalo e re di Lidia, era fiera dei suoi quattordici figli, tutti belli e sani. E che, durante una cerimonia in onore di Latona, offese senza esserne pienamente consapevole la déa, vantandosi di essere superiore, poiché lei ne aveva solo due, Apollo ed Artemide.
Latona, per questo, meditò vendetta e incaricò i suoi figli, Apollo e Artemide, di realizzarla, di modo che i due trafissero con le frecce tutti i quattordici figli di Niobe, lasciandola senza prole.
Ma tali “dettagli” non sono importanti nella raffigurazione del mito. Ciò che conta è l’implacabilità della morte, una volta che le divinità l’abbiano decisa. Gli dèi possono togliere la vita, ma non donarla: essi, secondo la visione del sarcofago, non possono condurre all’eternità.
4/ Le maschere nei sarcofagi

La frequente rappresentazione di maschere nei sarcofagi fa riferimento, invece, alla fine della “commedia”, cioè della vita, quando si gettano le maschere ed appare la realtà della finitezza dell’uomo.
Com’è noto “persona” in greco si diceva anticamente “prosopon”, che significa anche maschera. Sarà poi solo il linguaggio elaborato da Origene e dai suoi discepoli a privilegiare invece il termine “ipostasi”, ad indicare inizialmente le tre persone nella Trinità, ponendo in primo piano l’idea di “relazione”, ma dando così origine anche ad una caratterizzazione della persona in quanto essere relazionale.
5/ I sarcofagi con raffigurazioni di coppie di sposi

Un sarcofago di una coppia di sposi presenta i simboli dell’abbondanza, con frutti copiosi che la vita ha riversato, ma lo fa mostrando insieme la fine a cui tutto è giunto: ai lati del sarcofago, infatti, due reggifiaccola sono non solo tristi, ma soprattutto reggono la fiaccola rovesciata: la luce è ormai finita.
Un sarcofago noto come “di Plotino” – perché la tradizione, ma senza alcuna evidenza scientifica – vi identificò la sua tomba, mostra il defunto su di un trono, caratterizzato da una “attività intellettuale” che è rappresentata dal suo stare leggendo, dopo averlo srotolato, una pergamena o un papiro: due figure femminili ai suoi lati sembrano dialogare con lui, una in particolare a motivo del rotolo che ha fra le mani. Ma anche “filosofi” maschi compongono la scena, anche se due di essi guardano all’esterno della scena e non entrano in dialogo con il personaggio centrale.
È l’immagine del “filosofo”, con cui si intendeva caratterizzare una persona che fosse stato pensatore o comunque intellettuale e maestro.
Il “filosofo”, comunque, è qui rappresentato tramite ciò che è stato e che ora non è più: nessuna speranza viene specificata a caratterizzare la scena.
Ben diverso è il Sarcofago detto della via Salaria (così detto a motivo del luogo del suo rinvenimento, Inv.31540, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano, datato al 275-300 d.C. ca.) o dei due sposi che è nel Museo Pio Cristiano, a breve distanza da questo.
In esso due sposi sono a destra e a sinistra della scena e sono “in dialogo sapienziale”, rappresentato proprio dai rotoli che contraddistinguono entrambi e dal gesto di parola che caratterizza la sposa.
Ma in questo sarcofago anche la speranza è annunciata e il dialogo non sembra qualcosa di relegato al passato e di ormai impossibile.
Infatti in questo sarcofago, che è cristiano, appaiono al centro, fra i due sposi, le figure del pastore e dell’orante, quasi a dire che i due sposi hanno compreso nel loro meditare che esiste un pastore che guida le anime e le conduce alla vita eterna e che, quindi, è possibile pregare, levando le mani al cielo. O forse ancora a rappresentare che è proprio di tale speranza che si è nutrito il dialogo fra i due.

6/ Il sarcofago di Valerianus

Il sarcofago di Valerianus (Inv. 10536, rinvenuto nel 1828 in località Castel Rotondo, sulla via Appia, e attribuito alla metà del III secolo d.C.) chiude il Museo Gregoriano Profano di modo che, tramite una scala, si accede poi al Museo Pio Cristiano.
I curatori della nuova sistemazione – le collezioni erano precedentemente nel Palazzo del Laterano e vennero disposte poi in Vaticano nel 1970 per la nuova apertura – lo vollero proprio al termine dell’itinerario del Gregoriano profano per il suo significato.
Esso, infatti, è unico ai fini di una comprensione della visione della morte dell’epoca, non tanto per la sua raffigurazione, ma per la sua incredibile iscrizione.
Nelle immagini si mostra l’attività lavorativa che Lucio Annio Ottavio Valeriano praticava in vita: si vede il lavoro dei contadini nei campi, fino alla produzione del pane, di cui egli doveva possedere e gestire un’azienda specializzata.
Ma è l’iscrizione che attira l’attenzione: Essa recita:
D(is) M(anibus) s(acrum) L(ucius) Annius Octavius Valerianus
evasi effugi spes et fortuna valete
nil mihi vo(b)iscum est ludificate alios
che tradotto significa
Sacro agli Dei Mani. Lucio Annio Ottavio Valeriano.
Sono fuggito. Sono fuori. Speranza e Fortuna, vi saluto.
Non ho più niente da spartire con voi.
Prendetevi gioco di qualcun altro
Insomma Valeriano volle un’iscrizione che ricordava che ormai egli era “fuori” della vita (ne era “evaso”, ne era “fuggito”), ma non con un senso carico di speranza, bensì all’opposto.
Una volta morto, egli era ormai nella condizione di aver salutato per sempre la “speranza” e la “fortuna” e non “aveva più niente a spartire” con loro: poteva solo dir loro di “prendersi gioco di qualcun altro”. Egli aveva ormai visto la vacua verità delle cose e la transitorietà di ogni speranza e di ogni fortuna. Insomma, un monito lasciato a chi avesse visitato la sua tomba a non credere a nessuna speranza e a nessuna fortuna.
Si comprende allora come il mondo pagano del tempo avesse smesso di credere alle divinità pagane e al loro benefico effetto, rivelatosi illusorio: altri, non Valerianus che morì nello scetticismo, si stavano già volgendo ai culti misterici o al cristianesimo, poiché il politeismo non convinceva più nessuno.
In quei secoli non si assistette ad una lotta fra culti “misterici” e cristianesimo, bensì alla fine del polieismo e al contemporaneo rivolgersi di tanti a cercare altrove una fede più personale e calda, che promettesse speranze più solide di quelle che venivano dal mondo classico, a Roma, come in tutto il mondo ellenistico.



