Tatuaggio o tatuaggetto?, di Federico Quaranta

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /10 /2025 - 21:40 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito, dal suo Profilo FB, un testo di Federico Quaranta, pubblicato il 26/8/2025. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (26/10/2025)

Il tatuaggio era un rito.

Codice di appartenenza, rituale o condanna. Ferita, dolore, sangue che diventava segno, consacrazione. Ogni linea incisa era un giuramento, simbolo, una soglia varcata da cui non si poteva tornare.

Il guerriero Māori portava sul volto la genealogia della sua stirpe. In Siberia, il criminale tatuava il proprio curriculum di sangue: chiese sulle spalle per gli anni di galera, stelle sulle ginocchia per chi non si piega mai.

A Rebibbia o all’Ucciardone, la pelle dei carcerati si faceva archivio: simboli cifrati, santi deformati, madonne disperate. In Portorico, i guerriglieri tatuavano machete e proiettili: la pelle come manifesto di resistenza.

In Messico e Colombia, i narcos trasformano il corpo in santuario della violenza: vergini sanguinanti, Kalashnikov, volti di figli morti.

Nella Shoah, agli ebrei non fu concesso di scegliere: il numero tatuato sull’avambraccio era cancellazione di identità, riduzione a inventario.

In Giappone, ancora oggi, se hai tatuaggi ti chiudono le porte di onsen e ristoranti di lusso: marchio indelebile di Yakuza, stigma sociale.

Non si poteva portarlo senza averlo guadagnato o patito con coraggio, sangue, dolore o colpa.

E oggi? Oggi siamo nel tempo del tatuaggetto.

La farfallina televisiva di Belén a pochi centimetri dall’intimità mostrata: non metamorfosi, ma sensazionalismo da prime time.

Il mitra sulla fronte del trapper: caricatura grottesca che vuole fingersi minaccia.

Gli ideogrammi copiati su pinterest incisi senza saperli leggere. I cuoricini, le coordinate geografiche di luoghi vacanza.

Geometrie infilate tra i seni: erotismo confuso con la pornografia da discount, citazioni “motivazionali” sulle cosce, come se la pelle fosse il muro di un bagno pubblico.

Dal marchio di clan alla lavagnetta della vanità. Dalla cicatrice iniziatica al disegnino da post o reel. Dal sangue ai social, dall’epica al gadget.

Un tempo il tatuaggio diceva: “Io sono questo, io appartengo a”.

Oggi gracchia: “Io scimmiotto chi”.

Non chiamateli tatuaggi. Sono tatuaggetti.

Sono segni vuoti, graffi senza memoria, cicatrici senza storia.

Sono il monumento epidermico della nostra epoca frivola, svenduta e disperata.