Donne senza frontiere: il progetto di Avvenire. 1/ Le spose bambine dell'Uganda, dove una moglie “costa” 8 mucche, di Conslata Taaka 2/ Mahdia e le ragazze senza scuola nell'Afghanistan delle madrase, di Zahra Joya 3/ I padroni, le schiave: viaggio nell'inferno della “kafala”, di Joelle Abdelaal 4/ Sfruttate e invisibili: le contadine senza terra dell'India., di Khabar Lahariya 5/ «Noi, guerriere per la giustizia nell'Iraq straziato dal Daesh», di Juwan Shro 6/ Amina, gli stupri, le nozze precoci. Com’è essere donne a Mogadiscio, di Naima Said Salah 7/ Rischiare la vita per studiare. Le giovani dell’Amazzonia peruviana, del Colectivo Todas para Una 8/ I sogni spezzati di Nadia, Samah e Ahlam, in fuga dal Libano, di Sandy Hayek 9/ Da dirigenti ad allevatrici di polli: la dignità delle lavoratrici afghane, di Nasrin Jawadi e Khadija Haidary 10/ La cura di villaggio in villaggio: in India le infermiere fantasma, di Khabar Lahariya

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /09 /2025 - 20:20 pm | Permalink | Homepage
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Dare voce alle donne. Quando e dove non ne hanno. Perché della loro condizione ancora troppo svantaggiata si sappia e si parli. Dal Libano all’Iraq, dal Messico alla Nigeria, dall’Afghanistan alla Somalia, dall’India al Perù: sono 10 le reti indipendenti di giornaliste che hanno aderito alla nostra proposta “Donne senza frontiere”, il progetto di Avvenire per l’8 marzo 2025. A partire da quella data pubblichiamo ogni 15 giorni un reportage di ciascuna delle reti coinvolte.

1/ Le spose bambine dell'Uganda, dove una moglie “costa” 8 mucche. Le storie di Irene e Zaituni, vendute dalle famiglie a 16 e 15 anni a uomini adulti. Il Paese è quinto al mondo per matrimoni forzati e precoci. «Dopo tre figli sono fuggita, mio marito era violento», di Conslata Taaka

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Conslata Taaka, pubblicato il 22/6/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

Aveva 16 anni, Irene (nome di fantasia), quando è stata costretta a sposarsi. I suoi sogni di proseguire gli studi sono stati distrutti in una sola notte. Era il 2022.

L’adolescente della contea di Ngoma, nel distretto di Nakaseke, aveva appena completato gli esami del quarto anno di scuola secondaria quando, una sera, i suoi genitori le hanno chiesto di vestirsi in modo decoroso, di mettere in valigia alcuni abiti e di prepararsi per uscire.

I genitori, a bordo di un’auto a noleggio, hanno guidato per circa 10 chilometri fino ad arrivare a una casa dove si era radunata una ventina di persone. Era un matrimonio organizzato da un uomo di 35 anni e dai suoi parenti, senza il consenso della ragazza. «Hanno iniziato a contrattare il mio matrimonio quando ero in seconda media. I miei genitori avevano accettato cinque mucche come dote. Mio padre ha detto loro di aspettare che finissi la scuola media e di aumentare la dote a 20 mucche», ricorda oggi Irene.

E aggiunge: «Ho pianto tantissimo, ma mi hanno detto che stavo per sposare un uomo ricco che non mi avrebbe mai fatto soffrire. I miei genitori hanno detto che non potevo oppormi alla loro volontà e alla tradizione, così ho accettato».

Irene aveva 16 anni, lo sconosciuto 19 di più

Oggi, sposata e con una bambina di un anno, Irene ripensa alla sua esperienza con rimpianto e dolore, e attribuisce molte delle difficoltà nel matrimonio alla sua giovane età. Nonostante i valori tradizionali, non augurerebbe lo stesso destino a sua figlia, perché non è affatto una vita felice. Suo marito, di 19 anni più grande, la criticava per la sua incapacità in cucina e per le sue scarse abilità coniugali, e a volte i litigi sfociavano in violenza.

Irene racconta di non aver mai potuto chiedere consiglio ai suoi genitori perché le era stato detto che non avrebbe mai dovuto lasciare la casa del marito o mettere in discussione il suo comportamento. Le avevano detto che farlo sarebbe stato un disonore per la famiglia.

«Non ero consapevole delle responsabilità fondamentali di una casalinga, come gestire la casa, risolvere i conflitti con mio marito e molto altro», aggiunge Irene.

Un’altra giovane, Zaituni, ora 26enne e residente a Nakaseke, racconta di essere stata costretta a sposarsi a soli 15 anni nel 2014, in cambio di otto mucche.

Aveva appena terminato la scuola primaria quando i suoi genitori hanno avviato improvvisamente le trattative, sostenendo che investire nella sua istruzione sarebbe stato inutile. Zaituni è diventata la terza moglie di un uomo musulmano di 40 anni.

John Bosco Mugisha, un anziano della regione, spiega che i matrimoni vengono organizzati in questo modo perché è considerato prestigioso sposare una ragazza vergine. Se rimane a scuola troppo a lungo, il marito potrebbe scoprire che non è più “pura”.

«Questo fenomeno è spesso alimentato dalla povertà; le vittime di queste tradizioni culturali stanno affrontando lotte silenziose», afferma Mugisha. Joan Luswata, responsabile della protezione dei minori nel distretto di Nakaseke, afferma che il suo ufficio gestisce almeno 30 casi di matrimoni forzati ogni quattro mesi.

Nonostante le leggi esistenti che vietano tali pratiche, ottenere giustizia è ancora una sfida significativa, poiché le famiglie colludono per negare alla procura le prove necessarie a portare avanti i casi. «Le famiglie minacciano le vittime affinché ritirino le loro denunce. I fascicoli vengono aperti, ma poi i testimoni si tirano indietro e dicono di non voler proseguire. Cosa possiamo fare come rappresentanti dello Stato?», si chiede Luswata, che segnala anche una mancanza di collaborazione tra i capi dei villaggi, poiché molti evitano di opporsi a questa pratica per paura di essere emarginati dalle loro comunità.

Il censimento nazionale ugandese, pubblicato nel dicembre 2024, indica che fino a 533.379 ragazze tra i 10 e i 17 anni (6,7%) sono sposate o convivono. Il rapporto evidenzia in particolare la regione del Buganda, dove questa pratica è predominante, con oltre 100 mila casi, pari al 7,7%.

L'Articolo 31 della Costituzione ugandese vieta i matrimoni infantili. La Legge sui Minori del 2016 definisce il matrimonio infantile come l’unione tra una persona di età inferiore ai 18 anni e un’altra per vivere come marito e moglie, prevedendo una pena massima di 10 anni di carcere per i responsabili. Tuttavia, nonostante i numeri allarmanti, non ci sono registrazioni di casi con condanne effettive.

Margret Kulabako, ufficiale per la protezione dell'infanzia presso la stazione di polizia centrale di Nakaseke, sottolinea le difficoltà delle forze dell'ordine nel contrastare i matrimoni infantili, affermando che i genitori spesso cambiano versione e modificano persino l’età delle figlie, dichiarandole maggiorenni. «Fanno il lavaggio del cervello alle loro figlie e, quando arrivano alla polizia, affermano che siamo stati noi a costringerle a dire di essere state forzate al matrimonio, facendoci sembrare degli sciocchi», spiega Kulabako. L’ufficiale sottolinea la necessità di creare un ambiente che dia priorità ai diritti dei bambini, garantendo alle ragazze l’accesso all’istruzione e la libertà di scegliere il proprio futuro.

I genitori cambiano l’età delle figlie

L’Uganda conta circa 52 tribù, ciascuna con tradizioni radicate nella propria storia e identità. Nelle aree rurali, specialmente nelle zone in cui si alleva il bestiame, queste pratiche tradizionali sono molto rispettate e considerate inamovibili.

Le famiglie organizzano matrimoni per i propri figli in cambio di animali e altre forme di dote, senza tenere conto del consenso delle ragazze. Eric Musaazi, direttore dell’Organizzazione per lo Sviluppo della Comunità, un'associazione che tutela i diritti dei bambini, afferma che ogni anno il loro centro accoglie circa 100 ragazze nella regione di Greater Luweero, tutte vittime di matrimoni precoci e gravidanze indesiderate.

Le statistiche Unicef indicano che il matrimonio infantile è una delle maggiori sfide nel continente africano, con il 41% delle ragazze che si sposano prima dei 18 anni.

Secondo il movimento “Girls Not Brides”, la prevalenza è del 9% entro i 15 anni e del 31% entro i 18 anni.

L'Uganda è al quinto posto tra i Paesi con il più alto tasso di matrimoni infantili. Flavia Alimo, coordinatrice della ong Just Like My Child, sottolinea che il loro lavoro per salvare le ragazze dai matrimoni forzati è ostacolato dalla resistenza degli uomini, che vedono le iniziative contro il matrimonio infantile come una minaccia alle loro tradizioni.

«Dopo tre figli, ho deciso di scappare dal matrimonio perché mio marito era violento», racconta Zaituni. Ora affitta una casa di due stanze e vende cibo al mercato locale per mantenere i suoi figli. Zaituni spera che il governo rafforzi gli sforzi per salvare le altre ragazze che ogni giorno diventano vittime di questa pratica.

(traduzione dall’inglese di Antonella Mariani)

Her Story, il network di giornalismo al femminile. «Diamo voce alle donne e così cambiamo la società»

L'autrice di questo reportage, Conslata Taaka, fa parte della redazione di Her Story Uganda, una rete di giornaliste senza scopo di lucro che vogliono promuovere l’equità di genere, la pari rappresentanza delle donne nei media e l’emancipazione femminile. Le giornaliste di Her Story riescono ad accedere ai racconti più intimi delle donne, alle loro difficoltà e alle loro esperienze. I loro racconti diventano video interviste, articoli e reportage che vengono diffusi attraverso il sito herstoryug.org/ e il canale youtube. L’argomento svolto per Avvenire è una denuncia civile e sociale molto forte; in altri casi le giornaliste di Her Story diffondono messaggi di incoraggiamento ed empowerment attraverso storie di imprenditrici, inventrici e operatrici sociali, come Juliet, che ha messo a punto un metodo per produrre capelli “umani” dalla lavorazione delle foglie del banano, o Claire che invece ha creato un business allevando lumache. «La nostra visione come agenti di cambiamento è vedere più donne e ragazze parlare apertamente delle questioni che più contano per loro, esprimersi senza paura di pregiudizi. Consideriamo questo un fondamento per aumentare la loro autostima», spiegano le giornaliste. La Her Story Foundation Uganda è nata nel 2022 grazie all’impegno di Culton Scovia Nakamya, 32 anni, seconda di sette fratelli, giornalista televisiva e attivista per la libertà di stampa. Tra gli obiettivi, c’è l’aumento della rappresentazione femminile nei media, vissuta come una grande sfida per la parità di genere. «L’identità femminile spesso scompare e questo ha inciso profondamente sulla rappresentazione femminile nei media. Her Story diffonde informazioni alle donne con l’intento di trasformarle, perché l’informazione è un catalizzatore di cambiamento». Non solo: la rete indipendente offre corsi di formazione e tutoraggio a giornaliste motivate a inserirsi in un settore ancora oggi dominato dagli uomini.

2/ Mahdia e le ragazze senza scuola nell'Afghanistan delle madrase. Alle adolescenti è vietato studiare, così l’unica alternativa all’isolamento sono le scuole religiose. Si impara a memoria il Corano «ma non abbiamo altre possibilità», di Zahra Joya, direttrice di Rukhshana Media, Londra 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Zahra Joya, pubblicato l’8/3/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

Mahdia aveva 14 anni quando, nel 2021, i taleban sono tornati al potere. Frequentava la sesta classe, l’ultimo anno della scuola primaria pubblica. Quell’agosto, non immaginava che la sua vita sarebbe cambiata drasticamente. Tra le prime azioni della nuova dittatura è arrivato il divieto di istruzione secondaria per tutte le ragazze.

Le lacrime di Mahdia e Hakima

Per le adolescenti che vivono oggi nell’Emirato islamico dell’Afghanistan non restano che le madrase. Non ci sono alternative: prendere o lasciare. Mahdia è andata a scuola solo per altri quattro mesi. L’anno successivo nulla.

Lontana dai banchi, costretta a rimanere tutto il giorno a casa, è scivolata in una devastante depressione. La madre Hakima, 37 anni, ricorda ancora il dolore di quei giorni: «Vedevo mia figlia rimanere seduta in un angolo della sua stanza a piangere tutto il giorno. I taleban avevano vietato a donne e ragazze anche di uscire di casa da sole. Non avevamo nessun posto dove andare. A un certo punto si è ammalata e l’abbiamo dovuta portare in ospedale. È stato il medico, lì, a dirci che soffriva di un forte stato depressivo e che il rischio di degenerare in una grave malattia mentale era alto. Ero terrorizzata e, pensando che avrei potuto perderla, ho pianto».

Hakima ha così cominciato a cercare un modo per aiutare la figlia a uscire dal buio. «Ho parlato con alcune donne del quartiere e mi hanno suggerito – ricorda - di mandarla alla madrasa affinché potesse, almeno, rivedere le sue amiche di scuola, tenere la mente occupata e sentirsi meglio».

Così è stato. Nonostante le tante perplessità, Mahdia è stata iscritta alla scuola religiosa. Come lei hanno fatto tante altre ragazze pur consapevoli che non avrebbero studiato né matematica né letteratura ma che si sarebbero dovute dedicare all’apprendimento mnemonico del Corano.

Niente di paragonabile alla scuola vera. «Le materie tradizionali sono più utili ed essenziali di quelle impartite in una madrasa – insiste -. Scienza e tecnologia, per esempio, hanno un impatto più positivo sulla vita e sullo stato mentale di una persona».

Tuttavia, ammette amaramente, «noi non avevamo alternative».

Chi, in famiglia, non era particolarmente d’accordo con questa decisione è stata Farrokh-Liqa, la nonna 51enne. «Non ho mai mandato i miei figli alle scuole religiose – racconta ­– perché non sono luoghi di istruzione moderna».

Mahdia stessa non è interessata all’istruzione religiosa. Per lei, andare in una madrasa è eseguire i consigli del medico e della sua famiglia, l’occasione per trascorre qualche ora fuori casa ogni giorno e visitare una moschea nei pressi della propria abitazione.

«Le lezioni sono ripetitive – ammette – sempre le stesse di generazione in generazione». La giovane continua a sognare una scuola vera: «Mi piace la tecnologia e vorrei tanto studiare informatica – confida – ma finché i taleban saranno al potere so che sarà impossibile».

Da quando le è stato vietato di andare a scuola, Mahdia è rimasta in contatto solo con una delle sue ex compagne: Razia. «Non era solo un’amica di classe – precisa ­– ma anche la persona a me più cara. Lei, che come me non può più studiare, ora trascorre il tempo tessendo tappeti con i suoi fratelli. La maggior parte delle altre è caduta in depressione».

La posa della prima pietra di una scuola religiosa nella provincia di Bamiyan, alla presenza di un gruppo di studentesse. Normalmente alle alunne non è consentito uscire dalle classi ma le autorità le invitano alla cerimonia per propaganda - Rukhshana Media

La grande rete delle scuole coraniche

Sotto il dominio dei taleban, le istituzioni educative del Paese hanno subito cambiamenti significativi, con un maggiore supporto ed espansione delle scuole religiose, gestite dal ministero degli Affari Religiosi, a scapito di quelle tradizionali. Attualmente, in Afghanistan, il numero delle madrase supera quello degli istituti di istruzione pubblici e privati. Secondo il ministero dell’Istruzione, questi ultimi sono circa 18mila; quelli religiosi superano quota 21.257 con oltre tre milioni di giovani iscritti.

All’inizio dell’anno scolastico 1401 del calendario afghano (marzo 2022 in Occidente) il leader dei taleban, Hibatullah Akhundzada, ha emesso un decreto per la creazione di “scuole jihadiste” incoraggiandone l’istituzione in ciascuna provincia, con una capacità di accogliere fino a 1.000 studenti. Tre mesi dopo, la prima di questo tipo è stata inaugurata nell’area di “Pul-e-Charkhi”, a est di Kabul. Le autorità l’hanno definita la più grande del Paese. Entro la fine dell’anno, i funzionari taleban hanno annunciato che una scuola jihadista centrale era stata istituita in tutte le 34 province dell’Afghanistan.

Il governo islamico non si è opposto all’istruzione laica in senso assoluto. I ragazzi possono ancora andare a scuola ma non le giovani che devono concludere il ciclo di studi al sesto (e ultimo) livello della formazione primaria, tra 12 e 14 anni.

L’Afghanistan è ora l’unico Paese al mondo in cui le bambine sono private del fondamentale diritto allo studio. A loro sono precluse le classi secondarie e l’università.

Per tutta risposta, il ministero dell’Istruzione ribadisce che non ci sono «restrizioni di età» per l’educazione femminile nelle scuole religiose. Le donne, questo racconta la cronaca che arriva da alcune comunità, come quella di Bamiyan, vengono invitate alle cerimonie di inaugurazione delle nuove madrase, o alla deposizione della prima pietra di quelle che verranno costruite, solo per propaganda. A loro, in genere, è proibito uscire dalle aule.

Quaderno e penna per Sharifa

Sharifa, 13 anni, attualmente frequenta la sesta classe e, durante le vacanze invernali, per quattro ore al giorno segue anche le lezioni di una madrasa a Kabul. «Gli studi religiosi sono utili, imparo molte cose ma – precisa - ma sono preoccupata perché alla fine di quest’anno non potrò più proseguire il mio percorso di istruzione. Spero che il regime talebano cada».

Fatima, la madre 51enne, dice che può permettersi di mandare a scuola solo una delle sue figlie femmine. «Mio figlio ha studiato fino alla nona classe ma – confessa – non avevamo la disponibilità economica per poterlo aiutare a proseguire». La donna spiega che andava a scuola anche un altro dei suoi maschietti ma quattro anni fa, ricorda, «al suo istituto c’è stato un attentato suicida, si è molto spaventato e non è mai più tornato in classe».

«Mio marito lavora alla giornata ma – conclude ­– non in maniera continuativa perché a volte non trova nessuno che lo ingaggi. La sua paga, quando ce l’ha, è di 60 afghani al giorno. All’inizio dell’anno scolastico sono riuscita a comprare per Sharifa un quaderno e una penna per 50 afghani».

Ha collaborato Haniya Frotan
Traduzione dall’inglese di Angela Napoletano

Rukhshana Media è una piattaforma in lingua inglese e dari specificatamente dedicata alla questione femminile in Afghanistan. L’ha fondata nel 2020 la giornalista Zahra Joya che oggi continua a dirigerla da Londra, dove vive in esilio. Della rete fanno parte reporter che, da Kabul, lavorano in segreto e sotto pseudonimo per motivi di sicurezza. Rukhshana è il nome di una diciannovenne, di un villaggio della provincia di Ghor, che nel 2015 è stata brutalmente lapidata e uccisa per adulterio: aveva deciso di rompere un matrimonio forzato e fuggire con l’uomo che amava. Il video di 30 secondi che documentava i suoi ultimi istanti di vita, in una fossa scavata sulla collina brulla con un gruppo di uomini a guardarla morire, fece allora il giro del mondo. «In una società che punisce le scelte fondamentali delle donne ­– si legge nella presentazione del portale ­– raccontare le loro storie è una sfida che accogliamo per generare dibattiti e informare, per analizzare e indagare le problematiche legate alla condizione femminile nel nostro Paese». La direttrice Joya, oggi 33enne, racconta che da bambina, durante il primo regime taleban, si travestiva da ragazzo per poter andare a scuola. Costretta a fuggire da Kabul nel 2021, con il ritorno al potere dei fondamentalisti islamici, la giornalista continua a lottare dal Regno Unito per i diritti delle donne afghane e per raccontare le loro sofferenze e denunciare il regime di apartheid di genere imposto dai taleban. Nel 2022 è stata nominata “Donna dell’Anno” dalla rivista Time proprio per il suo lavoro. Le storie pubblicate da Rukhshana Media sono il frutto di inchieste realizzate in tutte le province dell’Afghanistan, anche in quelle più remote, essenziali ad aprire una finestra di informazione qualificata utile anche ai media internazionali e alla diaspora afghana nel mondo.

3/ I padroni, le schiave: viaggio nell'inferno della “kafala”. In Libano migliaia di lavoratrici domestiche migranti vivono sotto la tutela di uno “sponsor”, che dispone dei loro documenti e delle loro vite, privandole di ogni diritto. Ecco le loro storie, di Joelle Abdelaal, Beirut 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Joelle Abdelaal, pubblicato il 21/7/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

Nei saloni di bellezza, tra le mura di casa e sulle piattaforme digitali si ripete la stessa retorica disumanizzante, che di lavoratrici domestiche parla non come se fossero persone, ma oggetti. Da scegliere, sostituire, scartare.

Dimenticate il termine “assunzioni”, quello che spopola è “acquisto”. Della merce si ragiona in termini di caratteristiche, a cominciare da quelle etniche: «Le etiopi sono più energiche, ma le keniote sono più pulite»; «Le senegalesi sono tranquille, anche se non capiscono l’arabo».

Ancora, i salari vengono contrattati, come si farebbe per un elettrodomestico o un mobile da arredo al mercato. E non mancano le classiche istruzioni per l’uso, un misto di stigma e sospetto: «Tieni d’occhio quella lì, non lasciarla sola in casa»; «È una ladra, non mostrarle compassione».

Benvenuti in Libano dove, come in buona parte del mondo arabo, il sistema della kafala istituzionalizza la schiavitù. Il datore di lavoro, cioè, che diventa lo sponsor di una lavoratrice domestica straniera consentendole con il contratto anche la permanenza legale nel Paese, della donna assume il controllo totale anche sulla mobilità e sui documenti. In una parola, ne diventa il proprietario, privandola della libertà e dei diritti fondamentali e confinandole in una relazione di dipendenza forzata irreversibile.

Il ruolo delle agenzie

Mary (il nome è di fantasia) aveva solo 19 anni quando lasciò le Filippine per il Libano. Arrivò con l’illusione di un lavoro dignitoso, trovò invece un incubo. Il suo calvario cominciò quando la sua prima datrice di lavoro, dopo averla falsamente accusata di furto, la riportò all’agenzia di reclutamento: «Il titolare mi trattenne in ufficio, poi mi condusse in un presunto hotel. Mi ritrovai in una camera senza cucina, senza servizi. Presto mi fu chiaro che quel posto veniva usato per scopi diversi...».

Il titolare si presentò con un’altra giovane, la fece spogliare. Mary, terrorizzata e disgustata, si chiuse in bagno e vi rimase per ore. «Quella volta evitai gli abusi, ma lui non mi lasciò andare e io non avevo un posto dove stare. Mi diceva che poteva essere mio marito, qui in Libano. Cercava il mio consenso.

Dopo un po’ mi cedette a un’altra agenzia: lo fece, credo io, perché non aveva ottenuto quello che voleva». Solo dopo mesi Mary fu finalmente affidata a una famiglia che la trattò con rispetto. Oggi parla con fatica, ma con lucidità: «Le agenzie sono mercati di tratta. Molte sfruttano sessualmente le ragazze o ignorano cosa ci succede. E nessuno viene mai punito».

Grace Wimbara, keniota di 45 anni, lavorava senza paga, senza cibo, sotto minaccia. Il suo datore di lavoro le diceva: «Fallo altri sei mesi gratis e ti lasciamo andare». Grace fu molestata ripetutamente dal titolare dell’agenzia “Gabriel Services”, Gabriel Nakhleh, già denunciato da diverse donne per violenze sessuali e mancato pagamento del salario.

Fu salvata da un’associazione di diritti civili durante una crisi di salute legata all’asma e più tardi, durante una protesta davanti all’ambasciata keniota, scoprì che l’agenzia agiva illegalmente, detenendo e picchiando alcune lavoratrici nei suoi uffici. Grace ha anche raccontato di aver lavorato per un noto cantante libanese, identificato con le iniziali F.K., senza contratto né salario, sotto falso nome». La moglie del cantante le impediva anche di andare in bagno senza permesso.

I poteri del “padrone”

La kafala rende le lavoratrici prigioniere. Come spiega l’avvocata Mohana Ishaq dell’Ong Kafa, la dipendenza dallo sponsor è totale: «Passaporto, permesso di soggiorno, alloggio, libertà di movimento: tutto è legato al datore di lavoro».

Ne derivano abusi costanti e sistematici: turni infiniti, fame, negazione delle cure mediche, violenze sessuali.

Le “fughe” diventano l’unico modo per liberarsi, ma vengono criminalizzate. Le lavoratrici vengono accusate di furto, incarcerate o deportate.

Nel 2023, nonostante le promesse di Meta di combattere la tratta online, sulle piattaforme continuano a circolare annunci che offrono donne “in vendita”, con commenti come “Prezzo?” o “Quanto al mese?”.

Uno studio del 2022 ha rilevato che il 68% delle lavoratrici migranti ha subito molestie o violenze sessuali; il 75% non ha denunciato per mancanza di protezione. I responsabili? Datori di lavoro (70%), tassisti (65%), amici di famiglia (40%), datrici di lavoro donne (25–30%) e persino agenti di sicurezza (15%).

Le morti delle donne (un numero che è impossibile conteggiare) vengono archiviate come “suicidi”, anche quando precedute da denunce documentate, come nei casi di Emibet Bekele Pero (2014) e Faustina Tai (2020).

L’avvocata Ghada Nkoula della Global Legal Action Network conferma: «Nessuna inchiesta è mai stata avviata. Nessuna agenzia è mai stata chiusa, nonostante le prove schiaccianti». Per Farah Abdallah, avvocata della Federazione nazionale dei lavoratori e degli impiegati in Libano, i titolati delle agenzie lavorano come veri e propri «trafficanti di esseri umani» che prosperano grazie alla scarsa supervisione, a processi di reclutamento opachi. E invita a un cambiamento strutturale: trasferire la responsabilità del reclutamento all’Ufficio nazionale per l’impiego, il che permetterebbe una vera supervisione normativa e garantirebbe i diritti dei lavoratori. A oggi circa 250mila lavoratrici migranti vivono in Libano: per lo più provengono da Etiopia, Filippine e Sri Lanka. Escluse dalla legge sul lavoro, non hanno diritto al salario minimo, ferie o giorni di riposo. Amnesty International e Human Rights Watch hanno condannato il sistema, l’Organizzazione internazionale del lavoro lo identifica come una delle forme più diffuse di lavoro forzato nel mondo arabo.

Il caso di Mirzet Haylo

Una possibile svolta è rappresentata dal caso giudiziario di Mirzet Haylo, una lavoratrice etiope che tra il 2011 e il 2019 ha vissuto in condizioni di schiavitù. È stata lei nel 2020, grazie alla consulenza dell’avvocata Ghada Nkoula, a presentare la prima denuncia a un tribunale libanese contro la kafala.

Nella recente udienza del 27 maggio 2025, Mirzet ha anche affrontato il suo ex sponsor. «Se le sue accuse verranno confermate – afferma Nkoula – non porteranno giustizia solo a Mirzet. Potrebbero aprire la strada a processare l’intero sistema per ciò che è realmente: uno strumento di schiavitù e traffico di esseri umani». Tali crimini per altro «rientrano nello jus cogens, norme imperative del diritto internazionale che non possono essere giustificate né ignorate in nessuna circostanza, al pari della tortura e del genocidio. Il caso chiama inoltre in causa lo Stato libanese, che deve rispondere delle sue obbligazioni internazionali nel prevenire e perseguire tali violazioni». Sebbene il verdetto sia ancora in sospeso, il suo impatto sul dibattito pubblico e politico si fa già sentire. La speranza è che possa accendere a tutti i livelli la richiesta di riconoscere la kafala come una forma di schiavitù moderna che necessita urgentemente di essere abolita.

Sharika Wa Laken: la voce femminista del mondo arabo che sfida i poteri dominanti e mette le donne al centro

È una piattaforma digitale femminista all’avanguardia, Sharika Wa Laken (per leggerne la versione in inglese cliccare su https://en.sharikawalaken.media/), impegnata da anni ad amplificare le voci di donne e ragazze in tutte le loro diversità nella regione araba attraverso la voce, le riflessioni, i reportage e le denunce di giornaliste donne. Nata come braccio mediatico dell’organizzazione femminista di base “Female”, co-fondata dall’attivista Hayat Mirshad nel 2012, la piattaforma si distingue per un approccio dichiaratamente femminista. Obiettivo, spiegano da Tripoli in Libano le colleghe della rete, «opporsi apertamente al patriarcato, al colonialismo, alle narrazioni egemoniche e a ogni forma di occupazione — sia essa del corpo, della terra, della voce o dell’identità». Al centro della missione del network vi sono le esperienze vissute e i racconti in presa diretta, in netta contrapposizione alla tendenza del mondo arabo di silenziare ed emarginare le donne. Sotto la direzione della caporedattrice Hayat Mirshad, della coordinatrice della redazione araba Mariam Yaghi e della responsabile dei contenuti in inglese e traduzioni Hala Hajj, la piattaforma collabora con oltre 250 reporter e contributor provenienti dall’intera regione Mediorientale e del Nord Africa, documentando problematiche ignorate dai media tradizionali: dall’esposizione della violenza di genere e delle leggi discriminatorie, fino alla documentazione della resistenza quotidiana delle donne nei contesti di repressione e conflitto. Sharika Wa Laken produce contenuti multimediali esclusivi basati su un’analisi al femminile, promuove la diffusione di conoscenze accessibili e si batte per riforme legali e sociali proponendo di ripensare il giornalismo come strumento costruttivo di giustizia.

4/ Sfruttate e invisibili: le contadine senza terra dell'India. Privata del diritto a possedere i campi coltivati, la popolazione femminile delle campagne più remote fatica a ottenere anche il riconoscimento del proprio ruolo nella comunità e nella famiglia, di Khabar Lahariya, Lucknow (Uttar Pradesh) 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Khabar Lahariya, pubblicato il 25/5/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

Invisibili. Nell’India rurale le donne come Kanchan, Shakuntala e Meena, che dall’alba al tramonto prestano le proprie braccia alla coltivazione dei campi, sono la spina dorsale dell’agricoltura ma per le autorità e la comunità locale non esistono. A loro è infatti negato un diritto fondamentale da cui dipende non solo la loro indipendenza economica ma anche il modo in cui la società le considera: la proprietà della terra che instancabilmente lavorano.

Il buio che avvolge la loro condizione ha origine in un sistema strutturato per privarle della propria autonomia lasciandole vulnerabili allo sfruttamento, al controllo patriarcale e all’abbandono delle istituzioni. Sebbene esistano leggi che ne tutelano i diritti, i pregiudizi culturali, le dinamiche familiari e una diffusa mancanza di consapevolezza delle proprie prerogative le tengono legate a un futuro in cui il duro lavoro non si traduce mai in emancipazione. In un mondo che continua a sminuire il loro ruolo, la lotta per la proprietà della terra diventa una questione di sopravvivenza, dignità e diritto a un futuro che gli appartenga veramente.

Kanchan, una contadina del Ambedkarnagar, nell’Uttar Pradesh rurale, ha lavorato per anni nei campi – li ha arati, seminati e raccolti ­– tanto da avere le mani consumate. Eppure, quel suono non è suo. La proprietà da 1,5 bighas (circa mezzo ettaro) è intestata al marito Ramnaresh, ora sposato in secondo matrimonio e con altri figli, che l’ha sempre usata come se fosse una valuta di cui disporre a proprio piacimento anche solo per ricordare a Kanchan chi tra i due comandasse.

Di certo, non lei. «Io lavoro, sudo, dedico tutta me stessa a questa terra, ma non possiedo nulla», racconta. «Ramnaresh può venderla quando vuole – prosegue –. Mi minaccia ogni giorno, e non posso farci nulla». I proventi del raccolto finiscono nelle mani del marito che lascia alla donna solo la fatica e la promessa vuota di un futuro migliore. La donna non ha mai saputo nulla dei suoi diritti. Nessun funzionario governativo le ha mai spiegato che avrebbe potuto rivendicare il possesso della terra che lavora. Sola, senza alcun sostegno, è rimasta intrappolata in un ciclo vizioso.

Anche la vita di Shakuntala è rimasta a lungo legata ai campi che non ha mai posseduto. Nel suo caso, gli ettari che ha lavorato senza sosta appartengono a suo cognato che ne è diventato il titolare in seguito a una disputa tra parenti.

Quel pezzo di terra che è costretta a lavorare senza alcuna prospettiva di diventarne padrona è il suolo di un legame familiare diventato freddo e indifferente come un ricordo dimenticato. «Ho dato il mio sudore, il mio sangue, tutta la mia vita a quel terreno – sottolinea con voce a flebile – e ora è sua. A me cosa resta?», si domanda. Niente. Il sole brucia sopra di lei ma nell’aria domina il gelo della delusione e della consapevolezza che quel posto nel mondo in cui si è a lungo sentita padrona, in fondo, non è mai stato davvero suo.

L’agricoltura in India ha sempre fatto affidamento sul lavoro delle donne: la loro manodopera femminile è impiegata nel 75% delle attività agricole non meccanizzate come la semina, la trebbiatura e la raccolta. Eppure, le braccianti affrontano una marginalizzazione sistemica che ne penalizza l’indipendenza finanziaria e l’equità sociale.

Secondo uno studio della University of Maryland e del National Council of Applied Economic Research solo il 2% della popolazione femminile possiede i terreni agricoli. Il genere crea disparità più accentuate in Stati come Uttar Pradesh e Bihar dove le norme patriarcali e le leggi ereditarie spesso escludono le donne del tutto. In alcune regioni, la proprietà femminile è svantaggiata dalle imposizioni religiose che regolano l’eredità.

La lotta di Kanchan e delle altre per la proprietà della terra non è solo una questione di possesso ma di sopravvivenza, dignità e autonomia. Senza il riconoscimento della proprietà che coltivano ogni giorno non possono beneficiare dei programmi di sostegno governativo, come il Kisan Credit Card, e incassare i risarcimenti per le perdite di raccolto, i sussidi agricoli e i servizi di assistenza tecnica.

Nonostante il quadro giuridico di riferimento, come il Land Acquisition Act, sia tendenzialmente progressista, aperto al riconoscimento di alcuni diritti delle donne, in particolare di quelle sole, la complessità della sua applicazione lascia molte contadine in un limbo. Senza il “patentino” di agricoltore previsto dal National Rural Employment Guarantee Act, Kanchan, per esempio, non può accedere all’iniziativa Pradhan Mantri Awas Yojana che gli darebbe la possibilità di avere una casa intestata a suo nome.

Anche Meena Sharma ha trascorso tutta la vita a coltivare la terra che non sarà mai sua. «È doloroso accettare che i profitti di anni di duro lavoro vengano gestiti dagli uomini – spiega con amarezza – mentre io continuo a faticare come una schiava». La donna teme per il suo futuro: «Cosa ne sarebbe di me – si chiede – se un giorno mio marito decidesse di trasferire la terra alla nuora o ai suoi figli?».

«Il nodo della proprietà fondiaria per le donne è importante – aggiunge – perché da questa dipende l’indipendenza economica e il loro ruolo all’interno della famiglia ovvero il riconoscimento del contributo dato al suo sostentamento».

Chandrakala, attivista da oltre 20 anni nel Rajasthan per conto dell’associazione Ekal Nari Shakti Sangathan, insiste: «La questione va oltre la gratificazione di vedere il proprio nome scritto sui documenti di proprietà perché riguarda il posto che le donne occupano nella comunità. La proprietà di una piccola parte di campo è essenziale a garantirgli il rispetto di chi le circonda. Solo così il concetto di giustizia alla base del diritto fondiario può essere pienamente realizzato».

Nonostante riforme come quella introdotta dall’emendamento all’Hindu Succession Act a garantire pari diritti ereditari alle figlie, i pregiudizi culturali continuano a ostacolare la proprietà femminile. I programmi governativi per la distribuzione delle terre incolte non riescono a istituzionalizzarla perché i cavilli legali finiscono comunque per favorire l’assegnazione del suolo agli uomini in quanto capifamiglia.

Anu, 53 anni, è una contadina di Mahoba che è riuscita a intestarsi la terra che ha lavorato per anni solo dopo la morte del marito che l’aveva in affitto. La sua battaglia contro il proprietario, che si rifiutava di farla subentrare al coniuge defunto, è ben nota. L’ha vinta. «Questa terra è la mia identità – insiste ­­–, la fonte da cui traggo il rispetto degli altri».

Saroj, del sindacato dei contadini del distretto di Banda, sollecita «cambiamenti legali che garantiscano alle donne, soprattutto alle vedove, il diritto immediato alla terra che hanno lavorato». Obiettivo non facile, come spiega Chandrakala, perché osteggiata dal fronte compatto che vede allineati «fratelli, mariti, suoceri e proprietari». La lotta, insiste, «non è solo legale ma sociale, economica e profondamente personale».

Khabar Lahariya, il giornale di sole donne che racconta la vita delle remote campagne indiane sfidando gli stereotipi di genere

È l’unico organo di informazione indipendente in India gestito interamente da donne, Khabar Lahariya, nato come giornale cartaceo a Chitrakoot nel 2002 proponendo storie e approfondimenti sulla realtà locale delle comunità rurali. Articoli scritti da una prospettiva prevalentemente femminista con un linguaggio molto semplice e, in alcuni casi, in dialetto. Negli anni è diventato un punto di riferimento per il giornalismo investigativo sul territorio e autorevole fonte di notizie provenienti dalle aree più remote del Paese spesso prive di copertura mediatica. Oggi offre ai suoi lettori (circa 20 milioni di persone) anche contenuti culturali e di intrattenimento. Per Khabar Lahariya lavorano 25 giornaliste di diversa estrazione sociale e religiosa residenti in sei Stati dell’India settentrionale. Le reporter sono votate a portare la prospettiva femminista nel racconto, ormai solo digitale, dell’India rurale per affermare il ruolo delle donne nelle piccole città e nei villaggi. La visione a più ampio spettro della testata, che nel 2019 è entrata a far parte del gruppo Chambal Media, è coltivare un giornalismo indipendente, inclusivo e radicato sul terreno per potenziare le comunità emarginate e dare voce alla gente comune altrimenti ignorata. Durante la pandemia di Covid, ha contribuito a costruire la consapevolezza pressoché inesistente dei rischi legati al coronavirus. Nel 2018, ancora, ha lanciato un’iniziativa per dare voce alle donne costrette a tacere le molestie sessuali e la violenza subite dando vita al movimento #RuralMeToo. Non sono mancate minacce legate all’aver messo in discussione lo status quo e gli stereotipi di genere. Tre anni fa ha lanciato la Chambal Academy, una piattaforma per formare la nuova generazione di giornaliste digitali dell’India rurale. I corsi, dedicati a chi ha poca o nessuna competenza in materia, comprendono approfondimenti su come riconoscere e comprendere le dinamiche di genere, casta e patriarcato nella società indiana.

Hanno collaborato: Sejal, Shyamkali, Sangeeta e Shivdevi 

5/ «Noi, guerriere per la giustizia nell'Iraq straziato dal Daesh». Adiba: «Ho perso tutto a causa del terrorismo. Abbiamo sofferto abbastanza, è ora che il mondo ci ascolti». Così a Sinjar, nella città che ha vissuto l’orrore, si prova a ricostruire le relazioni, di Juwan Shro, House of Coexistence, Sinjar (Iraq) 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Juwan Shro, pubblicato il 6/4/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

«Ho perso tutto per colpa del Daesh. Ma non voglio che mi portino via anche la voce. Abbiamo sofferto abbastanza, ed è ora che il mondo ci ascolti»; le parole di Adiba risuonano decise.

Sono trascorsi dieci anni dal genocidio del popolo yazida, ma il dolore non scompare.

Il 3 agosto 2014, lo Stato Islamico lanciò un attacco contro la comunità yazida a Sinjar, nel nord dell’Iraq; migliaia di persone furono uccise, donne e bambini furono ridotti in schiavitù e l’intera comunità venne devastata.

Ad oggi, sono state scoperte 93 fosse comuni, mentre in altre 40 le operazioni di esumazione non sono ancora iniziate. Oltre 2.645 yazidi risultano tuttora dispersi. In mezzo a tutta questa distruzione, le donne yazide non solo sono sopravvissute, ma sono diventate guerriere per la giustizia.

Tra loro c’è Adiba Murad, una sopravvissuta yazida e membro del Sinjar Open Space Dialogue (SOS-D), un’iniziativa guidata dalla ong House of Coexistence, che riunisce 50 attivisti yazidi impegnati a promuovere il cambiamento. Come molti altri, Adiba ha trasformato la sofferenza in attivismo e ora è in prima linea a chiedere riconoscimento, giustizie e sicurezza per il suo popolo.

Le sopravvissute diventate attiviste

Molte donne yazide che hanno subito le brutalità del Daesh sono diventate leader nella loro comunità. Lamiya Haji Bashar, Farida Abbas e Shireen Kherow, tutte ex prigioniere, sono oggi autorevoli sostenitrici dei diritti umani, denunciano la violenza di genere e chiedendo giustizia.

«Siamo sopravvissute, ma sopravvivere non basta. Dobbiamo lottare per la giustizia affinché nessuna ragazza debba mai più affrontare ciò che abbiamo vissuto noi», dice Lamiya, che ha dedicato la sua vita alla difesa delle sopravvissute e ora sottolinea l’importanza di far sentire la propria voce.

L’attivista yazida più riconosciuta a livello internazionale è Nadia Murad, sopravvissuta alla prigionia di Daesh e prima donna yazida a ricevere il Premio Nobel per la Pace. Con il suo lavoro attraverso la Nadia Initiative ha portato la tragedia degli yazidi all’attenzione globale, esortando i leader mondiali a riconoscere il genocidio.

«Voglio essere l’ultima ragazza al mondo con una storia come la mia», ripete spesso Nadia, evidenziando il suo impegno per porre fine ad atrocità come gli stupri di guerra di cui è stata vittima.

«Un’intera generazione vive ancora nelle tende»

Il genocidio yazida non si è concluso nel 2014, ma continua sotto forma di sfollamento, insicurezza e negligenza governativa. Mirza Dinnayi, vincitore del Premio Aurora per il Risveglio dell'Umanità e fondatore della House of Coexistence, descrive una realtà allarmante: «Dopo dieci anni la comunità yazida soffre ancora. Per alcuni versi, le conseguenze del genocidio sono peggiori dell'attacco stesso. Due terzi degli yazidi sono ancora sfollati, senza un serio piano governativo per il loro ritorno o la ricostruzione della loro terra natale. Un’intera generazione di bambini è nata nelle tende, senza sapere cosa significhi avere una casa. La giustizia ha fallito e gli yazidi non possono fidarsi delle istituzioni statali. Anche se sono cittadini iracheni, in pratica sono trattati come cittadini di terza classe».

La House of Coexistence: una piattaforma per la giustizia

La House of Coexistence (HoC) ha svolto un ruolo fondamentale nel supportare le sopravvissute yazide. Nel 2023 ha lanciato il National Women of Courage Prize (Prenio nazionale Donne coraggiose) per onorare il coraggio delle donne irachene. Il premio inaugurale è stato assegnato a Lamiya Haji Bashar per il suo straordinario impegno nella difesa dei diritti delle donne e dei bambini.

La Legge per le sopravvissute: una vittoria ritardata

Nel 2021, il Parlamento iracheno ha approvato la Legge per le sopravvissute yazide, riconoscendo il genocidio e offrendo riparazioni finanziarie, supporto psicologico e programmi di reintegrazione. Tuttavia, la sua attuazione è stata lenta e ostacolata dalla burocrazia.

«Le riparazioni finanziarie da sole non bastano», afferma Lamiya Haji Bashar. «La vera giustizia significa punire i colpevoli. Ma oggi vediamo impunità: i combattenti del Daesh potrebbero essere rilasciati grazie alla Legge sull'amnistia generale».

Mentre le sopravvissute yazide cercano di ricostruire le loro vite, due nuove leggi minacciano di annullare i progressi: la Legge sull'amnistia generale, che inizialmente sollevava il timore che i membri del Daesh potessero essere liberati. Tuttavia, recenti dichiarazioni ufficiali hanno escluso questa possibilità. L’altra preoccupazione riguarda le modifiche alla Legge sullo Stato Civile, approvate nel gennaio 2025, che potrebbero legalizzare il matrimonio infantile, colpendo in modo sproporzionato le ragazze yazide e appartenenti ad altre minoranze.

Queste due leggi hanno suscitato forti opposizioni da parte di attivisti yazidi e organizzazioni per i diritti umani. La stessa Amnesty International ha condannato la modifica della Legge sullo Stato Civile, accusandola di violare i diritti fondamentali di donne e bambine.

Gli sfollati yazidi nei campi: la lotta per tornare a casa

Dopo quasi un decennio, oltre 200.000 yazidi vivono ancora nei campi per sfollati interni in Kurdistan. L’area di Sinjar resta instabile e pericolosa, con tensioni tra gruppi armati e infrastrutture distrutte.

«Non possiamo tornare perché la situazione è pericolosa. Le nostre case sono distrutte e nessuno ci protegge», spiega Adiba Murad. Nell'agosto 2024, una nuova ondata di discorsi d’odio ha scosso la comunità yazida, alimentata da figure religiose estremiste in Kurdistan.

Secondo il Sinjar Open Space Dialogue, in meno di una settimana sono stati documentati oltre un milione di messaggi d’odio contro gli yazidi. «Questo non è solo discorso d’odio, è una minaccia diretta alle vite yazide. Abbiamo già vissuto un genocidio, non possiamo permettere che la disumanizzazione si ripeta», spiega Basma Haji, attivista e membro del consiglio di House of Coexistence.

Del resto, è urgente liberarsi dell’etichetta esclusiva di vittime. «Il mondo ci vede solo come vittime di Daesh. Ma siamo molto di più: leader, attiviste, educatrici. Abbiamo trasformato il nostro dolore in azione», aggiunge Basma Haji. Nonostante gli ostacoli, infatti, le donne yazide continuano a lottare per la giustizia e il riconoscimento, come ribadisce Adiba Murad: «Non siamo solo sopravvissute. Siamo guerriere. E non ci fermeremo finché non avremo giustizia».

La Casa della Coesistenza, dove si promuove la pace. Obiettivo: l'istruzione e l'emancipazione delle giovani

È un centro comunitario multiculturale situato a Sinjar, in Iraq, la Casa della Coesistenza, dedicato alla promozione della pace, della coesistenza appunto e dei diritti umani. Fondata dal vincitore del Premio Aurora 2019 Mirza Dinnayi, la Casa è anche un faro di speranza per le comunità post-belliche della regione, in particolare per le donne, i giovani e i sopravvissuti al genocidio degli yazidi del 2014. Fondata come ong indipendente senza scopo di lucro, è diventata rapidamente un attore chiave nella costruzione della pace e negli sforzi umanitari, ottenendo riconoscimenti nazionali e internazionali. La Casa funge da centro per l'istruzione, la documentazione, lo scambio culturale e il supporto terapeutico, offrendo servizi essenziali come aule di formazione, unità di cura per i sopravvissuti e strutture per le ong locali e internazionali per collaborare e fornire aiuti. La visione della Casa è radicata nella convinzione che una pace sostenibile possa essere raggiunta solo attraverso l'istruzione, l'empowerment e la riconciliazione. Il centro opera attraverso cinque pilastri fondamentali: istruzione, emancipazione di donne e ragazze, rafforzamento delle organizzazioni della società civile locale, promozione della coesione sociale e promozione di uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale. Le iniziative educative del centro si concentrano sul miglioramento delle comunità poco servite, in particolare le donne e le ragazze delle zone rurali, mentre i programmi di empowerment mirano a combattere la disuguaglianza di genere e a dare alle donne una piattaforma per la leadership. La Casa è guidata da donne, e tutti i membri del consiglio di amministrazione sono donne, a testimonianza dell'impegno del centro nel dare potere alle donne e nel conferire loro ruoli di leadership nel plasmare il futuro della regione.

6/ Amina, gli stupri, le nozze precoci. Com’è essere donne a Mogadiscio. I racconti drammatici delle somale sfollate nei campi alla periferia della capitale: «Sono uscita a raccogliere legna, mi hanno violentata e minacciata di morte se avessi denunciato», di Naima Said Salah, Bilan Media, Mogadiscio 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Naima Said Salah, pubblicato il 25/3/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

«Ero uscita a raccogliere legna per cucinare per i miei figli quando mi hanno stuprata. Mi hanno picchiata e nessuno mi ha aiutata». Amina Awies ha 28 anni, è madre di nove figli. Lei e la sua famiglia sono sfollati dall’interno della Somalia e ora vivono nel campo di Beladul Amiin, alla periferia di Mogadiscio.

Nel Paese africano, dove il cambiamento climatico, i conflitti e l'instabilità hanno provocato vasti movimenti della popolazione, le donne sono vulnerabili alla violenza sessuale. Le vittime raramente ottengono giustizia, mentre i loro aggressori restano impuniti, protetti dallo stigma sociale, dalla paura e dalle leggi informali che vigono nei clan.

Amina Awies è una delle tante vittime della violenza di genere che colpisce donne e ragazze nelle comunità sfollate all’interno del Paese. Un anno fa è stata violentata da un gruppo di uomini mentre raccoglieva legna da ardere per la sua famiglia. Gli aggressori hanno minacciato di ucciderla se avesse denunciato la violenza subita. Anche se le ferite fisiche di Amina si sono rimarginate, le cicatrici psicologiche restano.

Lei e la sua famiglia vivono in un rifugio precario fatto di tessuti cuciti insieme alla periferia del distretto di Garasbaaley, fuori Mogadiscio, senza elettricità e senza protezione. La giovane donna teme ritorsioni se solo osasse denunciare ciò che le è accaduto. «Non appartengo a una famiglia ricca o a un clan influente. Ho paura che cercare giustizia possa portare a ritorsioni contro di me o i miei figli» spiega Amina.

La sua non è una storia isolata. Numerose donne nel campo di Beladul Amiin, che ospita oltre 800 famiglie sfollate a causa della siccità, dei conflitti e delle inondazioni che affiggono la Somalia, hanno subito violenze, e temono che sostenere la causa di Amina possa renderle anch’esse bersagli quando di giorno lasciano il campo per andare a lavorare. Amina spiega che molte donne nei campi per sfollati interni di Mogadiscio escono dall’accampamento per guadagnarsi da vivere e mantenere le famiglie, svolgendo lavori informali come lavare i vestiti o pulire le case delle famiglie più benestanti della capitale. Tuttavia nel tentativo di provvedere ai loro cari si espongono a rischi rilevanti, tra cui lo stupro e altre forme di violenza sessuale. Questi pericoli sono aggravati dalle precarie condizioni di sicurezza nei campi. L’accesso limitato ai percorsi formali di giustizia lascia donne e ragazze particolarmente esposte ai pericoli.

Ma la vulnerabilità delle donne sfollate va oltre la violenza sessuale. Nel 2024 le autorità hanno salvato circa 1.000 ragazze di età compresa tra i 14 e i 18 anni dai matrimoni precoci, dai matrimoni di scambio e dal lavoro minorile. Tra loro c'è Ambiyo Abdi Abdillahi, 17 anni. La madre di Ambiyo l’ha data in moglie a un leader del campo quando aveva solo 15 anni, sperando di garantire alla famiglia accesso agli aiuti alimentari e a un riparo. A 16 anni, Ambiyo aveva già un figlio. Suo marito aveva 58 anni. «L'uomo che ho sposato non si è mai preso cura di me né mi ha sostenuta. Era violento. Ho ancora le cicatrici delle sue percosse», racconta la giovane. «Non voglio che le mie sorelle minori subiscano la stessa sorte». Quando suo marito è morto, Ambiyo è fuggita dal campo e ha cercato aiuto presso un’organizzazione benefica. Come molte altre donne nel campo, non può tornare a casa, nel suo paese d’origine, a causa delle violenze tra clan e degli scontri tra il governo e i gruppi armati.

I dati delle forze di polizia e delle organizzazioni per i diritti delle donne rivelano che nel solo 2024 sono state violentate 730 donne. Nonostante gli sforzi della polizia per combattere la violenza di genere, le sopravvissute esitano ancora a denunciare. Sagal Abdinuur Ahmed, responsabile dell'unità per la violenza di genere della polizia somala, sottolinea che lo stigma sociale e la paura di ritorsioni impediscono a molte donne di denunciare i loro aggressori. «In alcuni casi, gli aggressori registrano le violenze e usano i filmati per intimidire le sopravvissute. La polizia ha promesso di trattare i casi con riservatezza e di garantire giustizia, ma per molte donne la paura del giudizio sociale è più forte della fiducia nel sistema giudiziario» spiega Sagal.

Il trauma della violenza sessuale lascia cicatrici psicologiche profonde, soprattutto tra le donne sfollate che già devono affrontare condizioni di vita estremamente dure. Il dottor Mohamed Abdullahi Xareed, uno psichiatra che fornisce cure gratuite per la salute mentale alle comunità sfollate, afferma che la maggior parte dei suoi pazienti sono donne tra i 20 e i 30 anni. Ogni mese tratta più di 35 donne per disturbi legati al trauma. «Queste donne già lottano con condizioni di vita difficili. Quando subiscono stupri e violenze senza accesso a cure per la salute mentale, il loro stato psicologico peggiora drasticamente», spiega il dottor Mohamed.

Le sopravvissute spesso soffrono di angoscia estrema, isolamento o comportamenti irregolari, e le risposte della comunità possono essere crudeli e prive di compassione. «Quando queste donne diventano ansiose o aggressive, i membri della comunità spesso le deridono o le evitano. Se scappano da casa, possono subire ulteriori violenze o essere aggredite di nuovo», afferma il dottor Mohamed.

Anche quando le sopravvissute cercano giustizia, il sistema giudiziario informale della Somalia spesso lavora contro di loro. Secondo l’Associazione degli avvocati somali, i capi clan intervengono frequentemente per proteggere gli aggressori. «L'arbitrato basato sui clan favorisce spesso gli uomini colpevoli, lasciando le vittime senza giustizia», afferma l'avvocata Halima.

In molti casi, le sopravvissute vengono date in moglie ai loro stupratori per nascondere il crimine. «Queste ragazze subiscono una doppia ingiustizia. Non solo viene negata loro giustizia, ma escono dal sistema dell’istruzione e diventano madri senza neanche comprendere cosa significhi il matrimonio», aggiunge Halima.

A volte, gli aggressori vengono mandati all'estero per evitare il processo, mentre le famiglie delle sopravvissute ricevono un risarcimento minimo, che raramente arriva alle stesse vittime. «I pagamenti vengono spartiti tra i membri del clan. Le sopravvissute difficilmente ricevono un supporto finanziario per ricostruire le loro vite», afferma Halima.

La condizione delle donne e delle ragazze sfollate in Somalia non è solo una crisi umanitaria, ma anche una chiara dimostrazione di un sistema giudiziario incapace di proteggere i più vulnerabili. La maggior parte dei casi di stupro non arriva mai in tribunale, mentre la maggior parte delle altre controversie viene risolta informalmente. Senza un intervento urgente, altre donne e ragazze continueranno a soffrire in silenzio. (traduzione dall’inglese di Antonella Mariani)

Bilan Media, di cui fa parte l’autrice di questo reportage, Naima Said Salah, è l’unica media company al femminile della Somalia. Nata nel 2022, in poco tempo è diventato un modello di giornalismo coraggioso, non solo a livello nazionale. Bilam Media ha ricevuto numerosi premi internazionali sia per la libertà di stampa sia per la difesa dei diritti umani. La direttrice Hinda Abdi Mohamoud è stata inserita dalla Bbc tra le 100 donne più influenti del 2024. Oggi in redazione lavorano 6 giornaliste e 2 praticanti, e il progetto per il futuro «è di diventare sostenibili in modo da assumere altre colleghe e allargare la nostra attività», spiega la direttrice. Alcuni reportage di Bilan Media sono stati pubblicati da testate internazionali, altri hanno sollevato dibattiti nel Paese, facendo crescere la consapevolezza della sopraffazione quotidiana di cui spesso fanno le spese le donne e di cui gli altri mezzi di informazione somali tacciono, anche perché sono gestiti da uomini in un Paese in cui le donne sono ai margini. «Siamo modelli di ruolo per le ragazze che vogliono intraprendere la professione di giornalista, ma anche per quelle che vogliono studiare per essere indipendenti. Noi dimostriamo che si può credere in sé stesse, che si può combattere per i propri sogni, anche in un mondo che sembra fatto solo per gli uomini». La direttrice e le giornaliste di Bilan, che in lingua somala significa luce, scrivono di violenza domestica, di abusi, di matrimoni precoci, della diffusione dell’Hiv, della mancanza di servizi per la salute mentale delle neomamme. «Ma non vogliamo parlare solo di cose negative: descriviamo anche donne straordinarie che fanno qualcosa di importante per le proprie comunità: piccole imprenditrici rurali, inventrici, educatrici, politiche di cui nessun altro parla. Andiamo in giro con lo smartphone, filmiamo e montiamo i nostri servizi sul pc, arriviamo nei villaggi più remoti. All’inizio gli uomini ci dicevano di andare a casa, ora che siamo più conosciute ci rispettano di più. Le donne invece con noi si aprono, perché siamo donne anche noi e si fidano». (A.Ma.)

7/ Rischiare la vita per studiare. I sogni di Leysi, Gaviota e le altre. Le giovani dell’Amazzonia peruviana devono lasciare le comunità locali per proseguire la formazione: ma nelle città trovano violenza, abusi, sfruttamento ed estrema miseria. Ecco le loro storie, del Colectivo Todas para Una, Distretto di Nauta (Loreto, Perù) 

Riprendiamo da Avvenire un articolo del Colectivo Todas para Una, pubblicato il 3/8/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

A Loreto, cuore dell’Amazzonia peruviana, le scuole funzionano a singhiozzo. Come ogni anno, anche stavolta le campanelle sono suonate in ritardo: non ad aprile, come nel resto del Paese, secolo il calendario dell’emisfero australe, ma almeno un mese dopo. La causa principale è la mancanza di insegnanti, conseguenza di un sistema amministrativo corrotto che attribuisce spesso le cattedre in cambio di tangenti.

Una volta iniziate, poi, le lezioni sono state sospese a causa delle inondazioni. L’innalzamento e l’abbassamento del livello del “grande fiume” qui, nella selva, disciplinano la vita degli abitanti. Un tempo regolari, ora sono estreme e inaspettate a causa dei cambiamenti climatici. Le lezioni, dunque, si interrompono d’improvviso e, nello stesso modo, riprendono. Esmeralda ha 17 anni e sogna di diventare ostetrica: vuole aiutare le donne, spesso giovanissime, che hanno necessità di un operatore sanitario il quale dia loro fiducia.

È il suo desiderio ma si rattrista quando pensa al fatto che non ha i mezzi per continuare gli studi. «Mi sento stressata, ansiosa, triste. È disperante non sapere come fare a realizzare ciò che desideri così intensamente. I miei genitori non possono sostenermi più di quanto non abbiano già fatto per farmi finire la scuola. Per continuare a studiare dovrei trasferirmi a Iquitos e pagare una stanza, il cibo e i trasporti».

Loreto, la regione amazzonica più grande del Paese, è la seconda nella classifica dello sfruttamento delle risorse naturali nazionali. Per più di 50 anni dalle sue viscere è stato estratto il petrolio, che ha portato tanta ricchezza ai governi in carica. Ai residenti, invece, ha lasciato solo terre rubate e miseria, non è rimasto nulla. Lo dimostra il fatto che nella zona il 71 per cento delle infrastrutture scolastiche è privo dei servizi di base. Migrare è quasi un obbligo per le famiglie che cercano di garantire un domani un po’ migliore ai propri figli. E soprattutto alle figlie. Il trasferimento per ragioni di studio è una delle esperienze più complesse per le adolescenti delle comunità amazzoniche.

Sulle rive del Marañon, le ragazze completano la loro istruzione superiore con tanti sforzi. La sfida maggiore sono gli spostamenti, in genere lunghi, per raggiungere in sicurezza i luoghi in cui ci sono le scuole secondarie. E la fatica non termina con il diploma. Anzi aumenta, poiché proseguire la formazione tecnica o universitaria implica l'allontanamento dai villaggi e la migrazione in città. Quest’ultima avviene in scala: da comunità a comunità più grandi, da comunità più grandi a piccole città e, infine, Iquitos, capitale della regione, dove, nella maggior parte dei casi, le studentesse vivono in estrema povertà nei quartieri periferici, senza acqua né servizi.

L'istruzione femminile in Amazzonia riflette le disuguaglianze sociali. Veronica, che ha appena terminato la scuola superiore, è preoccupata non solo per la sua situazione economica, ma anche per le sfide che l’attendono nella prosecuzione degli studi. «Ho paura di non essere all'altezza, di non superare l'esame di ammissione all’università. La nostra formazione è molto inferiore rispetto a quella degli istituti di Iquitos o di Lima».

Leysi ha 16 anni ed è emigrata a Nauta dalla piccola comunità sul fiume Marañón. La sorella ha fatto lo stesso quando aveva solo 11 anni. I genitori non hanno potuto seguirle perché la terra era l’unica fonte di sostentamento. Le hanno affidate, dunque, ai parenti. «Per una ragazza sola è più pericoloso perché affronta molti rischi. In classe poi sei silenziosa perché l'atmosfera è diversa, ti trovi spaesata. Allora iniziano a metterti da parte, a discriminarti, a bullizzarti». Molte giovani, poi, parlano solo la lingua indigena e devono affrontare il problema di farsi capire. «Spesso questo ti fa vergognare», dice Leysi.

Per Gaviota Tello, antropologa e artista del popolo Kukama, il passaggio da una comunità a una periferia urbana è un’esperienza molto dura. «Non è facile per noi indigeni conservare i nostri sogni quando andiamo via da casa. Dobbiamo affrontare molte sfide: ci sentiamo invisibili, discriminate, rischiamo di cadere vittime di tratta e di violenza, non abbiamo soldi. Alcune di noi smettono di sognare e cercano di adattarsi», dice.

Esistono borse di studio nazionali, come la Beca 18, per le indigene che ottengono ottimi risultati. Anche per chi riesce ad accedervi, però, la realtà nelle università resta critica. Tante non possono pagare il biglietto del trasporto pubblico, o vanno a lezione senza mangiare per tutto il giorno. «Molte colleghe provenienti da altre città, che hanno cercato un lavoro per mantenersi, hanno subito abusi e molestie sessuali. Alcune hanno persino dovuto abbandonare gli studi perché il lavoro occupava troppo tempo».

Kimberly frequenta ancora la scuola superiore, che lascerà quest'anno, e oltre a fare la calciatrice vorrebbe diventare avvocata o infermiera. La sua ansia per il futuro cresce con il passare delle settimane e la fine del ciclo scolastico. Insieme alla stanchezza. La mattina lavora al mercato per procurarsi le risorse per gli studi pomeridiani.

Allo sforzo si somma la situazione emotiva sua e di molte compagne di classe: «Le ragazze che provengono dalle comunità sono spesso scosse, si deprimono, si chiudono in sé stesse, non ricevono sostegno e a volte non mangiano nemmeno per tutto il giorno. Abbiamo sentito di casi di suicidio a Nauta e a Iquitos». Le autorità – dice – non si fanno carico del problema. Per Radio Ucamara, che indaga in modo costante e sistematico la realtà dei popoli indigeni della zona, il suicidio tra gli adolescenti è strettamente legato allo sradicamento, all’allontanamento dalla terra e dalla comunità.

Un'indagine condotta nel 2023 da “Chs Alternativo”, che si occupa di questioni migratorie nella regione, ha rivelato una catena di sfruttamento sessuale di molte donne indigene di età diverse. Catturate con false promesse di lavoro, finiscono per subire violenza e sfruttamento. Non ha smesso di essere comune per le famiglie facoltose delle città recarsi nelle comunità alla ricerca di giovani da reclutare come domestiche. Ai genitori promettono che le faranno studiare in cambio di un piccolo aiuto. In realtà diventano vere e proprie schiave, incapaci di fuggire perché il territorio urbano in cui si trovano è per loro del tutto estraneo. «Poche delle mie compagne indigene sono riuscite a laurearsi in antropologia. Noi indigene fatichiamo per aprirci spazi che lo Stato e la società ci negano. Non dovrebbe accadere in un'epoca globalizzata, che si riempie la bocca della “sviluppo”». Gaviota è tra le poche ad avercela fatta: i momenti bui non hanno cancellato i suoi sogni.

È un'antropologa kukama decisa a sfidare il mondo a partire dalla cosmologia e dalla spiritualità del suo popolo. Crede che sia possibile occuparsi delle giovani indigene nelle città «per aiutarle a non disperare, a non perdere la motivazione, a non sentirsi sole. Affinché conservino la forza di difendere la nostra identità e il nostro popolo». (revisione di Daniela Andrade e Gaviota Tello, traduzione dallo spagnolo di Lucia Capuzzi)

Il collettivo Todas para Una: uno spazio sicuro per le ragazze. E grazie al giornalismo si rompe la barriera dell'invisibilità

Un’esperienza di giornalismo indigeno con un focus di genere. Così si autodefinisce il collettivo “Todas para Una”. L’iniziativa è appena nata nella città di Nauta, nell’Amazzonia peruviana, da un gruppo di giovani dei popoli nativi. L’obiettivo del collettivo è di offrire uno spazio sicuro che dia fiducia alle adolescenti della regione, per le quali la violenza di genere è un dramma quotidiano. Avere voce, recuperare la parola è fondamentale per rompere le barriere dell’invisibilità dietro la quale le indigene arrivate in città dalle comunità nel cuore della selva sono confinate. Da qui l’idea di fare giornalismo, per raccontare la realtà in cui sono immerse dal proprio punto di vista. Non si tratta di un’esperienza amatoriale. “Todas para Una” ha già ricevuto molti riconoscimenti, tra cui il premio nazionale, organizzato da Capital humano y social (Chs) – rete di giornalismo indipendente – per il contrasto alla violenza e alla tratta di donne. Una piaga quest’ultima tragicamente comune in Amazzonia peruviana e legata, in genere, alle miniere illegali. Le stesse mafie che le gestiscono, vi costruiscono nelle vicinanze una sorta di avamposto in cui offrono ai lavoratori sfruttati “svaghi” dove spendere il salario guadagnato nelle pause dai turni massacranti. Il centro degli avamposti sono i “postribar”, postriboli dove giovani e giovanissime – la gran parte sono minorenni – sono costrette a prostituirsi. In questo modo, i gruppi criminali si riprendono i soldi pagati ai minatori. Questi ultimi attirano le ragazze con la falsa promessa di un impiego degno. Una volta arrivate, invece, sono rinchiuse e obbligate a vendersi con la minaccia di ritorsioni su loro stesse e le famiglie. Le reporter del collettivo hanno cercato di dare voce alle vittime di tratta con un’inchiesta e l’organizzazione di forum pubblici per sensibilizzare sulla questione. “Todas para Una” si occupa anche di Batucada Ba TUMBA, uno spazio per il recupero dei tamburi Kukama – uno degli emblemi di questo popolo autoctono – e la promozione della cultura ancestrale.

8/ I sogni spezzati di Nadia, Samah e Ahlam, in fuga dal Libano. Sono soprattutto le donne a essere protagoniste delle migrazioni da Tripoli verso l'Europa. Il racconto di tre storie, non a lieto fine, iniziate nel quartiere poverissimo di Bab-al-Tabaneh, di Sandy Hayek, Tripoli (Libano) 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Sandy Hayek, pubblicato il 12/5/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

Spinte dalla disperazione e aggrappate a una speranza che somiglia più a un miraggio che a una certezza, Nadia, Samah e Ahlam hanno affrontato un rischio estremo: salire su una barca della morte, sfidando il mare e la possibilità concreta di non tornare più indietro, assieme ai propri genitori o ai figli piccoli.

Dopo notti segnate dall’incubo, dopo aver perso tutto, oggi sono pronte a rischiare ancora. Perché? Ognuna di loro ha una storia diversa, tutte condividono lo stesso punto di partenza: Bab al-Tabbaneh, quartiere di Tripoli (la seconda città del Libano, 85 km a nord di Beirut, ndr) tra i più poveri del Mediterraneo. Nadia è ancora minorenne, vicina ai 18 anni. Samah e Ahlam sono madri, donne che portano sulle spalle il peso di famiglie intere. Hanno subito ingiustizie dalla vita, dalla società, dallo Stato. Ed è ora di ascoltarle.

​Nadia, che non smette di cercare suo padre

Quattro anni fa Nadia era una ragazza sana, solare, bella. Legata profondamente al padre, Mohammad al-Hamwi, conosciuto come “al-Samak”, pescatore e dipendente della ditta Lavajet. L’uomo aveva sposato una seconda moglie e si era trasferito in Africa per cercare fortuna.

Ma lì ha contratto la malaria e, su insistenza della moglie, ha deciso di tentare la via dell’Europa, di affidarsi ai trafficanti per raggiungere, via mare, un futuro migliore. Il 23 aprile 2023, alle 10 di sera, è tornato a casa gridando: «Siete pronti? Prendete le vostre cose e venite con me».

La famiglia è salita a bordo di un’imbarcazione sulla costa di Abdeh, in Akkar, nell’estremo nord del Libano, insieme a decine di altre persone. Ma durante la traversata, l’esercito libanese ha intercettato il natante. Il trafficante ha rifiutato di fermarsi, il motore è stato colpito, e l’acqua ha cominciato a penetrare nella barca.

In pochi attimi, il panico e poi il naufragio. Solo Nadia e suo fratello Ali sono riusciti a salvarsi. Ma hanno perso tutto: padre, madre incinta di due gemelli, matrigna, sorellastre. Oggi vivono con la zia Fatima in condizioni di estrema povertà. Non hanno più frequentato la scuola, né ricevuto assistenza psicologica. Nadia, con occhi spenti e voce spezzata, continua a ripetere: «Mio padre è vivo. Io sono convinta che sia uscito dall’acqua. Era un grande nuotatore: è tornato indietro per salvare noi». E non smette di cercarlo, ripartirebbe subito e riaffronterebbero quell’odissea per poterlo riabbracciare.

Nadia e suo fratello - Shanika Wa Laken

Samah: madre sola, prigioniera della miseria

La guerra non ha alcun riguardo per le sue vittime, che nella maggior parte dei casi sono donne e bambini. I loro corpi, i loro diritti, i loro bisogni e i loro sogni diventano il campo di battaglia. Samah ha quasi 50 anni, quattro figli e un marito ucciso da un cecchino a Bab al-Tabbaneh.

Senza istruzione, né lavoro, né rete di supporto, ha provato tutto per sopravvivere dignitosamente. «Come posso trovare un impiego? Neppure i laureati ce la fanno. Non posso lasciare i miei figli soli per pochi spiccioli».

Quando il cognato le parlò di un viaggio verso l’Europa via mare, Samah ha visto in quella proposta l’unica possibilità di salvezza. È riuscita a racimolare 10.000 dollari. «Sapevo che era pericoloso, ma altri ce l’avevano fatta. E forse Dio avrebbe aiutato anche noi».

Sono partiti nel cuore della notte, stipati su una piccola barca insieme ad altre 90 persone. Lo spazio era inesistente, il freddo pungente. Sua figlia Layla aveva una vertebra fratturata. «Ho fatto di tutto per curarla, ho chiesto soldi a politici, a benefattori. Non ce la facevo più. Su quella barca mi dicevo: perdonatemi, lo faccio per voi». Per tre notti sono restati alla deriva, senza cibo né acqua. Una donna le ha affidato il suo neonato dicendole: «Non lo voglio più. Gettalo in mare». Samah lo ha tenuto con sé. «Mio figlio Zakariyya mi chiedeva: “Mamma, moriremo qui?” E io non rispondevo. Piangevo in silenzio».

Quando finalmente furono salvati dalla marina libanese, l’interrogatorio è stato lungo. I soldi persi, la dignità pure. Eppure oggi, Samah lo ripete: «Se potessi riprovarci, partirei di nuovo».

Ahlam: la donna delle speranze infrante

Ahlam, il cui nome in arabo significa “sogni”, ha 57 anni. Il suo sogno più grande è rivedere suo figlio, fuggito in Germania per sfuggire a una condanna in Libano. «Aveva 17 anni, era impulsivo e sciocco, ma non lo vedo da più di dieci anni e non passa giorno in cui non vorrei riabbracciarlo».

Con il marito malato e i figli adulti incapaci di aiutarla, Ahlam ha speso tutti i suoi risparmi per tentare di raggiungere l’Europa. «O moriamo insieme, o viviamo insieme», gli ha detto. Sono partiti da Qalamoun. Dopo giorni in mare, sono arrivati in Turchia. Ma la polizia li ha arrestati e li ha rinchiusi in una prigione a Izmir.

Lì hanno vissuto anche il trauma del terremoto. Un’associazione turca li ha aiutati a rientrare in Libano. Ma il sogno, per ora, resta tale. «Se potessi farlo di nuovo, lo farei. Non ho più tempo da perdere. O vivo con dignità, o questa vita non ha più senso».

Ahlam e suo marito - Shanika Wa Laken

Il dramma dei numeri, la responsabilità dell’Europa

Secondo i dati di Information International, tra il 2013 e il 2022 almeno 248 persone sono morte annegate cercando di migrare via mare. Centinaia risultano disperse.

Solo nel 2021, le autorità libanesi hanno fermato 25 imbarcazioni con 750 migranti. I migranti, principalmente libanesi, siriani ed etiopi, partono dalle regioni più povere del Libano come Tripoli, Minieh, Qalamoun e Abdeh.

Nonostante il numero di death boats, barche della morte, sia diminuito negli ultimi due anni, la minaccia di nuove tragedie persiste mentre il collasso economico del Libano spinge più persone a rischiare la vita.

La devastazione della guerra israelo-palestinese ha ulteriormente paralizzato il Paese, causando danni stimati in 8,5 miliardi di dollari che colpiscono più duramente – di nuovo – donne e bambini. I flussi finanziari vitali per molti libanesi sono stati interrotti dai cambiamenti nelle politiche statunitensi, come la sospensione dei finanziamenti Usaid che supportavano istruzione, assistenza sanitaria e sviluppo economico.

Inoltre, le minacce di tagli ai finanziamenti dell’Unrwa, che fornisce servizi essenziali a centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi in Libano, accelerano la disperazione.

L’Italia rappresenta la principale meta per queste traversate, accogliendo il 56% dei migranti. Il programma dei corridoi umanitari del governo, in collaborazione con la comunità di Sant’Egidio, ha previsto l’accoglienza di 300 migranti da Libano, Etiopia e Costa d’Avorio.

Ma nessuno di loro otterrà asilo. Per molti libanesi, il sogno di una vita migliore rimane legato alla migrazione. Mentre l’Europa costruisce muri e frontiere, una domanda resta cruciale: non sarebbe meglio che si impegnasse per aiutare le persone a costruire un futuro dignitoso nei propri Paesi, piuttosto che vederle poi costrette a scegliere tra la miseria e la morte in mare?
(traduzione dall’inglese a cura di Viviana Daloiso)

Sharika Wa Laken: la voce femminista del mondo arabo che sfida i poteri dominanti e mette le donne al centro

È una piattaforma digitale femminista all’avanguardia, Sharika Wa Laken (per leggerne la versione in inglese cliccare su https://en.sharikawalaken.media/), impegnata da anni ad amplificare le voci di donne e ragazze in tutte le loro diversità nella regione araba attraverso la voce, le riflessioni, i reportage e le denunce di giornaliste donne. Nata come braccio mediatico dell’organizzazione femminista di base “Female”, co-fondata dall’attivista Hayat Mirshad nel 2012, la piattaforma si distingue per un approccio dichiaratamente femminista. Obiettivo, spiegano da Tripoli in Libano le colleghe della rete, «opporsi apertamente al patriarcato, al colonialismo, alle narrazioni egemoniche e a ogni forma di occupazione — sia essa del corpo, della terra, della voce o dell’identità». Al centro della missione del network vi sono le esperienze vissute e i racconti in presa diretta, in netta contrapposizione alla tendenza del mondo arabo di silenziare ed emarginare le donne. Sotto la direzione della caporedattrice Hayat Mirshad, della coordinatrice della redazione araba Mariam Yaghi e della responsabile dei contenuti in inglese e traduzioni Hala Hajj, la piattaforma collabora con oltre 250 reporter e contributor provenienti dall’intera regione Mediorientale e del Nord Africa, documentando problematiche ignorate dai media tradizionali: dall’esposizione della violenza di genere e delle leggi discriminatorie, fino alla documentazione della resistenza quotidiana delle donne nei contesti di repressione e conflitto. Sharika Wa Laken produce contenuti multimediali esclusivi basati su un’analisi al femminile, promuove la diffusione di conoscenze accessibili e si batte per riforme legali e sociali proponendo di ripensare il giornalismo come strumento costruttivo di giustizia.

9/ Da dirigenti ad allevatrici di polli: la dignità delle lavoratrici afghane. Espulse dai taleban dalle principali professioni, tante sono costrette a vendere uova, cucire o fare le domestiche per sfamare se stesse e le famiglie. «Non sanno quanto sappiamo essere perseveranti», di Nasrin Jawadi e Khadija Haidary, Sheberghan (provincia di Jawzjan) 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Nasrin Jawadi e Khadija Haidary, pubblicato il 9/6/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

Somaya nasconde il cesto di uova sotto il chador blu mentre si affretta verso il mercato Yingi Kint di Sheberghan, nella provincia di Jawzjan. È un luogo frequentato esclusivamente da uomini ma Somaya ha messo da parte la paura per andarci ogni giorno.

La prima tappa è un piccolo negozio di alimentari di un conoscente con cui si è accordata per vendere le uova. «Da ognuno ricavo cinque afghani (la valuta locale equivalente a meno di dieci centesimi di euro, ndr)», racconta a Zan Times. «Vendo da 30 a 35 uova al giorno. A volte vado di negozio in negozio per smerciarle se il mio conoscente non le compra tutte».

Sa che i taleban proibiscono alle donne di girare per il mercato o di commerciare apertamente. Quindi non si attarda ma torna a casa il più rapidamente possibile. Con i modesti guadagni delle uova deve soddisfare le necessità essenziali della propria famiglia.

Nei quasi quattro anni di potere, i taleban hanno imposto numerose leggi e regolamenti volti a limitare in modo grave o addirittura proibire il lavoro delle donne.

Per prima cosa, queste ultime sono state espulse dagli uffici governativi, poi è stato vietato loro di avere incarichi nelle organizzazioni non governative, nelle Nazioni Unite, nelle università e persino nei saloni bellezza femminili.

Con la progressiva riduzione delle opportunità di impiego, sempre più afghane sono state costrette ad accontentarsi di posti non qualificati e faticosi. Dodici anni fa, da quando il marito è morto in un incidente stradale, Somaya è diventata il capofamiglia: deve, dunque, farsi carico della figlia e della madre.

Un nucleo di tre donne è fuori dalla logica dei taleban per i quali Somaya, come tutte le altre, deve uscire di casa solo in compagnia di un tutore maschio. Questa 44enne – che sopravvive nutrendo e prendendosi cura di alcuni polli – un tempo era una dirigente dell’amministrazione provinciale. «Avevo esperienza nel mio campo – spiega –. Le persone erano soddisfatte del mio lavoro; tutti mi rispettavano. In realtà, non avevo mai gestito un allevamento di pollame; non sapevo nemmeno badare a una sola gallina. Ma ho dovuto arrangiarmi e imparare poiché non trovo nient’altro. E ciò mi rattrista profondamente». Un tempo guadagnava circa 10mila afghani al mese (quasi 130 euro, ndr). Ora è fortunata se arriva alla metà grazie al pollaio improvvisato nel cortile di casa.

Somaya non è un caso isolato, come confermano i dati. Nel 2024, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo ha rivelato che, a causa delle restrizioni, l’occupazione femminile totale è calata dall'11 per cento al 6 per cento nel giro di due anni.

Di recente, l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), citando l’Ong specializzata Acaps, ha dichiarato che il numero di lavoratrici afghane è precipitato dal ritorno al potere dei taleban.

Il rapporto Acaps, pubblicato a febbraio, sottolinea che mettersi in proprio è l'unica opzione disponibile per le donne. Per questo, il numero di imprese al femminile è quadruplicato tra il 2021 e il 2024. A questo, sempre in base alle stime di Acaps, si aggiunge la cifra di società senza licenza gestite da donne, più che raddoppiata negli ultimi anni.

Ma anche queste attività non sono esenti da gravi rischi. Nel giugno 2022, Zuleikha e il marito sono stati licenziati dopo che il loro ufficio ha ricevuto un avvertimento dai taleban. Entrambi erano professionisti con 15 anni di esperienza nelle organizzazioni internazionali, tra cui Acted e l'Aga Khan development network. Eppure non sono riusciti a trovare un nuovo impiego.

Così, come Somaya, hanno creato un pollaio in cortile e hanno avviato un allevamento di galline. La coppia, che un tempo guadagnava più di 40mila afghani al mese (circa 500 euro, ndr), ora fatica a ricavarne 3mila (meno di 40, ndr). «Le galline depongono le uova; i miei figli ed io ci prendiamo cura di loro, poi vendiamo le uova e con questo copriamo a malapena le spese», spiega.

Il marito di Zuleikha, inoltre, possiede un triciclo da carico che gli consente di ottenere 200 afghani al giorno (2,5 euro, ndr). Con queste cifre non ce la fanno a sopravvivere. «Crescere un figlio è difficile, figuriamoci sei. Siamo davvero in una situazione difficile, non siamo in grado di andare avanti», si lamenta.

Zan Times ha parlato con sette donne delle province di Takhar e Jawzjan che in passato ricoprivano incarichi qualificati all’interno della pubblica amministrazione o in Ong e ora devono allevare galline o svolgere altri lavoretti, come il ricamo o le pulizie domestiche, per sfamare sé stesse e le famiglie.

Fino al novembre 2024, Shabanam, 32 anni, è stata formatrice in un istituto di educazione sanitaria. Ora è una sarta che decora con le perline le culle dei neonati. Seppure aveva appreso quest’arte fin da bambina dalla madre, prima non l'aveva mai considerata un mezzo per guadagnarsi da vivere.

«Mio marito mi diceva: “Non farlo, non ci riuscirai” – racconta –. Ma dopo essere caduta in depressione a causa della disoccupazione, ho insistito. Avevo necessità di lavorare e di essere indipendente». Shabanam vende i suoi prodotti alle donne del quartiere, nei bazar locali e ad acquirenti che comprano all'ingrosso e li esportano in altre province. Sposata da solo due anni fa e senza figli, è determinata a costruire una vita migliore per la futura famiglia. «Questa è la mia lotta. I taleban si illudono di poter sconfiggere le donne afghane, ma non sanno nulla della nostra perseveranza e della nostra capacità di resistenza», dichiara con voce risoluta.

Mentre Shabanam e marito riescono comunque a cavarsela, Golchehra, 27anni, capo di una famiglia di sei persone, vive sull’orlo di un precipizio. Un tempo direttrice di una scuola privata, è costretta ad accettare qualsiasi lavoro per sfamare i suoi. Golchehra va di casa in casa, lavando vestiti e pulendo case per 250 afghani al giorno (circa 3 euro, ndr). «Alcune famiglie mi umiliano, mentre altre, con compassione, mi dicono: “Che fine ha fatto la ragazza che un tempo era direttrice e aveva un buono stipendio?”». In alcune case dove ha prestato servizio, è stata molestata.

«Alcuni uomini mi hanno proposto di fare sesso in cambio di denaro e questo mi turba profondamente», dice. «Devo, però, fare finta di nulla. Ho dovuto reprimere tutti i sentimenti. Ora vivo solo per la mia famiglia». Non può smettere di lavorare anche se non si sente al sicuro. «Vorrei trovare un posto migliore. Non è facile. Ci provo, però nella speranza che le mie sorelle non debbano affrontare quel che sto soffrendo io».

Sono stati utilizzati pseudonimi per le intervistate, così come per Nasrin Jawadi, giornalista afghana
Khadija Haidary è una reporter di “Zan Times”
La traduzione dall’inglese è di Lucia Capuzzi

Zan Times, il giornale delle donne scavalca i Continenti: lo scrivono insieme reporter rimaste nel Paese ed espatriate

Quando, il 15 agosto 2021, i taleban sono tornati a Kabul, Zahra Nader non era in Afghanistan. Era partita tre anni prima per salvarsi dalla furia degli estremisti che avevano intensificati gli attacchi mirati nei confronti dei giornalisti. Zahra, corrispondente di punta per il “New York Times” dalla capitale afghana era un bersaglio. Da qui la scelta di trasferirsi a Toronto con la famiglia e là ha frequentato un dottorato in Studi di genere alla York University. Anche a distanza, il crollo della Repubblica e la creazione dell’Emirato è stato un duro colpo. «Ho sentito di avere la responsabilità di fare qualcosa per le donne del mio Paese». Nell’agosto 2022 è nato, così, “Zan Times”, cioè il “giornale delle donne”, poiché ha una redazione tutta femminile. A realizzare il quotidiano online sono reporter afghane della diaspora e da altre rimaste all’interno e costrette a pubblicare con uno pseudonimo. Sono queste ultime a raccogliere informazioni locali, a realizzare interviste e inchieste su temi scomodi per il regime: dagli abusi nei confronti delle minoranze, ai matrimoni forzati, la violenza domestica, la resistenza femminile. Un lavoro ad alto rischio: rischiano di essere arrestate, sottoposte a punizioni fisiche, addirittura uccise. Per questo, l’anonimato è fondamentale. Gli articoli sono confezionati insieme alle colleghe espatriate che le supportano con ricerche e monitorando i loro spostamenti per cercare di ridurre i pericoli. «Ci informano ogni volta che escono di casa per lavoro, ci indicano esattamente dove si recheranno e chi incontreranno. Le giornaliste locali, inoltre, non si conoscono fra loro in modo da evitare che, in caso di fermo, possano rivelarne i nomi ai taleban. Siamo noi a fare da collegamento», sottolinea la fondatrice di “Zan Times” che, per iniziare il progetto ha dato fondo ai propri risparmi e ha coinvolto i lettori in una raccolta online. I testi sono scritti in inglese e farsi, simile al dari, tra le lingue più diffuse in Afghanistan insieme al pashtu.

10/ La cura di villaggio in villaggio: in India le infermiere fantasma. Le operatrici sociosanitarie e la fatica del lavoro nelle comunità rurali e l’incuranza del governo che nega tutele, diritti e paghe sufficienti, nonostante siano la colonna portante della sanità, di Khabar Lahariya 

Riprendiamo da Avvenire un articolo di Khabar Lahariya, pubblicato il 6/7/2025. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giustizia e carità.

Il Centro culturale Gli scritti (15/9/2025) 

Distretto di Mahoba, Uttar Pradesh Alle cinque del mattino, nel villaggio di Paswara, distretto di Mahoba, “Asha Shukla” è già in movimento. Non è una semplice operatrice socio-sanitaria: è la presidente distrettuale delle operatrici Asha di Mahoba e lavora nella sanità pubblica da oltre un decennio.

La sua giornata inizia con una lista di donne incinte da visitare e termina ben oltre il tramonto, dopo aver accompagnato pazienti, monitorato neonati e risolto controversie tra abitanti del villaggio e cliniche.

«Siamo sempre le prime ad arrivare e le ultime ad andare via – dice –. Ma quando chiediamo diritti o riconoscimenti, ci rispondono che siamo solo volontarie».

In India, e in tutto l’Uttar Pradesh, donne “Asha Shukla” rappresentano la base della sanità rurale, prive di supporto o finanziamenti ma dotate di pura resistenza. Sono infermiere, educatrici, procacciatrici di ambulanze, raccoglitrici di dati sanitari e soccorritrici d’emergenza: tutto in una sola persona.

Il sistema sanitario rurale indiano si basa su oltre un milione di operatrici Asha e coprono circa il 75% della popolazione rurale del Paese.

Nonostante il loro fondamentale contributo, sono costantemente sottovalutate: mal pagate e private di sicurezza lavorativa, reddito fisso o protezione di base. Questa inchiesta racconta le vite di cinque operatrici Asha provenienti da diverse zone dell’Uttar Pradesh. Insieme, testimoniano una verità condivisa: i risultati sanitari dell’India poggiano sul lavoro invisibile, non valorizzato e sfruttato delle donne.

Chi sono le operatrici socio-sanitarie Asha

Le Asha, ovvero operatrici socio-sanitarie accreditate, sono state introdotte nel 2005 nell’ambito della Missione nazionale per la salute rurale (oggi parte della Missione nazionale per la salute, Nhm).

L’idea era che fossero donne della comunità incaricate di collegare le famiglie rurali ai servizi sanitari governativi. Ogni operatrice è responsabile di un bacino demografico compreso tra 1.000 e 2.500 persone, a seconda della regione.

Il loro compito è promuovere la salute materna e infantile, monitorare le vaccinazioni, accompagnare i pazienti in ospedale e garantire che le comunità siano istruite su igiene, nutrizione e prevenzione delle malattie. «Spesso finisco per spendere soldi miei per portare i pazienti in ospedale o comprare loro medicinali. Nessuno ci rimborsa, né per il trasporto, né per il trattamento. È come se il sistema si aspettasse che pagassimo per fare il nostro lavoro», sottolinea una di loro.

Le Asha costituiscono la più grande forza lavoro sanitaria comunitaria del mondo. Eppure sono ancora classificate come “volontarie”, il che significa nessun salario garantito, nessun beneficio, nessuna tutela come lavoratrici.

A Chitrakoot, Renu Pandey, 45 anni, lavora come operatrice socio- sanitaria dal 2006 e copre una popolazione di 1.122 persone. Si sveglia alle cinque del mattino e incontra ogni giorno tra le 20 e le 25 donne.

Alcune hanno bisogno di controlli prenatali, altre sono madri con neonati. Monitora il peso dei bambini, controlla la febbre, segue la guarigione da malattie e consegna farmaci ai pazienti cronici con tubercolosi. «A volte dobbiamo assistere a parti di notte. Andiamo da sole, camminando nel buio. Abbiamo paura, ma non c’è nessuno che ci aiuti», racconta.

«Non abbiamo dispositivi di protezione, né trasporto – aggiunge –. Se un paziente con tubercolosi salta una dose, la colpa è nostra». Sunita Soni, un’altra operatrice di Chitrakoot, ha 44 anni. Anche la sua giornata è fatta di lunghe ore, camminate continue e documentazione infinita. «Non abbiamo scooter, né strade decenti. Portiamo i nostri registri, le nostre borse sotto il sole cocente. Eppure, alcune persone ci gridano contro dicendo che non facciamo abbastanza».

Kanchan, 38 anni, lavora nel villaggio di Ahmedabad, nel sotto-distretto di Rudauli. Viaggia attraverso vicoli stretti per raggiungere case isolate. «Se qualcuno ha la febbre, chiamano noi. Se una donna incinta deve essere portata in ospedale, dobbiamo organizzare tutto noi. Anche il trasporto», argomenta. Geeta Devi, che lavora nel villaggio di Basudevpur, sotto- distretto di Bikaapur, afferma che il suo ruolo è fondamentale ma scarsamente riconosciuto. «Le persone nel villaggio si fidano più di noi che degli ospedali. Ma quella fiducia non si traduce in supporto o sicurezza».

Dal 2005, il ruolo delle Asha si è notevolmente ampliato. Oggi non sono solo promotrici della salute, ma anche raccoglitrici di dati ed epidemiologhe. Oltre ai compiti principali ora si occupano di malattie croniche, campagne di sensibilizzazione e rendicontazione digitalizzata.

Le operatrici devono registrare il loro lavoro in una app, Mdm 360 Shield, sviluppata dal governo per monitorare i servizi di salute materno-infantile. Formalità che, nella pratica, ha aumentato il carico di lavoro. E che pesa anche economicamente visto che devono sobbarcarsi le spese della connessione internet. «L’app non funziona senza dati mobili – sottolinea Sunita da Chitrakoot –. Pago la bolletta del mio telefono da sola. Nessuno ci rimborsa».

Le infermiere sono pagate in base a un modello standard di prestazioni. Il governo centrale offre 2.000 rupie al mese per otto attività principali, l’equivalente di 20 euro. Per il lavoro aggiuntivo, ricevono piccole somme: 300 rupie per ogni parto, 100 per accompagnare un paziente, 150 per il follow-up post-operatorio.

Ma i pagamenti sono spesso in ritardo, irregolari e insufficienti. La maggior parte delle Asha guadagna tra 3.000 e 6.000 rupie al mese (tra i 30 e i 60 euro), pur prestando servizio a tempo pieno. «Lavoriamo otto-dodici ore al giorno. Come si può vivere con 4.000 rupie al mese?», si chiede Sunita.

Pagamenti insufficienti e nessun riconoscimento

La classificazione delle operatrici come “volontarie” consente allo Stato di evitare l’obbligo di fornire salari fissi, congedi di maternità, pensioni o assicurazioni. Solo alcuni Stati – come Andhra Pradesh, Kerala, Karnataka, Haryana, Bengala Occidentale e Sikkim – offrono retribuzioni fisse.

Negli ultimi anni, le operatrici hanno iniziato a ribellarsi. Durante la pandemia e le elezioni statali, migliaia hanno protestato in tutta l’India. Chiedevano compensi garantiti, migliori condizioni di lavoro, riconoscimento come lavoratrici e un’assicurazione sanitaria. Gli esperti di sanità pubblica sostengono da tempo che i risultati sanitari dell’India si basano sul lavoro non retribuito delle donne. «Le Asha sono essenziali per il funzionamento del sistema sanitario indiano», spiega un ricercatore di politiche sanitarie a Delhi. «Ma la loro invisibilità nei bilanci e nelle politiche mostra quanto il sistema dia per scontato il lavoro femminile».

In tutta l’India, le operatrici Asha continuano a essere la forza più affidabile nella sanità rurale. Ma finché non riceveranno dignità, protezione e una retribuzione equa, il Paese rischia di distruggere il sistema che tiene in vita i suoi cittadini più vulnerabili.

(Hanno collaborato: Shivdevi, Shyamkali, Sangeeta e Sejal)

Khabar Lahariya, il giornale di sole donne che racconta la vita delle remote campagne indiane sfidando gli stereotipi di genere

È l’unico organo di informazione indipendente in India gestito interamente da donne, Khabar Lahariya, nato come giornale cartaceo a Chitrakoot nel 2002 proponendo storie e approfondimenti sulla realtà locale delle comunità rurali. Articoli scritti da una prospettiva prevalentemente femminista con un linguaggio molto semplice e, in alcuni casi, in dialetto. Negli anni è diventato un punto di riferimento per il giornalismo investigativo sul territorio e autorevole fonte di notizie provenienti dalle aree più remote del Paese spesso prive di copertura mediatica. Oggi offre ai suoi lettori (circa 20 milioni di persone) anche contenuti culturali e di intrattenimento. Per Khabar Lahariya lavorano 25 giornaliste di diversa estrazione sociale e religiosa residenti in sei Stati dell’India settentrionale. Le reporter sono votate a portare la prospettiva femminista nel racconto, ormai solo digitale, dell’India rurale per affermare il ruolo delle donne nelle piccole città e nei villaggi. La visione a più ampio spettro della testata, che nel 2019 è entrata a far parte del gruppo Chambal Media, è coltivare un giornalismo indipendente, inclusivo e radicato sul terreno per potenziare le comunità emarginate e dare voce alla gente comune altrimenti ignorata. Durante la pandemia di Covid, ha contribuito a costruire la consapevolezza pressoché inesistente dei rischi legati al coronavirus. Nel 2018, ancora, ha lanciato un’iniziativa per dare voce alle donne costrette a tacere le molestie sessuali e la violenza subite dando vita al movimento #RuralMeToo. Non sono mancate minacce legate all’aver messo in discussione lo status quo e gli stereotipi di genere. Tre anni fa ha lanciato la Chambal Academy, una piattaforma per formare la nuova generazione di giornaliste digitali dell’India rurale. I corsi, dedicati a chi ha poca o nessuna competenza in materia, comprendono approfondimenti su come riconoscere e comprendere le dinamiche di genere, casta e patriarcato nella società indiana. (Angela Napoletano)